22 Settembre 2024, domenica
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Smartphone: leader nello shopping online

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Lo smartphone cambia le regole dell’e-Commerce. Infatti, secondo uno studio condotto dall’azienda myThings, che si occupa di soluzioni pubblicitarie personalizzate, il cliente che usa lo smartphone acquista più rapidamente e in orari diversi rispetto a chi compra da PC.

Il processo decisionale è infatti 13 volte più veloce, ma non solo: nel weekend l’ammontare di vendite online cala solo del 6% per cellulari e tablet, a fronte del -30% registrato per i PC e durante le ore serali lievita del 33% per i dispositivi mobili contro il +14% del computer.

Anche la dimensione del device gioca un ruolo importante. Nonostante il tablet sia più maneggevole da usare per gli acquisti, lo smartphone gode di una maggiore diffusione e viene usato in maniera mirata: l’utente non naviga come si fa con tablet e PC ma punta direttamente al prodotto già scelto nel negozio fisico, per confrontarne il prezzo online.

Nel 2013, l’m-commerce via smartphone ha raggiunto un valore di 510 milioni di euro, il 4,5% del mercato online complessivo.

Dedagroup rafforza le competenze nella social business collaboration

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Dedagroup, capofila di Dedagroup ICT Network, ha annunciato l’acquisizione dell’80% delle quote di Beltos, società toscana con know-how consulenziale e applicativo sui temi della social business collaboration e business intelligence.

BUSINESS DA 2 MILIONI DI EURO PER IL 2014 – Beltos, con un giro di affari previsto per il 2014 di circa 2 milioni di euro e composta da 22 professionisti, presenta una offerta trasversale ai mercati in cui opera (fashion, automotive, logistica, pharma) e ha competenze nello sviluppo di app mobile, nella realizzazione di progetti di outsourcing e gestione a tutto tondo dell’IT, oltre che esperienze nell’implementazione, customizzazione e assistenza applicativa SAP.

FOCUS SU SOCIAL BUSINESS COLLABORATION – Grazie all’acquisizione dell’azienda toscana, Dedagroup non solo rafforza la propria presenza territoriale nel centro Italia ma arricchisce le competenze di consultancy per le imprese nell’ambito della social business collaboration.

«La progettualità alla base di una realtà come Beltos non poteva che sposarsi con l’approccio del Gruppo, che vede nella tecnologia un fattore abilitante per le imprese, capace di creare un reale vantaggio competitivo – dichiara Gianni Camisa, AD di Dedagroup e Presidente di Beltos. L’operazione, che rafforza la nostra presenza nel centro Italia, si inserisce a pieno titolo nel nostro modello di Federazione delle Competenze, andando ad accrescere il know-how del Network e aumentando la qualità della nostra offerta di soluzioni ICT».

Da Kodak 4 nuovi scanner per desktop

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Ingombro ridotto al minimo e una migliore velocità di elaborazione. Kodak Alaris ha creato una nuova serie di scanner per desktop, KODAK i3000, per offrire al mondo bancario una maggiore produttività ed efficienza nella scansione.

QUATTRO MODELLI – La gamma è composta da quattro modelli: gli scanner KODAK i3200, i3400, i3250 e i3450, con un ingombro di 43 cm x 37 cm possono scansionare documenti fino al formato A3 garantendo una alta qualità delle immagini.

DUE POSSIBILITA’ DI SCANSIONE – La nuova serie, inoltre, fornisce sia la scansione rotativa sia a lastra piana in una singola unità integrata e di dimensioni ridotte ed è caratterizzata da un ADF da 250 fogli per permettere una scansione veloce in un unico batch.

GESTIRE I DOCUMENTI PIU’ INGOMBRANTI – In aggiunta, un percorso selezionabile di uscita posteriore della carta consente agli scanner di gestire documenti più spessi o elementi lunghi fino a 4,1 metri.

APPLICARE DATE E CODICI – Infine, una stampante post scansione è disponibile come accessorio affinché i documenti possano essere stampati con un riferimento data o codice personalizzabile una volta concluso il processo.

Tra Keynes e Marx, un mondo di disoccupati

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È stato uno dei temi dibattuti nell’ultimo vertice di Davos: la disoccupazione non è un problema locale – europeo – e congiunturale – collegato alla crisi. È una questione globale che raggiunge anche i paesi dell’Estremo Oriente. Anche dove il Pil presenta chiari segnali di ripresa, nuovi posti di lavoro stentano a crearsi – caso conclamato negli Stati Uniti.

Vi è però un tema nuovo, oltre all’ormai assodata rigidità strutturale dei mercati del lavoro: l’effetto della tecnologia. La crescente meccanizzazione della produzione era stata prevista da Keynes come fattore che avrebbe influito sui mercati del lavoro. Si rileva, però, che Keynes avrebbe previsto anche un mondo ideale dove la tecnologia avrebbe permesso all’umanità di lavorare solo 15 ore a settimana. Come possono agire i governi per trovare una risposta alla mancata – anche se parzialmente – lungimiranza di Keynes?

Manodopera scontata
La disoccupazione, è un altro fatto, colpisce specialmente i giovani, coloro che fanno fatica ad inserirsi nel mercato del lavoro per la prima volta. Eppure ne sono colpiti non solo i giovani provenienti da società demograficamente dinamiche, in crescita o numerose – come quelle asiatiche o islamiche – che anzi vedono nella loro incapacità di assicurare lavoro a questi giovani uno dei loro principali fattori di instabilità.

Sono vittime della disoccupazione giovanile anche le più anziane e demograficamente inattive società occidentali le quali si vedono tra l’altro costrette a prolungare l’età lavorativa dei più anziani per mantenere stabili i loro sistemi pensionistici, generando così un circolo perverso di invecchiamento e disoccupazione.

La sola demografia spiega dunque localmente alcuni fenomeni, ma non ci fornisce una chiave di lettura globale. Occorre costruire uno schema di lettura che incroci i dati demografici con le caratteristiche strutturali dei differenti sistemi economici.

Le economie dei paesi asiatici esportatori di manufatti a basso valore aggiunto sono tradizionalmente economie che richiedono maggiore intensità di lavoro e non di capitale (di tecnologia). Come spiegare allora la crescente difficoltà del sistema economico cinese a garantire occupazione ai milioni di emigrati dalle campagne verso le città?

Sono braccia non facilmente riassorbite da un’industria che ne sembrerebbe affamata. In realtà l’industria cinese sta andando incontro a un’evoluzione sia nelle richieste salariali dei lavoratori che nell’integrazione di tecnologia nella produzione, comportando un aumento complessivo dei costi e una crescita della concorrenza da parte di paesi – come il Vietnam – che possono offrire un ulteriore sconto sul costo della manodopera, sconto che compensa una maggiore arretratezza di tecnologie produttive comunque rapide a diffondersi.

Prezzi in competizione
Sembra interessante notare come sia Marx a spiegare Keynes: il prodotto che richiede maggior quantità di tecnologia rispetto al lavoro è un prodotto a maggior valore aggiunto che può essere collocato sul mercato a un prezzo maggiore.

Ma il prodotto che richiede maggior quantità di lavoro rispetto al capitale è quello da cui si può, sfruttando al massimo il fattore lavoro, estrarre il maggior profitto relativo, collocando quel prodotto sul mercato a un prezzo minore, sempre alla ricerca dei bacini di offerta di lavoro meno caro.

Tutto ciò crea una competizione continua tra i paesi per offrire alle imprese fattori di produzione a miglior prezzo: vi sono paesi che offrono alta tecnologia, paesi che offrono manodopera a buon mercato, paesi rimasti a metà che offrono varie combinazioni dei due fattori a prezzi differenti.

Se la crescita dei salari e la decisione di volgere la propria industria nazionale verso produzioni a maggior valore aggiunto contribuiscono a spiegare l’aumento della disoccupazione in paesi come la Cina, abbiamo già analizzato come l’eccesso demografico e la debolezza strutturale di economie fondate sull’esportazione di materie prime come quelle di molti paesi dell’area arabo – islamica spieghi la loro disoccupazione strutturale.

In Occidente, la disoccupazione giovanile colpisce società nelle quali si ideano prodotti ad alto valore aggiunto, dove l’intensità tecnologica è elevata – richiedendo quindi meno “braccia”- e i giovani sono di meno.

Eccezione tedesca
Non sempre è così. La Germania non soffre disoccupazione ed è invece costretta ad importare manodopera qualificata per le proprie industrie altamente tecnologiche e produttive. I lavoratori che scarseggiano sono quelli con le abilità e le competenze adatte al sistema tecnologico. L’Italia è un paese altamente industrializzato, ma molte imprese sono focalizzate sulla produzione di manufatti a basso contenuto tecnologico. Questo rende il sistema Italiano debole verso la concorrenza cinese.

Emerge quindi un dato: la disoccupazione è un fenomeno complesso e mutevole, solo la demografia o solo l’analisi economica non bastano a spiegare un fenomeno che colpisce società diverse. Le imprese si muovono su un mercato globale del lavoro e della produzione alla ricerca della miglior combinazione dei fattori di produzione e di presidio geografico dei maggiori mercati, causando disoccupazioni differenti tra loro.

I governi devono attivarsi su tre punti complementari: tutelare l’equilibrio demografico delle proprie società, evitandone sia l’esplosione sia l’eccessivo invecchiamento, fare in modo che i lavoratori possano offrire al mercato le competenze richieste e tutelarne il benessere, il reddito e il potere di acquisto, onde evitare crisi dei consumi.

Brexit or not Brexit, questo il dilemma

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Alta tensione nella coalizione di governo inglese. A fare aumentare la febbre tra conservatori e liberali è la notizia della bocciatura, da parte della Camera dei Lords, del progetto di referendum sui rapporti della Gran Bretagna con l’Unione europea (Ue).

Se si aggiunge il peso del referendum sull’indipendenza della Scozia – che si tiene in settembre – si può capire che la scena politica inglese stia conoscendo una fase di grande movimento. Per una volta, le questioni principali non sono economiche e finanziarie, ma riguardano le basi costituzionali del Regno Unito, la sua integrità come stato, la sua identità nazionale e il suo ruolo nel mondo.

Europa sconvolgente
La bocciatura – il 31 dicembre – del progetto referendario può anche essere il risultato di imbarazzanti errori procedurali. Il primo ministro ha subito detto che andrà avanti lo stesso, ma la vicenda conferma fino a che punto la ‘questione europea’ riesce a sconvolgere l’azione di qualsiasi governo o partito inglese. Dopo anni di dibattiti, sussulti e tensioni con gli altri membri dell’Ue, la questione europea sta convergendo rapidamente verso un singolo quesito: la Gran Bretagna vuole o non vuole rimanere dentro le istituzioni dell’Unione?

Le elezioni europee del prossimo maggio si avvicinano e tutte le indicazioni prevedono un’affermazione senza precedenti del partito per l’indipendenza del regno Unito (United Kingdom Independence Party – Ukip). Nato pochi anni fa e considerato del tutto marginale ed eccentrico fino all’epoca di Cameron, l’Ukip è dato dai sondaggi al 25%, il doppio rispetto a un’elezione generale nazionale.

Ukip ha fatto della ‘Brexit’ – l’uscita dall’Unione – la sua ragion d’essere, ed è comunque riuscito a concentrare l’attenzione degli altri partiti – soprattutto quello conservatore – su questa questione come nessuna altra forza politica.

Davanti all’ascesa dell’Ukip – ma soprattutto davanti alle simpatie sempre più evidenti per la ‘Brexit’ tra le file degli elettori, dei deputati, dei giornali conservatori e dei finanziatori del partito Tory – Cameron ha fatto la sua mossa, promettendo il referendum da tenere entro il 2017. Per ora la manovra ha fallito e l’ascesa continua degli ‘euroscettici’ in tutte le loro forme rischia di costare a Cameron le elezioni del 2015.

Unionisti vs separatisti
Cominciano le grandi manovre. I capi di Ford, Unilever e Vodafone in Gran Bretagna si sono espressi per la continuità della Gb dentro l’Unione, come hanno fatto governi come quelli australiani e giapponesi, e naturalmente quello degli Stati Uniti.

Ogni governo americano dall’epoca del Piano Marshall in poi ha tentato di convincere – senza alcun successo – gli inglesi che non hanno alternative al di fuori del progetto europeo. Sin da quando si iniziava a parlare di integrazione, i governi inglesi hanno fatto capire che ‘non se lo sentivano nelle loro ossa’, come ebbe a dire l’ex-ministro degli esteri Anthony Eden nel 1949, ed è tutt’ora l’istinto che sembra prevalere in tanti esponenti della classe politica e nel mondo dei media.

Per loro, il progetto non sarà mai altro che un sistema di libero commercio. È per questo che i 95 deputati conservatori che hanno scritto ultimamente a Cameron chiedendo un radicale ri-negoziato della posizione inglese puntano sull’eliminazione di qualsiasi obbligo in materia di welfare e giustizia, l’uscita dalla Carta europea dei diritti umani, radicali limiti sui movimenti dei lavoratori dentro l’Unione e, soprattutto, un veto parlamentare sull’applicazione delle leggi Ue in Gran Bretagna.

Tanti inglesi ‘euroscettici’ parlano di re-negoziazione o addirittura di rifondazione dell’Unione. Più alzano i toni, più diminuiscono però le loro probabilità di trovare ascolto tra gli altri 27 membri, come ha confermato il presidente francese François Hollande nel suo più recente incontro con Cameron.

Nessuna cessione di potere
Quello che gli inglesi condividono con le due altre grandi potenze dell’Ue è il rifiuto assoluto di concedere a Bruxelles e Strasburgo un quoziente di potere maggiore rispetto a quello che loro immaginano di possedere come singole potenze nazionali.

L’inconsistenza britannica tra una disponibilità di vendere qualsiasi struttura, servizio o azienda nazionale allo straniero nel nome del libero mercato, e un protezionismo militante sui fronti del mercato del lavoro, del welfare, della giustizia, dell’idea di sovranità nazionale, stride però a molti orecchi europei. Anche perché spesso è accompagnata dall’antica tendenza inglese a fare le prediche agli altri – e all’Ue nel suo insieme – sui loro difetti, presunti o reali.

Tesa tra un’America che non vuole sapere dei loro guai, e un’Europa che non le interessa, si può capire perché tanta cultura inglese si rivolga sempre di più a quel passato tanto glorioso che non delude mai.

Letta a Sochi cerca Roma 2024

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La nobile iniziativa del barone de Coubertin di convincere le nazioni a gareggiare invece che guerreggiare non ha retto alle dure repliche della storia. Già le due guerre mondiali avevano interrotto il ritmo quadriennale dei Giochi, segnando un primo tradimento dello spirito di Olimpia. Nei tempi antichi, almeno durante le gare, vigeva una Tregua Olimpica fra le litigiose polis greche.

Da Tlatelolco a Monaco 
Il peggio però si è visto nei decenni recenti: Città del Messico 1968, funestata dal massacro di Tlatelolco in vista dell’apertura delle Olimpiadi; Monaco 1972, insanguinata nel corso stesso dei Giochi; Mosca 1980, boicottata dagli americani per protesta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Ovvio che quattro anni dopo Mosca rendesse la pariglia boicottando l’appuntamento di Los Angeles, tanto più che nel frattempo gli Stati Uniti avevano invaso Grenada, aiutato Saddam Hussein ad attaccare l’Iran e messo sottosopra El Salvador e Nicaragua.

Ormai la politica internazionale ha infettato lo sport in maniera incurabile e trattandosi appunto di politica, le ragioni che incitano a “premiare” con la presenza o “castigare” con l’assenza sono volubili.

Perché snobbare Sochi nel 2014 e non Pechino nel 2008? Se proprio si doveva boicottare un evento olimpionico, forse era giusto farlo nel 1936 a Berlino, quando il regime colse l’occasione di esaltare l’ideologia nazista più che l’ideale sportivo. Eppure ricordo che mio padre, invitato a Berlino in quanto ex-campione di tiro al piattello, lodava il livello agonistico di quelle Olimpiadi, pur esecrando la coreografia nazional-socialista.

Gigantismo
Negli ultimi due decenni un ulteriore virus ha contaminato gli appuntamenti olimpionici: il gigantismo. Ne è stato “portatore insano” il Cio, responsabile di aver ammesso troppe competizioni (alcune risibili) e di aver tollerato rovinosi dispendi di risorse finanziarie ed ambientali.

Sochi ne è un esempio preclaro: 51 miliardi di dollari spesi per inseguire il sogno di Pietro il Grande. Lo zar aveva scelto le paludi alla foce della Neva per erigervi la magnificenza di San Pietroburgo. Putin ha scelto l’unica località sub-tropicale della Russia, la mitica Colchide, per ospitare le Olimpiadi invernali… Come se l’Italia le avesse organizzate nel 2006 a Sanremo invece che a San Sicario.

Sulle rive del Mar Nero infatti, si terranno le gare su ghiaccio, giusto nell’area della delicata riserva naturale protetta dall’Unesco. E le devastazioni ambientali (otto cave aperte, falde idriche sconvolte, colate di cemento su pendii scoscesi) interesseranno anche i rilievi scelti per le gare di sci. Intanto, aldilà di quei monti – in Cecenia, in Daghestan, in Inguscezia – gli irriducibili islamisti si preparano a nuove sanguinose sfide da metter in atto dopo le Olimpiadi.

Durante i Giochi, tanto gli atleti quanto gli illustri ospiti saranno ben protetti da ogni pericolo. In compenso però, non potranno muoversi di un passo. Per sicurezza è stato chiuso perfino l’accesso alle bellezze dell’Abkhazia, territorio filo-russo strappato alla Georgia a pochi passi da Sochi.

Letta non diserta
Pur con queste limitazioni, ha fatto bene il presidente Letta a decidere di presenziare all’apertura delle Olimpiadi invernali: solo così si difende il principio di tener separato lo sport dalla politica. Lascia perplessi, invece, la motivazione ufficialmente dichiarata: perorare la candidatura italiana alle Olimpiadi estive del 2024.

Esattamente due anni fa il governo Monti respinse con fermezza le insistenti pressioni del sindaco di Roma, dietro il quale si muoveva una coorte di “promotori” bramosi di candidare la capitale per le Olimpiadi del 2020. Quale città italiana, Roma inclusa, sarebbe adatta ad ospitare un tale evento senza arrecare danni irreparabili al tessuto urbano, attirare torme d’affaristi impresentabili, scavare buchi incolmabili nelle casse statali e comunali?

Fare prima i “compiti a casa”: manutenzione delle città, pulizia negli angoli bui delle opere pubbliche, civismo quotidiano. Infine la domanda: sarebbe pronta Roma nel 2024 a presentarsi come Londra nel 2012?

Altri rischi all’orizzonte per l’Ue

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In un contesto europeo caratterizzato da incertezze sulle prospettive di ripresa dell’economia, fenomeni di disaffezione e contrasti fra stati membri nei confronti del progetto europeo, l’accelerazione delle richieste di indipendenza di Scozia e Catalogna grava come una ulteriore incognita sul futuro dell’Unione europea (Ue). Nonostante le similitudine, i due processi vanno differenziati.

Edimburgo verso il referendum
In Scozia il referendum è programmato per il prossimo 18 settembre. Si tratterà dell’ultimo di vari episodi che hanno segnato nel corso degli anni un rapporto fra Londra e Edimburgo caratterizzato da ricorrenti richieste di autonomia da parte della Scozia, cui Londra ha risposto con varie forme di “devolution”.

La richiesta di indipendenza, che aveva subito una accelerazione con la scoperta degli importanti giacimenti di idrocarburi al largo delle coste scozzesi (1969), è stata rilanciata in coincidenza con il successo del Partito nazionale scozzese (Scottish national party, Snp) alle elezioni locali del 2011 e si è concretizzata, poco dopo, con la convocazione di un referendum.

Oggi i sondaggi di opinione indicano che solo una quota minoritaria (intorno al 37%) dell’elettorato scozzese sembrerebbe essere in favore dell’indipendenza. Oltre il Psn, fra i partiti sono decisamente a favore dell’indipendenza frange di Socialisti e Verdi scozzesi. Contrarie le sezioni locali dei tre maggiori partiti britannici, conservatori, laburisti e liberali.

Per ora Londra non si è opposta alla richiesta di indipendenza, ma non ha perso occasione per segnalare agli elettori scozzesi i costi di un’eventuale secessione.

Nel caso di vittoria del fronte indipendentista dovrebbe aprirsi un complesso negoziato fra Londra ed Edimburgo sulle modalità, condizioni e conseguenze della dichiarazione di indipendenza. Uno scenario di questo tipo (del tutto nuovo e non previsto dai Trattati che regolano il funzionamento dell’Unione) avrebbe comunque numerose conseguenze sull’Ue.

Si tratterebbe di definire la questione dell’appartenenza o meno della Scozia indipendente all’Eurozona e il destino dei numerosi opt-out di cui oggi usufruisce in quanto parte del Regno Unito. Inoltre, bisognerebbe rinegoziare i contributi al bilancio Ue e la nuova allocazione dei fondi Ue, oltre alla distribuzione di seggi e posti nelle istituzioni.

Senza contare che il futuro della Scozia in Europa verrebbe a interferire con le prospettive di un eventuale referendum sulla partecipazione del Regno Unito all’Ue (annunciato da David Cameron, ma da confermare dopo le elezioni del 2015) con la prospettiva estrema (ma poco realistica) di uno scenario in cui il Regno Unito esce dall’Ue nel momento in cui la Scozia chiede di aderire.

Barcellona pensa all’economia
Anche la Catalogna da tempo rivendica crescente autonomia da Madrid che ha finora cercato di contenere le spinte centrifughe di Barcellona anche per evitare effetti di contagio.

Nel gennaio 2013 la Corte Costituzionale aveva dichiarato nulla e priva di effetti la dichiarazione di indipendenza e sovranità del governo catalano, dando inizio così a un braccio di ferro tra le due parti.

L’ultimo episodio di questo confronto è stata la decisione presa il 12 dicembre scorso dal governo catalano (sostenuta sia dal partito di maggioranza Convergencia y Unio che dai partiti locali di opposizione) di convocare un referendum sull’autodeterminazione della Catalogna per il prossimo 9 novembre. Madrid non ha ancora risposto ufficialmente, ma c’è da attendersi che cercherà di contrastare con ogni mezzo questa iniziativa.

Al di là delle differenze culturali e linguistiche (peraltro tutelate dallo statuto di autonomia) le motivazioni principali della richiesta di indipendenza sono di natura economica. La Catalogna, la regione più ricca della Spagna, sostiene di contribuire in maniera squilibrata al bilancio statale spagnolo e al sostegno delle regioni più povere della Spagna, ricevendo da Madrid contributi pro capite molto inferiori a quelli delle altre regioni.

A differenza della Scozia, la maggioranza dell’elettorato catalano è a favore dell’indipendenza. I partiti eletti in Catalogna sono sostanzialmente indipendentisti. Secondo gli ultimi sondaggi forniti dalle autorità di Barcellona, il 55% della popolazione sarebbe favorevole alla secessione.

A differenza del caso della Scozia, in Spagna il governo centrale ha finora opposto resistenza alle ipotesi di secessione. Si è dichiarato contrario ad accettare una dichiarazione unilaterale di indipendenza della Catalogna, facendo sapere di considerare anticostituzionale un referendum come quello convocato dalle autorità catalane.

Non interferenza Ue 
Forzando la mano con i due referendum, è possibile che le autorità scozzesi e catalane (che in questa fase si identificano in due leader brillanti e carismatici come Alex Salmond e Artur Mas) intendano preparare il terreno per un negoziato con Londra e Madrid sulla revisione dei rispettivi statuti di autonomia. Anche se vincessero il referendum, il processo sarà lungo e incerto.

In Europa si è cercato finora di non interferire con queste delicate dinamiche che sono considerate di prevalente natura interna. Solo il Presidente della Commissione Manuel Barroso ha avuto occasione di ricordare che l’adesione alla Ue di nuove entità statali, che dovessero emergere in Europa per effetto di secessioni, verrebbe trattata secondo le stesse regole previste per l’adesione di altri stati terzi, sia pure con gli adattamenti del caso, trattandosi di territori che hanno finora fatto parte dell’Unione.

Quindi domanda di adesione secondo la procedura prevista dall’art. 49 del Trattato sull’Ue, esame dei criteri e successivo negoziato che presuppone l’unanimità degli stati membri.

Uno scenario di questo tipo, per quanto ipotetico e forse remoto, richiederebbe in primo luogo che l’indipendenza per secessione fosse il risultato di un accordo con i governi che subirebbero la secessione.

Solo su queste basi si potrebbe avviare un percorso tecnicamente complesso, ma politicamente fattibile, ma che comporterebbe ulteriori complicazioni (basta pensar agli effetti di contagio che potrebbe avere su altre regioni europee) per una Ue che già fatica a trovare un minimo di visione condivisa sul proprio futuro.

L'Italia in campo per la Siria

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“Come paese abbiamo insistito che la parte umanitaria non sia disgiunta dal processo politico. Non si può parlare del futuro se non si riesce a dare un presente alla popolazione siriana”. Così il ministro degli esteri Emma Bonino ha annunciato la conferenza umanitaria sulla Siria che si tiene a Roma il 3 febbraio.

Situazione caotica
Con una conta di 136 mila vittime dal marzo 2011, sei milioni costretti a fuggire dalle proprie case, di cui oltre due milioni riparati all’estero (fonti Onu), il conflitto siriano non è più solo “interno”. Il problema dei profughi coinvolge infatti tutti i vicini, nessuno escluso.

L’intervento delle brigate internazionali di islamisti vicini ad Al-Qaeda – cui partecipa un numero non precisato, ma parrebbe elevato, di miliziani europei o provenienti dall’Europa – preoccupa e coinvolge tutte le nostre capitali. Prima o poi i reduci ritorneranno, e saranno guai. Gli equilibri regionali, già precari, rischiano di venire ulteriormente compromessi.

La famigerata “responsabilità di proteggere”, lanciata dall’Onu e mai sottoscritta dagli stati, ha consentito tuttavia a qualcuno di perorare infauste azioni militari tipo Libia – i cui esiti oggi sono sotto gli occhi di tutti – e ad altri di fornire armi e supporti tanto al governo siriano che alle fazioni. Il risultato è stata la perpetuazione del conflitto.

In questo inestricabile marasma pochi sembrano aver le idee chiare, anche perché il linguaggio “politicamente corretto” utilizzato dai responsabili nei vari summit, e di conseguenza dai media, non consente di comprendere appieno gli eventi. Per oltre due anni anche l’Italia ha affogato la propria voce nell’inutile ritornello “Bashar Assad se ne deve andare”. Per ora però non è uscito di scena e sembra non avere alcuna intenzione di farlo.

Emergenza umanitaria
Se non abbiamo brillato per originalità nelle proposte di soluzione politica della crisi e abbiamo convenuto sul fatto che quelle militari non sono praticabili, vi è un settore dove il nostro contributo può essere utile e apprezzato: l’emergenza umanitaria. Settore questo più vicino e adatto anche alla formazione e al modus operandi del nostro ministro degli esteri, impegnata da sempre a recuperare spazi di visibilità all’azione italiana.

Emma Bonino è aiutata in questo da un carattere che la porta a coinvolgersi in prima persona e da un linguaggio che sembra mille miglia lontano da quello che caratterizza l’ambiente in cui opera. È probabile che tutto ciò le renda difficile la vita e che non tutto ciò che dice e fa possa essere digerito nell’immediato. Certamente però, almeno in questo settore, le ritaglia un ruolo di spicco che si riflette positivamente sull’immagine del paese. Su altro ci sarebbe forse da discutere, ma non sulle finalità dei suoi propositi.

Linguaggio accessibile
È sufficiente scorrere le rassegne e cogliere solo alcune delle sue affermazioni per accorgersene. Già all’inizio del mandato, quando si parlava ancora di “no-fly zone” sulla Siria, ne aveva intuito la pericolosità e aveva preso le distanze persino da alcune posizioni europee. Nella conferenza degli ambasciatori del 18 dicembre scorso, Bonino aveva sottolineato che “ il nostro paese nel conflitto siriano intende essere parte della soluzione, iniziando da Ginevra2”.

A Parigi, nella riunione degli Amici della Siria del 12 gennaio scorso, prendeva posizione spingendo l’opposizione siriana a partecipare senza condizioni a Ginevra2, per “consentire al popolo di prendere in mano in proprio destino”. Aveva poi insistito, annunciando per il 3 febbraio a Roma la conferenza umanitaria richiesta dall’Onu, sulla realtà che “non si può parlare del futuro, se non si riesce a dare un presente alla popolazione siriana”.

Gioia Tauro
Al di là della risposta alla crisi da parte della Cooperazione italiana (oltre 26 milioni di euro per gli sfollati e 19 già spesi per interventi a sostegno dei paesi limitrofi), l’azione italiana è divenuta più visibile quando, affiancandosi a Stati Uniti, Norvegia, Danimarca e Germania, ha offerto un porto italiano per il trasbordo a la neutralizzazione in alto mare di una prima aliquota di armamenti chimici siriani.

“Mi auguro – aveva aggiunto il ministro – che non si facciano polemiche per gli impegni internazionali che il Paese si dovrà assumere e che le forze politiche si comportino con il necessario decoro”. Puntualmente, invece sono scoppiate le polemiche su Gioia Tauro. E il peggio deve ancora venire. Emma Bonino non è una veggente. Solo che nessuno meglio di lei conosce così bene e dall’interno vizi e vezzi degli italiani. Serviva coraggio e il ministro ha dimostrato di averlo.

Almeno in questo settore il ruolo dell’Italia c’è ed è visibile. A confermarlo è la conferenza del 3 febbraio. Se vogliamo riscattare la penosa immagine che abbiamo dato al mondo con la gestione del caso dei fucilieri di marina, qualche altro scatto d’orgoglio sarà però indispensabile.

Proprietà del lastrico solare. Il regolamento di tipo contrattuale prevale sui dati catastali

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La sentenza della Corte di cassazione n. 1947 del 29 gennaio 2014 ha stabilito che, in caso di contrasto sulla natura, comune o esclusiva,del lastrico solare, i dati risultanti nel regolamento contrattuale, redatto dall’originario proprietario dell’edificio e richiamato negli atti d’acquisto delle singole unità immobiliari, prevalgono sui dati catastali ad essi difformi.
Per superare la presunzione di condominialità ex art. 1117 c.c., infatti,è necessario allegare un titolo d’acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivoca la comunione del bene, mentre non sono utilizzabili i dati catastali, utili solo come concorrenti elementi indiziari di valutazione della prova richiesta. Ne consegue che l’atto redatto dall’originario proprietario dell’edificio e accettato dai condomini, che divide pro quota il bene tra tutti i proprietari esclusivi, impedisce rivendicazioni fondate sui diversi dati dell’ufficio catastale.
I giudici di legittimità ritengono che i dati catastali non hanno valore di prova, ma di semplice indizio, costituendo le mappe catastali un sistema secondario e sussidiario rispetto all’insieme degli elementi desumibili dagli atti d’acquisto. Confermata, dunque, la decisione della Corte territoriale di Lecce, che aveva affermato la natura condominiale del lastrico solare proprio in base alla prevalenza del regolamento condominiale richiamato nei titoli d’acquisto (da cui risultava la natura comune del bene) rispetto all’accatastamento non conforme ai titoli predetti (da cui risultava la diversa natura esclusiva).

Il caso esaminato dalla Corte. I condomini proprietari di un appartamento al primo pieno dello stabile agivano per rivendicare la proprietà comune del terrazzo di copertura dell’edificio,occupato dagli abitanti del terzo piano del palazzo confinante. L’originaria proprietaria aveva costruito i due edifici destinando “l’area solare” a pertinenza, quale terrazza a livello, dell’unità immobiliare da lei abitata e, poi, venduta agli odierni convenuti. Quest’ultimi si opponevano alla domanda, sostenendo che, dalla descrizione dei confini dell’appartamento acquistato, come risultanti dai dati catastali, si desume che essi avevano acquistatola proprietà esclusiva della terrazza in questione,che, in ogni caso, doveva ormai considerarsi acquisita per usucapione. La Corte d’appello, ribaltando la sentenza di primo grado accertava la proprietà comune del lastrico conteso e condannava i convenuti al rilascio a favore degli attori.
Il ricorso proposto in cassazione ruota intorno alla valenza probatoria dei dati catastali ai fini della qualificazione dellanatura condominiale o esclusiva del lastrico solare, nella particolare ipotesi in cui sussista un contrasto tra il titolo d’acquistoe i dati risultanti delle mappe catastali.

I beni condominiali si presumo comuni fino a prova contraria. La Corte osserva che La presunzione legale di condominialità stabilità per i beni elencati nell’art. 1117 c.c., la cui elencazione non è tassativa, deriva sia dall’attitudine oggettiva del bene al godimento comune sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune, con la conseguenza che, per vincere tale presunzione, il proprietario che ne rivendichi la proprietà esclusiva ha l’onere di fornire la prova di tale diritto.

A tal fine, è necessario un titolo d’acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, mentre non sono utilizzabili i dati catastali, utili solo come concorrenti elementi indiziari di valutazione a fornire la prova richiesta.
I dati catastali non hanno valenza probatoria e, dunque, non sono idonei, da soli, a superare la presunzione di condominialità. La suprema Corte ha più volte ribadito il concetto: i dati catastali non hanno valore di prova ma di semplice indizio, costituendo le mappe catastali un sistema secondario e sussidiario rispetto all’insieme degli elementi raccolti in fase istruttoria (Cass. civ. n. 5131/2009).

Nel caso di specie, è stato accertato che il regolamento condominiale aveva natura contrattuale, perché redatto dall’unico originario proprietario del complesso e richiamato negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari. In detto regolamento, il lastrico solare era specificamente incluso tra le proprietà comuni tra tutti i condomini e, dunque, prima della vendita ai ricorrenti, il lastrico predetto era già stato alienato pro quota ai vari condomini, tra i quali gli attori.
Pertanto, la Corte ha ritenuto che, a fronte delle risultanze dei titoli di acquisto, da cui risulta la natura condominiale del bene, nessun rilievo può avere l’accatastamento non conforme ai titoli di acquisto originari,con i quali è sorto il condominio, cioè la proprietà comune del bene. Il regime probatorio rigoroso prescritto per l’azione di rivendicazione è quindi soddisfatto dall’accertamento compiuto sulla base degli iniziali titoli di acquisto e dell’accertato (e non censurato) valore contrattuale del regolamento condominiale, sorto con la prima vendita appena successiva alla costruzione del fabbricato.

Avvocati, approvato il nuovo codice deontologico

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Tipizzazione tendenziale degli illeciti, previsione delle sanzioni, nuovi ambiti rilevanti sotto il profilo deontologico, allo scopo di tutelare l’affidamento dei cittadini al corretto esercizio della professione. Sono i punti salienti del nuovo Codice deontologico degli avvocati, approvato dal Consiglio nazionale forense in attuazione delle previsioni contenute nella legge di riforma dell’ordinamento forense e nei termini temporali previsti dalla legge.

Il testo approvato, riferisce una nota del Cnf, è stato predisposto dalla commissione deontologica coordinata da Stefano Borsacchi e ha tenuto conto delle osservazioni pervenute da Ordini e associazioni in sede di consultazione. Il nuovo Codice sarà presentato ai presidenti dei Consigli dell’Ordine in una riunione dedicata, il 19 febbraio prossimo. Per favorirne la più ampia conoscibilità, la legge forense ne dispone la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale: entrerà in vigore 60 giorni dopo.

L’impianto del codice
Tra le novità più rilevanti si segnalano un impianto più moderno, che tiene conto non solo della giurisprudenza che si è formata in materia deontologica dal 1997, data di entrata in vigore del primo codice, a oggi, ma anche delle previsioni disciplinari sparse in diversi testi legislativi. Il nuovo codice si compone di 73 articoli raccolti 7 titoli: il primo (artt. 1-22) individua i principi generali; il secondo (artt. 23-37) è riservato ai rapporti con il cliente e la parte assistita; il terzo (artt. 38-45) si occupa dei rapporti tra colleghi; il quarto (artt. 46-62) attiene ai doveri dell’avvocato nel processo; il quinto (artt. 63-68) concerne i rapporti con terzi e controparti; il sesto (artt. 69-72) concerne i rapporti con le Istituzioni forensi; il settimo (art. 73) contiene la disposizione finale.

Principi generali
Il primo titolo è dedicato ai ‘Principi generali’, tra i quali quello di indipendenza e autonomia e di leale concorrenza; di diligenza (qualità della prestazione) e di competenza, di aggiornamento e formazione continua; il dovere di adempimento di ogni onere fiscale, previdenziale, assicurativo, contributivo.
Le informazioni sull’attività professionale dovranno essere coerenti con lo scopo di tutelare l’affidamento della collettività. Si segnala l’inversione, rispetto all’attuale codice, tra il titolo II (Rapporti con i colleghi) e il III (Rapporti con il cliente e la parte assistita) nel senso di dare precedenza a quest’ultimo, proprio a sottolineare la vocazione pubblicistica delle norme.

Rapporti con i clienti e parte assistita
Sono inoltre introdotti due nuovi titoli dedicati ai ‘Doveri dell’avvocato nel processo’ e ai ‘Rapporti con le istituzioni forensi’. Nei ‘Rapporti con i clienti e parte assistita’ viene scandito il momento della nascita del rapporto professionale, con gli obblighi informativi che ne conseguono (prevedibile durata causa-oneri- preventivo scritto se richiesto- estremi della polizza assicurativa-possibilità di avvalersi della mediazione), e della libera pattuizione del compenso. L’avvocato non deve consigliare azioni inutilmente gravose e deve emettere documento fiscale ad ogni versamento ricevuto.

Divieto di accaparramento della clientela
Viene ribadito il divieto di accaparramento di clientela. Il dovere di corretta informazione prevede che l’avvocato fornisca informazioni sulla propria attività professionale rispettando i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.

Non sono ammesse informazioni comparative né equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l’attività professionale né l’indicazione di nominativi di professionisti non direttamente o organicamente collegati con lo studio dell’avvocato.

Siti web senza banner pubblicitari
L’informazione è ammessa con ogni mezzo, ma il sito web deve avere dominio proprio senza re-indirizzamento, direttamente riconducibile all’avvocato, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso. Non sono ammessi banner pubblicitari.

Rapporti con i colleghi
Il III titolo è dedicato ai ‘Rapporti con i colleghi’. Nel proprio studio l’avvocato dovrà favorire la crescita formativa dei propri collaboratori, compensandone in maniera adeguata la collaborazione, tenendo conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio. Ai praticanti dovrà assicurare l’effettività e la proficuità della pratica forense e, fermo l’obbligo del rimborso delle spese, riconoscergli, dopo il primo semestre di pratica, un compenso adeguato.

Doveri dell’avvocato nel processo
L’introduzione del titolo ‘Doveri dell’avvocato nel processo’ ha il compito di sistematizzare previsioni sparse in diversi ambiti. In questo contesto, è stata inserita una norma dedicata all’ascolto del minore per assicurare la maggior correttezza in un ambito particolarmente delicato. Anche nuove facoltà – come la notifica in proprio – o nuovi sistemi organizzativi conteranno su un presidio disciplinare ad hoc per favorirne l’applicazione.

Rapporti con le Istituzioni forensi
In merito al titolo ‘Rapporti con le Istituzioni forensi’ si segnala l’obbligo di collaborazione dell’avvocato iscritto ma soprattutto viene sanzionata pesantemente l’attività volte a favorire candidati durante l’esame di abilitazione, soprattutto da parte dell’avvocato-commissario d’esame.