23 Settembre 2024, lunedì
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Statali a riposo forzato

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Chi ha maturato i requisiti per la pensione entro il 31 dicembre 2011 non ha «facoltà» di mettersi a riposo ma «obbligo» di farlo. Unica eccezione per rimanere in servizio, il non avere ancora 65 anni d’età. Ma una volta raggiunta tale età, sarà obbligo dell’amministrazione di collocarlo a riposo. Lo precisa la nota prot. 6295/2014 della Funzione pubblica.
Stop all’impiego fino a 70 anni. I chiarimenti, richiesti da un Comune, sono sul dl n. 101/2013 nella parte in cui interpreta la norma della riforma delle pensioni Fornero che consente di pensionarsi con i vecchi requisiti, se maturati entro il 31 dicembre 2011. Una deroga da cui è nata una vicenda giudiziaria. In prima lettura infatti la Funzione pubblica ne ha tratto un preciso vincolo per le p.a., ossia l’obbligo di collocare a riposo, dal 2012, al compimento di 65 anni di età (limite ordinamentale), i dipendenti che nel 2011 avevano la massima anzianità contributiva (40 anni) o la quota 96 o comunque i requisiti per una pensione (circolare n. 2/2012).

Sochi, grandi marchi in vetrina

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Fatti salvi i partner delle divise sportive di ogni nazione, che da Armani per l’Italia, Bogner per la Germania, Ralph Lauren per gli Usa, Lacoste per la Francia o H&M per la Svezia hanno acceso i riflettori sulle griffe simbolo di ogni paese, c’è stata molta prudenza in questi ultimi giorni a parlare di marketing e strategie associate ai Giochi olimpici invernali di Sochi 2014. I più cari della storia in quanto a organizzazione (sono stati spesi 50 miliardi di dollari, ovvero 37 mld di euro), ma anche i più ricchi di incognite sui ritorni d’immagine dei brand coinvolti e sull’interesse da parte del pubblico.
La cittadina sul Mar Nero completamente trasformata dall’evento è da ieri vetrina degli sponsor ufficiali (per gran parte americani), tali sono fra gli altri Coca-Cola, McDonald’s, Atos, Dow, Ge, Procter & Gamble, Samsung, Panasonic, Omega e Visa. Per gli altri le regole della pubblicità parlano chiaro: nemmeno gli atleti possono accreditare marchi che non paghino, o in qualità di sponsor o in qualità di partner, il loro ticket all’organizzazione. Ora il timore, anche tra chi ha investito milioni sui giochi, una spesa stimata solo per gli Stati Uniti in un miliardo di dollari (circa 734 milioni di euro) per fare spot, apparire durante le competizioni o l’inaugurazione di ieri, è che più che le gare, tengano banco come nell’ultimo mese i problemi legati al terrorismo, i diritti umani (dovuti alle leggi russe contro i gay), o le azioni di boicottaggio.

Pietro Grasso è un furbone

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Pietro Grasso è un gran furbone, come dimostra tutta la sua prestigiosa carriera: insomma sta stare a tavola utilizzando bene coltello e forchetta senza mai uscire dal seminato con un’alzata di testa, una bizza o una posizione radicale. Nella qualità di capo della Procura nazionale antimafia, è stato capace di elogiare Silvio Berlusconi e il suo governo per le leggi e l’azione contro la criminalità organizzata. Se ha quindi deciso, in difformità al parere del suo consiglio di presidenza, di costituire il Senato parte civile nel processo nei confronti del medesimo leader della destra per corruzione di un senatore, avrà avuto le sue buone ragioni. Esaminiamole. Va ricordato che, sul piano umano, la decisione si iscrive nell’albo delle azioni alla Maramaldo (che uccise un uomo morto). Infatti, il percorso processuale è scritto e l’imputato non riuscirà, in presenza delle ammissioni-confessioni del senatore Di Gregorio, a uscirne indenne. L’influenza processuale dell’avvocato dello Stato (speriamo che questa non sia l’occasione per un remunerato incarico a qualche principe del foro) che rappresenterà il Senato sarà pressoché uguale a zero. Va poi detto che non si tratta di un atto dovuto, come sostenuto da diversi parlamentari, a cominciare dall’ignorante Laura Puppato. Si tratta di un atto libero, nel senso che il presidente del Senato poteva scegliere tra il costituirsi e il non farlo. Correttamente, Grasso lo ha definito un dovere morale: una questione, quindi, che attiene all’etica personale di chi ha il potere di decidere. In realtà, si è trattato di un atto politico, determinato da una serie di considerazioni d’opportunità. La prima riguarda la situazione parlamentare, in cui un gruppo nutrito di scalmanati mette ogni giorno a repentaglio il regolare andamento dell’istituzione. Il non costituirsi parte civile, avrebbe rischiato di far mettere a ferro e fuoco (un’espressione in fin dei conti non troppo traslata) l’aula e le commissioni. Non si tratta di coraggio (il tempo ci farà capire se Grasso ne è dotato), ma di opportunità: se si deve aprire un fronte di scontro, il processo Berlusconi era del tutto sbagliato. La seconda ragione va di sicuro trovata nella pancia del partito di maggioranza parlamentare (relativa). Come si evince dai commenti, gran parte dei senatori del Pd pretendeva una decisione del genere: alcuni disinteressati alle conseguenze sul patto Renzi-Berlusconi, altri decisamente consapevoli della possibilità di una ritorsione del cavaliere. In terzo luogo, nell’immaginario collettivo il non partecipare al processo, sarebbe stato considerato un ennesimo intollerabile atto di complicità tra esponenti della casta. C’è un ultima maliziosa ragione da segnalare: è che, dopo avere onorato il suo dovere morale, Pietro Grasso ha migliorato il proprio posizionamento nella corsa alla posizione più ambita dello Stato: quel palazzo del Quirinale che un giorno si renderà libero. Come sempre, in politica contano, per chi sa coglierle, le opportunità. E il nostro presidente del Senato non se l’è lasciata scappare.

Pansa: pacificazione? Basta la verità

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Giampaolo Pansa va avanti. Questo grande giornalista monferrino, classe 1935, prosegue il suo lavoro di ricostruzione degli anni di storia italiana che vanno dal 1943 al 1948, il periodo che comincia con l’8 settembre e la costituzione delle prime forme resistenziali e che arriva al confuso e violentissimo dopoguerra. Dopo i libri, come Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer), che hanno riportato a galla le ragioni degli sconfitti, dei reietti che scelsero, o si trovarono a scegliere, la Repubblica di Salò, Pansa ha alzato il tiro sulla grande congiura del silenzio, sulla storiografia accomodata sull’immagine dei vincitori, su una narrazione che è stata funzionale anche alle ragioni, spesso poco commendevoli, di un partito, quello comunista. Il suo nuovo lavoro, Bella ciao, in uscita per Rizzoli, di questo si occupa soprattutto ed è destinato, come gli altri, a scatenare le polemiche.
Domanda. Pansa, un altro libro, ricco e documentato, ma stavolta non è solo il racconto di storie terribili e di vendette silenziate…
Risposta. Infatti, stavolta ho cercato di spiegare quanto il Partito comunista italiano, il più forte e l’unico organizzato in quegli anni, vedesse la liberazione dai nazifascisti come l’inizio della rivoluzione. Pietro Secchia, grande dirigente di allora, lo affermò, d’altra parte: volevano fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss di Stalin.
D. Figuriamoci, già fino a poco tempo fa era disdicevole parlare di «guerra civile» e non «di liberazione», ora lei va scrivere che si voleva fare la rivoluzione…
R. Pazienza ciò spiega, come scrivo, perché i comunisti erano implacabili contro chi non stava ai loro ordini. «O stai con noi» e il motto di quel partito con una potenza gigantesca.
D. Una spietatezza che arrivò sino all’omicidio politico, nel famoso episodio di Porzus in Friuli, nel febbraio del 1945, quando 18 partigiani della Brigata Osoppo furono uccisi un gruppo di partigiani legati al Pci. Lei aggiunge dettagli nuovi.
R. Sì, ho fatto una ricostruzione della biografia di Giacca, il gappista che comandò quella strage, il padovano Mario Toffanin, che morì in Slovenia nel 1999, dopo aver ricevuto la grazia da Sandro Pertini, nel 1978, e da allora percependo fino alla fine la pensione dello Stato italiano.
D. Però lei racconta un altro delitto legato a Porzus quello di Leo Scagliarini detto Ricciotti, altro comandante partigiano di Palmanova (Ud)…
R. Ufficialmente Scagliarini morì mitragliato da un aereo alleato, mentre si muoveva in auto. Dalle ricostruzioni e dalle testimonianze raccolte dai figli, è evidente che fu ammazzato in altro modo: alcuni partigiani garibaldini lo fecero inginocchiare e gli spararono alla testa. Lui era comandante garibaldino, ma non comunista, era andato in giro a dire che su Porzus si sarebbe dovuta far luce.
D. Un’altra morte misteriosa fu quella di Aldo Gastaldi detto Bisagno, capo partigiano garibaldino in Liguria ma cattolico…
R. Una fine assurda nella ricostruzione ufficiale: inspiegabilmente Bisagno si sarebbe messo sopra la cabina di un camion in marcia, dalla quale sarebbe rovinosamente caduto. Ho fatto qualche anno di cronaca nera e di morti più improbabili non ne ricordo.
D. S’era opposto all’organizzazione resistenziale del Pci in Liguria.
R. Era uno dei comandanti più forti e capaci, giovane, aitante, uno da oratorio ma col mitragliatore sten a tracolla. Comandava una divisione e più di una volta il Pci aveva cercato di toglierselo dai piedi con le buone ma lui e i suoi, agguerritissimi, s’erano rifiuti di sloggiare. Riuscirono a impedire che scendesse a Genova per la liberazione anche perché sapevano che si sarebbe opposto alla mattanza dei fascisti: più di 800 esecuzioni in pochi giorni. E in una riunione immediatamente successiva, chiese lo scioglimento della polizia comunista, responsabile di molti di quegli omicidi. Storie che rendono ancora improbabile il racconto della sua morte.
D. Vicenda simile a quella di Franco Anselmi detto Marco, altro comandante non comunista, ucciso a Castenaso, in Emilia.
R. Fu ucciso l’ultimo giorno di guerra, il 26 aprile, da una raffica di un tedesco in ritirata. Sono andato a vedere la casa dove spirò. Molti ritengono che fosse stato abbattuto da fuoco amico, in realtà. Uno con cui ne parlai fu Italo Pietra…
D. Il mitico direttore del Giorno… In cui lei, Pansa, lavorava… R. Certo, Pietra fu comandante di divisione nell’Oltrepò Pavese.
D. E che le disse?
R. Le sue parole furono chiare: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Marco è morto da vent’anni. Lasciamolo riposare in pace».
D. Perché lei continua a scrivere questi libri?
R. Mai una smentita, lo scriva, mai una smentita…
D. Certo. E anche uno degli storici che all’inizio l’aveva criticato, Sergio Luzzatto, lo scorso anno le ha riconosciuto, dalle pagine del Corriere, rigore nella ricerca.
R. I ripensamenti non mi interessano. Le storie contemporanee sono tutte basate sulle fonti resistenziali, usare anche quelle dei fascisti pareva indecoroso.
D. Infatti, ora che l’eredità politica di quel Pci si va esaurendo, rimangono tetragone le cattedre universitarie…
R. C’è il pensiero unico, in materia. Fior di baroni accademici, gente che si ritiene l’unica titolata a occuparsi di storia della Resistenza, mi hanno messo al bando accusandomi di un reato per loro infame: il revisionismo storico. Una colpa ancora più grave perché commessa da chi non appartiene alla loro casta, un giornalista, un bastian contrario, un dilettante della ricerca storica.
D. C’è speranza di vedere attecchire una ricerca diversa là dentro?
R. Poche. Peggio delle burocrazie, e in Italia ne sappiamo qualcosa, ci sono le burocrazie accademiche: ordinariati che si trasmettono di padre in figlio o di zio in nipote. E comunque anche sugli eredi del Pci…
D. … che cosa si può dire?
R. Che anche dopo la Bolognina e la condanna di un certo comunismo, c’è stato il sequestro della memoria resistenziale.
D. Come mai, secondo lei?
R. Avendo visto cadere una grande quantità di certezze, era il solo un osso da succhiare. E la Resistenza è diventata roba loro. Si ricorda quando Letizia Moratti ebbe l’ardire di presentarsi al corteo del 25 aprile a Milano col papà?
D. Certo. L’anziano resistente, in carrozzella…
R. Era stato un partigiano di Edgardo Sogno, della Organizzazione Franchi, dei badogliani, era finito persino nei campi di sterminio. Furono entrambi insultati. Una cosa vergognosa: la Resistenza sequestrata. Ho voluto intitolare il libro Bella ciao anche per questo.
D. Torno al punto. Che valore ha un altro libro come questo, nell’Italia di oggi? Qualcuno potrebbe obiettare che i comunisti ormai sono minoritari anche nel partito che ne ha raccolta l’eredità, per mano di quel Matteo Renzi che, da qualche sua intervista, mi pare non le stia troppo simpatico…
R. Il valore di non disperdere memoria vera del nostro passato. È necessario, anzi, se si vuol capire proprio cosa è in grado di fare Renzi, che non mi è antipatico, anzi sta dando scosse elettriche ad altissimo voltaggio, fra Senato e Titolo V dello Costituzione. Lo invidio per la sua giovinezza: fa quello che i politici di centrosinistra avrebbero dovuto fare già da un pezzo.
D. Aveva ragione Luciano Violante quando, qualche anno fa, invocava una pacificazione nazionale?
R. Non ci credo, non credo alla «memoria condivisa»: l’unica pacificazione possibile è dire la verità, raccontare come sono andati i fatti.
D. I protagonisti di quella guerra, tra l’altro, sono quasi tutti morti…
R. Il sangue dei vinti in dieci anni ha venduto un milione di copie e io ho ricevuto più di 20 mila lettere scritte dagli eredi di quei vinti: figli, nipoti. Per la maggior parte sono le donne: quando c’è un piccolo archivio familiare, ordinato, ben tenuto, in genere c’è la mano di una do
nna. Insomma c’è una memoria di quella tragedia, che è difficile da far collimare con quella della vittoria.
D. Ha visto che cosa è capitato al cantautore Simone Cristicchi, contestato per il suo spettacolo sulle foibe?
R. Non mi sorprende. Le dico che il libro è stato prenotato da centinaia di librerie ma sono costretto a dire di no a molte richieste di presentazione. Da quando, anni fa, a Reggio Emilia sono stato aggredito dai militanti dei centri sociali, devo stare più attento. D’altronde i piccoli gruppi, oggi, sono capaci di tutto, basta vedere cosa hanno fatto cinque leghisti a Strasburgo a un galantuomo come Giorgio Napolitano.
D. Lei per anni ha lavorato in gruppo editoriale, quello di Repubblica e di L’Espresso, sulle cui pagine culturali, non erano certo ammessi revisionismi. Come ha fatto?
R. Nel «Gruppone», come lo chiamo io, ci sono stato per 31 anni, pensi. Avevano bisogno di me quando nacque Repubblica: erano un gruppo di giovanissimi e io ero uno d’esperienza. Con loro e con gli intellettuali che scrivono sui quei giornali, ho avuto polemiche feroci da quando sono usciti i miei libri. La verità è un’altra…
D. Quale?
R. Che allora i giornali erano migliori: oggi sono ideologicamente blindati. Al mattino ormai ci impiego solo due ore per leggerne una decina: alcuni ripetono sempre gli stessi articoli. Il suo direttore fa eccezione: ItaliaOggi è un giornale aperto, direi quasi libertino, che ammette visioni diverse. Una rarità.

Banca cantonale di Zurigo, chiusi 9 mila conti di clienti stranieri

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Pulizie in vista per il quarto maggior istituto di credito svizzero. Schiacciata sotto il peso delle pressioni internazionali sulla trasparenza, la Banca Cantonale di Zurigo (Zkb) ha deciso di inviare una lettera di chiusura conti a 9 mila clienti esteri con asset inferiori ai 500 mila franchi svizzeri (pari a circa 400 mila euro) che non risiedono nei mercati-chiave del gruppo. Italia esclusa. La Penisola rientra infatti tra i Paesi strategici del colosso finanziario elvetico insieme a Germania, Regno Unito, Spagna, Austria, Monaco, Israele, Uruguay, Repubblica Ceca, Emirati Arabi e Hong Kong. «I clienti che dovranno fare le valigie si trovano in oltre 100 Paesi», ha spiegato Christoph Weber, numero uno della divisione private banking della Banca Cantonale di Zurigo, sottolineando come le disposizioni verranno applicate in maniera meno restrittiva per i clienti svizzeri residenti all’estero.

MEGLIO CHE VINCA LA DISCONTINUITÀ DI LETTA O IL CORAGGIO DI RENZI? IL VERO RISCHIO È IL PAREGGIO

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Quale staffetta ci attende, la più prudente ma poco sexy Letta-Letta – che però non è banalmente un rimpasto e nemmeno un bis, ma un radicale cambio di passo del governo e soprattutto del presidente del Consiglio – o quella Letta-Renzi, gettonata da quasi tutti meno che dai due protagonisti? Il rischio è che non se ne faccia nessuna. Perché Letta sembra refrattario alle sollecitazioni al cambiamento, anche quelle amiche come questa di TerzaRepubblica. Mentre Renzi proprio sull’idea di poter succedere a Letta ha di colpo dismesso i panni del decisionista e preso due settimane di tempo per pensarci. Comprensibilmente, per carità, visto che affronterebbe una grande incognita sotto la pressione di aspettative enormi. Attese, però, che sarebbe non meno grave deludere sottraendosi ad una dinamica che lui stesso ha innescato, finendo per dare la sensazione che il suo decisionismo sia solo rappresentazione mediatica.

In mezzo c’è il Paese, cui manca una guida proprio nel momento in cui urge una vera e propria metamorfosi delle scelte politiche di fondo. Ha infatti ragione Giorgio Napolitano quando auspica, come ha fatto in modo solenne a Strasburgo, che si metta fine all’austerity ad ogni costo. Mentre il mondo inondato di liquidità rischia lo scoppio di un’altra bolla finanziaria come quella del 2007, l’Europa – che se non è in deflazione poco ci manca, nonostante le generose rassicurazioni di Draghi – deve smetterla con l’ossessione di politiche di bilancio che soffocano ogni possibilità di ripresa. Peccato, però, che questa fondamentale linea di governo sia stata espressa, dal presidente della Repubblica, e non da quello del Consiglio. Ora, è vero che noi stessi abbiamo battezzato l’attuale esecutivo come Napolitano-Letta, ma resta il fatto che agli occhi dei nostri partners l’indicazione del Quirinale, per quanto autorevolmente espressa, non vale quella del governo. Letta, però, invece di cogliere lo spunto dell’uomo a cui deve l’arrivo e la permanenza a palazzo Chigi, ha preferito polemizzare con Squinzi, reo di avere preso il toro per le corna nel rapporto con l’esecutivo, dandogli una sorta di ultimatum. Il presidente di Confindustria, che ha indicato proprio nel Capo dello Stato – sarà un caso? – il destinatario ultimo dell’accorato appello che gli imprenditori italiani rivolgono alla politica, segnala che, contrariamente alla vulgata governativa, la ripresa non è affatto partita – al massimo si può parlare di fine della recessione – e che senza interventi radicali quella parte di output perso dal 2008 ad oggi (oltre 9 punti di pil, di cui più della metà dovuti alla definitiva cancellazione di realtà produttive) non potrà mai più essere recuperato. È una colpa, la sua? A parte che se non lo avesse fatto la base confindustriale avrebbe imbracciato i forconi (anche) contro di lui, ma in tutti i casi è evidente a tutti che al paese manca lo spirito giusto per affrontare quella che rimane l’emergenza socio-economica della più grave crisi della sua storia repubblicana. Emergenza che certo non si affronta portando a casa 500 milioni dagli emirati arabi – con quella cifra comprano, tanto per dire, l’1,2% dell’Eni – o mettendo sul piatto i 250 milioni con cui il consiglio dei Ministri ha deciso di finanziare il “piano 2014 per la ricerca e l’innovazione”. Per carità, non si butta via niente, ma c’è bisogno di ben altro. Il nostro sistema produttivo è ormai ad un bivio – quello della sua definitiva internazionalizzazione – e il tempo per svoltare dalla parte giusta è ristretto a quest’anno e, forse, ad altri 12-24 mesi. Ci giochiamo tutto, e non possiamo certo affrontare una sfida così decisiva con l’arma del rattoppo. La disfida è pericolosa, perché la posta in gioco è altissima, ma non impossibile. Forse, per certi versi, non è neppure così tanto difficile: il nostro fatturato estero, pari a circa un quarto del pil complessivo, è nominalmente in capo ad oltre 200 mila imprese, ma la metà di esso è fatto da un migliaio di soggetti che superano i 50 milioni. Calcoli più o meno ottimistici dicono che la vera internazionalizzazione poggia sulle spalle di 12-15, al massimo 20 mila imprese. Troppo poche per sostenere un paese di 60 milioni di abitanti abituato a vivere al di sopra delle sue possibilità e ora in astinenza di quelle risorse pubbliche che fin qui hanno consentito di reggere, direttamente o tramite i consumi interni, il restante 75% del pil. Bisogna che il fronte del business globale si allarghi. E lo si può fare, perché in giro per il mondo c’è una enorme liquidità, capitali che sono molto interessati all’Italia. Una volta lo erano ai consumatori italiani, oggi guardano ai nostri prodotti d’eccellenza, ai marchi del made in Italy, al know-how delle multinazionali tascabili leader di nicchie interessanti. Ma questa “domanda di Italia” va intercettata, capita e assecondata. E di conseguenza va rimodulata l’offerta.

Tutto questo significa avere una politica industriale, e ancor più a monte vuol dire definire un modello di sviluppo “Italia 3.0”. È in grado questo governo, il cui azionista di maggioranza – il Quirinale – a fronte di risultati scarsi non sembra poterlo proteggere ulteriormente, di avere il respiro così largo da fare scelte neppure all’ordine del giorno di un dibattito politico sempre più miserabile? Renzi o non Renzi, questa è la domanda cui Letta deve saper rispondere. E che Renzi, Letta o non Letta, deve dimostrare di saper affrontare con quel coraggio su cui ha eretto la sua immagine e che ora gli italiani vogliono si traduca in sostanza concreta.

Campania, contributi fino a € 10.000 per biblioteche di enti locali e di interesse locale

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Con decreto dirigenziale n. 475 del 31 dicembre 2013 Regione Campania ha pubblicato il bando per l’assegnazione di contributi e sostegni finanziari alle biblioteche di enti locali e di interesse locale.
Possono presentare istanza di contributo le biblioteche di ente locale e di interesse locale, gli istituti che conducono attività sinergiche con le biblioteche espressione di enti pubblici, associazioni, fondazioni, istituzioni culturali, scuole, università, enti religiosi, ad esclusione delle persone fisiche e delle persone giuridiche con finalità di lucro, purchè in possesso di adeguata esperienza ed autorevolezza tecnico-scientifica in materia di formazione bibliotecaria, bibliografica, e biblioteconomica.

Tali soggetti possono chiedere contributo per le seguenti finalità:

Istituzione di biblioteche: si considerano nuove biblioteche quelle costituite da non più di un anno rispetto all’esercizio finanziario corrente, che non abbiano mai beneficiato di precedenti contributi e che siano, alla data di presentazione dell’istanza, già regolarmente funzionanti;
Incremento e miglioramento delle raccolte librarie e documentarie;
Incremento e miglioramento delle dotazioni di arredi e/o attrezzature tecniche;
Catalogazione di fondi bibliografici moderni e pubblicazione di cataloghi a stampa per fondi antichi, di pregio o di particolare interesse culturale;
Attività di qualificazione ed aggiornamento degli addetti alle biblioteche.
Possono, invece, richiedere sostegno finanziario per le seguenti finalità:

Interventi di tutela del patrimonio bibliografico antico e di pregio;
Promozione e valorizzazione dei patrimoni bibliografici antichi e di pregio;
Catalogazione informatizzata di fondi antichi;
Progetti di digitalizzazione del materiale librario antico.
Le istanze per tutte le finalità vanno presentate entro il termine perentorio del 27 marzo 2014.
L’importo dei singoli contributi può raggiungere € 10.000 e comunque non può essere superiore al 50% della somma richiesta.

 

Reti di PMI del Turismo, finanziamenti a fondo perduto fino a 200.000 euro

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Pubblicato esattamente dopo 1 anno il bando di attuazione del decreto del Ministero del Turismo 8 gennaio 2013. Il permette l’accesso a finanziamenti a fondo perduto per le aggregazioni di PMI, reti di imprese del turismo. La misura ha una dotazione finanziaria di 8 milioni di euro.

Beneficiari

 

Possono presentare domanda di accesso ai finanziamenti i raggruppamenti di piccole e micro imprese con forma giuridica di “contratto di rete” ovvero raggruppamenti di piccole e micro imprese che potranno assumere la forma giuridica di A.T.I (Associazioni Temporanee di Imprese costituite o ancora da costituire), Consorzi e società consortili costituiti anche in forma cooperativa.
Le aggregazioni non ancora costituite dovranno presentare idonea documentazione con la quale manifestano l’impegno a costituirsi formalmente entro il giorno 8 maggio 2014 a pena di esclusione.

Alla data di presentazione della domanda detti soggetti devono possedere i seguenti requisiti di ammissibilità:

coerenza dell’oggetto sociale/finalità dell’aggregazione con gli obiettivi del bando;
partecipazione all’aggregazione di un numero minimo di 10 piccole e micro imprese;
almeno l’80% delle imprese partecipanti alla rete devono essere imprese turistiche ovvero avere il codice primario ATECO 2007 (gruppo lett. I , nonché agenzie di viaggio e società trasporto persone).
Tipologia di progetti ammissibili ed ammontare del finanziamento erogabile

Sono ammissibili proposte progettuali che prevedano spese complessivamente non inferiori a € 400.000.
In particolare, i progetti dovranno prevedere una o più delle seguenti attività:

iniziative volte alla riduzione dei costi delle imprese facenti parte della rete attraverso la messa a sistema degli strumenti informativi di amministrazione, di gestione e di prenotazione dei servizi turistici, la creazione di piattaforme per acquisti collettivi di beni e servizi;
iniziative che migliorino la conoscenza del territorio a fini turistici con particolare riferimento a sistemi di promo-commercializzazione on line;
implementazione di iniziative di promo-commercializzazione che utilizzino le nuove tecnologie e, in particolare, i nuovi strumenti di social marketing;
sviluppo di iniziative e strumenti di promo-commercializzazione condivise fra le aziende della rete finalizzate alla creazione di pacchetti turistici innovativi;
promozione delle imprese sui mercati esteri attraverso la partecipazione a fiere e la creazione di materiali promozionali comuni.
L’importo concedibile è fissato in € 200.000 per ciascun progetto di rete. Non saranno ritenuti ammissibili progetti di rete che prevedono una spesa totale ammissibile inferiore a € 400.000.

La domanda deve essere presentata entro il 9 maggio 2014.

 

Attilio Manca, lo strano suicidio dell’urologo: la foto choc di Servizio Pubblico

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Lo ritrovarono in una pozza di sangue, sdraiato sul letto, seminudo, a pancia in giù, senza pantaloni, senza mutande e due segni di iniezioni . E’ la scena della morte di Attilio Manca, ritrovato morto il 12 febbraio 2004, decesso, secondo i medici legali, causato da un mix di eroina e tranquillanti. E’ la storia di un eccellente urologo, nato a San Donà di Piave e trovato morto a Viterbo. E’ la triste fine del medico che, secondo molti, avrebbe operato Bernardo Provenzano a Marsiglia durante la latitanza del boss. Un suicidio, secondo il gip di Viterbo, un omicidio o, perlomeno, un suicidio strano dicono altri.
Unica imputata per la morte di Manca è Monica Mileti, la presunta spacciatrice che avrebbe venduto l’eroina all’urologo.
Ieri Servizio Pubblico ha pubblicato le foto choc della morte di Attilio Manca. Per i periti sentiti dalla trasmissione vi sarebbero elementi poco chiari: “Quelle ferite sullo scroto e quel naso storto potrebbero raccontare un’altra storia”.
“Certo è che c’è un vuoto di indagini sulla posizione della Mileti che va approfondito durante il dibattimento. In tanti anni di professione non ho mai assistito a una cosa del genere, sono stupefatto e desolato per come sono state condotte le indagini del caso” ha detto Antonio Ingroia, che assiste la famiglia Manca.

Usa, Texas. Guardia frontaliera insegna a bimba come sparare a sagoma immigrato

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Una guardia frontaliera insegna a una bambina molto piccola a sparare contro una sagoma che ricorda un immigrato. E’ quanto accaduto nel corso di un recente evento organizzato in Texas dalla Border Patrol, la polizia americana che controlla le frontiere meridionali con il Messico. L’immagine scioccante e’ stata ripresa e rilanciata dalla tv locale, Nbc San Diego News, e sta provocando una bufera di polemiche. Non tanto per la scelta quanto meno discutibile di insegnare a una bimba di circa 5 anni a sparare con un fucile, anche se caricato con pallini di gomma, quanto al fatto che al posto di un normale bersaglio e’ stata scelta una figura che ricorda molto un clandestino.
Tantopiu’ in un’area dove spesso vengono uccisi messicani appena entrati illegalmente negli States. Secondo Pedro Rios, il capo di una locale associazione di migranti, la Immigrants Rights Consortium, la scena e’ stata ripresa a meno di 100 metri dal luogo in cui sono stati uccisi in passato immigrati in carne ed ossa da agenti della Border Patrol. ”In questo modo – denuncia Rios – si incoraggiano in modo inconscio i ragazzi ad aprire il fuoco contro di noi. Questa scena mostra bene la cultura dell’impunita’ che sta crescendo tra gli agenti, convinti di non essere responsabili di quello che fanno, per le loro pratiche di ricorso alla forza che vanno oltre ogni standard previsto dalla legge”.

Dal canto suo, la Border Patrol, respinge le accuse, dicendo che e’ normale per loro usare dei bersagli con camicia colorata e jeans e che non c’e’ alcuna volonta’ di criminalizzare nessuno. Tuttavia, da tempo la loro attivita’ e’ sotto l’esame delle autorita’: sin dal 2010, questo corpo speciale ha ucciso piu’ di 20 persone, una volta persino un ragazzo messicano di 16 anni, che stava gettando sassi contro la recinzione che segna il confine.