23 Settembre 2024, lunedì
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Rete imprese Italia: basta aumenti di tasse, le aziende muoiono

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“Le imprese muoiono” per questo chiediamo al governo: “basta aumentare le tasse e inseguire l’emergenza”. Lo afferma Marco Venturi, presidente di Confesercenti e di Rete Iimprese Italia, in un’intervista alla Stampa, alla vigilia dell’incontro con il premier Enrico Letta al quale parlerà “della manifestazione che Rete Imprese Italia ha organizzato per il 18. Vogliamo aprire un dialogo e successivamente affronteremo i temi di merito. Per noi la manifestazione è indetta e la manterremo, indipendentemente dalle vicende governative. Dev’essere un monito, vogliamo che si affrontino una serie di problemi con Letta o con l’eventuale nuovo governo. I problemi con il fisco valgono per qualunque governo e anche con i partiti con cui ci rapporteremo per chiedere un’attenzione diversa verso le piccole e medie imprese, tenendo conto di quello che sta succedendo. La disoccupazione nasce dalla chiusura delle imprese. L’aumento dell’iva e della pressione fiscale sono intollerabili in una situazione in cui i consumi stanno andando molto male. Se si pensa solo alla cassa si rischia di incassare di meno, come avevamo detto e come sta succedendo. E’ il nodo che non è stato sciolto perché si corre continuamente dietro l’emergenza. Non è il modo di affrontare una crisi lunga anni, serve un radicale cambiamento di rotta e bisogna agire sulla spesa”, conclude.

In contenzioso senza incubi

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L’avvocato deve sempre informare il cliente sul prevedibile costo del contenzioso, e sulla durata ipotizzabile del processo. Se il cliente lo richiede dovrà anche mettere per iscritto queste valutazioni. Inoltre dovrà rilasciare una fattura per ogni pagamento ricevuto. In mancanza ci si potrà rivolgere all’ordine di appartenenza del legale, che rischia fino a un anno di sospensione dalla professione. Sono questi i punti più significativi, dal punto di vista del cliente, del nuovo codice deontologico approvato dal consiglio nazionale forense, ora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. L’obiettivo è quello di spingere verso una professione meno incline a ripiegarsi sui propri interessi (causa che pende, causa che rende) e più al servizio del cliente. Dal punto di vista dell’utente dovrebbe consentire una maggior possibilità di controllo sulle azioni legali prima di iniziarle o non iniziarle. Sarà possibile anche mettere a confronto diversi preventivi e poi scegliere quello più conveniente. Nel codice deontologico ci sono anche altre norme che hanno l’obiettivo di qualificare la professione forense. Dal divieto di patto di quota lite a quello di fornire informazioni comparative con altri professionisti o comunque di fornire informazioni ingannevoli o fuorvianti. Importante anche l’obbligo di indicare al cliente il numero della polizza assicurativa, che di fatto anticipa per i legali l’obbligo di copertura. Regole severe anche sull’autopromozione on line: i siti dei legali non possono contenere link ad altri siti che sfuggano al controllo dell’avvocato, né possono contenere riferimenti commerciali o pubblicitari. I giovani non potranno usare forme aggressive per conquistare nuova clientela. Infine due novità assolute: una maggior attenzione alle notifiche in proprio, cioè quelle fatte direttamente dall’avvocato senza passare dall’ufficiale giudiziario e il dovere di rispettare il calendario del processo stilato dal giudice senza richiedere rinvii meramente dilatori.  In pratica il consiglio nazionale forense cerca di mettere in riga i tanti, troppi, avvocati che praticano la professione in modo troppo disinvolto. Sono 56mila, un quarto del totale, quelli che dichiarano rediti inferiori a 10mila euro.

Foibe, il giorno del ricordo. Monumenti imbrattati a Roma e Venezia

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Giorgio Napolitano, Pietro Grasso e Laura Boldrini. Tutti e tre a palazzo Madama per celebrare il Giorno del ricordo dedicato alle vittime delle foibe, “una delle pagine più tristi della storia del nostro paese”, come ha detto il presidente del senato”.” Questa giornata è dedicata a migliaia di italiani di Istria, Quarnaro e Dalmazia che tra indicibili sofferenze trovarono la morte”, ha detto Grasso: “ L’occupazione jugoslava di Trieste durò 45 giorni e provocò anche deportazioni. Di quell’orrore non si è mantenuto il dovuto ricordo. Ora questa cerimonia si pone in assoluta continuità con quelle che si sono svolte al Quirinale. Napolitano ha fatto di queste celebrazioni un momento fondamentale dell’unità nazionale e per questo lo ringraziamo . Il lavoro della memoria chiede a tutti coerenza per essere vissuto ogni giorno”. Prima che la cerimonia avesse inizio il capo dello stato ha Napolitano aveva preso posto in Aula tra Grasso e Boldrini. Presente anche il premier, Enrico Letta, e, tra gli altri, il capogruppo del Pd a Palazzo Madama, Luigi Zanda, il presidente della commissione Esteri, Pierferdinando Casini, il vice presidente del Senato, Maurizio Gasparri. Terminato il discorso di Grasso è cominciato l’omaggio musicale, del quale è protagonista il Maestro Uto Ughi, che esegue brani di Pugnani, l”Allegro maestoso’ e di Tartini, ‘Il Trillo del diavolo’, accompagnato al pianoforte dal Maestro Marco Grisanti. Nel corso della cerimonia il capo dello Stato, il presidente del senato e il sottosegretario del ministero dell’Istruzione, Universita’ e Ricerca, Marco Rossi Doria, premieranno le scuole vincitrici del concorso nazionale ‘La letteratura italiana d’Istria, Fiume e Dalmazia’.

Imbrattati i monumenti alla memoria a Venezia e Roma

Non sono mancati, come ogni anno, episodi di contestazione. In alcune occasioni i monumenti che ricordano i morti del confine con l’ex Jugoslavia sono stati imbrattati. È successo a Venezia, in piazza Marghera, dove il monumento è stato sporcato con vernice rossa e disegni di falce e martello, e anche a Roma, vicino alla stazione del metro Laurentina, dove è stata usata vernice bianca . Immediata la reazione del sindaco Ignazio Marino che ha inviato una squadra a ripulire. Il primo cittadino della capitale, inoltre, ha deposto una corona all’Altare della Patria, in Piazza Venezia. Anche il viceministro degli Esteri Marta Dassù ha assicurato che il governo «condanna fermamente» questi «episodi marginali ma assolutamente deprecabili». A Trento la sede di Casapound è stata imbrattata con uova e vernice rossa.

Export vino, l'Italia tiene e spopola in Russia. Ma il mercato globale arretra

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Nel 2013 l’Italia è riuscita a incrementare i propri flussi di export di vino sia per quanto riguarda i fermi imbottigliati sia per quanto concerne gli spumanti. In particolare, rispetto a quest’ultima tipologia, si è registrato un aumento del 3% in valore e del 9% nelle quantità. E’ quanto emerge dai primi dati dell’osservatorio Wine Monitor di Nomisma relativi all’anno 2013, secondo cui, a livello globale, dopo anni di crescita ininterrotta nei valori, e in alcuni casi anche nei volumi, dell’import, compaiono invece segnali di arretramento in alcuni importanti mercati come Cina, Canada, Brasile e Giappone. Per quanto riguarda la Cina, dopo una crescita esponenziale degli acquisti di vini stranieri da parte dei consumatori cinesi passati nell’arco di un ventennio da 1,7 milioni a 1.170 milioni di euro, il 2013 mostra un calo rispetto all’anno precedente di quasi il 5%. Sul fronte dei volumi, la percentuale di riduzione è più o meno simile: 4,4% a fronte di 3,77 milioni di ettolitri contro i 3,94 milioni, sempre riferiti al 2012. Negli Stati Uniti le importazioni sono diminuite sul fronte dei volumi (-6% misurato in euro), ma il calo ha riguardato solamente gli sfusi, tant’è vero che sia sul versante dei fermi imbottigliati che degli spumanti/frizzanti si è registrata una crescita (rispettivamente del 3% e 9%) che si è riflessa anche sui valori (+3% e +2%). La perdita a livello complessivo è dipesa dal fatto che gli sfusi pesano sui volumi totali di vino importato per quasi un terzo. In Brasile, rivela l’osservatorio di Nomisma, il calo ha interessato tutte le tipologie: dai fermi imbottigliati (-6% in valore rispetto al 2012), agli spumanti/frizzanti (-11%) e agli sfusi (-34%). Nel caso del Giappone, a fronte di una diminuzione nei valori dell’import totale di vino (-4%) si è registrato all’opposto una crescita nei volumi (+2%). In particolare, sono diminuite le importazioni in valore di vini fermi imbottigliati e spumanti, rispettivamente, del 3% e 9%. In Canada si èmanifestato un leggero arretramento dell’1% sia nei valori che nei volumi complessivi di import di vino. Infine la Russia è l’unico mercato tra quelli considerati dove l’import di vino ha messo a segno una crescita non indifferente: più 12% a valore, a fronte di un più 2 % nei volumi. Anche in questo mercato i vini italiani hanno conquistato ulteriori posizioni, a seguito di un incremento nei flussi di vino esportato superiore al 20%, sia nei valori che nelle quantità. Nel caso degli spumanti, l’import dall’Italia è aumentato del 49% in termini economici, a fronte di una crescita del 43% nei volumi, consolidando così la leadership detenuta dal nostro paese in tale segmento, con una quota oggi pari al 63% dell’import di spumante in Russia, contro il 27% della Francia. “A parte la forte svalutazione nei confronti dell’euro che ha interessato molte valute, come il real brasiliano o lo yen giapponese, l’unico elemento che sembra accomunare quasi tutti i paesi considerati”, spiega Denis Pantini, direttore dell’area agroalimentare di Nomisma e project leader di Wine Monitor, “è l’elevato calo nei quantitativi di vino sfuso importato derivante anche da una minor disponibilità di prodotto che, come si ricorderà, ha visto nel 2012 toccare i livelli più bassi degli ultimi dieci anni”.

Privatizzazioni, Il comitato può saltare. Saccomanni: carta Fincantieri

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Lo aspettavano, il passo falso, i detrattori delle privatizzazioni targate Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni. E il passo falso è arrivato: il Comitato privatizzazioni, voluto dall’esecutivo per affiancare i tecnici dell’Economia nell’impervia via delle dismissioni, si è insediato da poco più di due mesi ed è già in bilico, scrive Milano Finanza in un articolo dedicato alle dismissioni per 12 miliardi annunciate e avviate dal premier per ilo 2014. Il gruppo di esperti, presieduto dal direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via, è stato nominato lo scorso 26 novembre, sulla scorta di quanto previsto dal decreto legge numero 126 del 31 ottobre 2013, meglio noto come Salva Roma. Da allora si è riunito più volte, una anche alla presenza del premier Letta, e ha rilasciato il suo parere sugli schemi di Dpcm, decreto della presidenza del consiglio dei ministri, per l’avvio della privatizzazione di Poste ed Enav. Peccato che il provvedimento che lo ha fatto uscire dalle secche della storia, dopo la sua costituzione originaria nel 1993, e che ne ha stabilito i criteri di nomina , non sia mai stato convertito in legge dello Stato. Il Salva Roma, infatti è stato ritirato dall’esecutivo il 27 dicembre 2013, dopo che nel passaggio in Parlamento per la conversione in legge si era appesantito di tali e tante disparate norme da suscitare le critiche del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dopo aver rinunciato al decreto l’esecutivo ne ha emanato un altro, per riproporre le misure considerate più urgenti, ma non vi ha inserito quelle sul Comitato Privatizzazioni, né lo ha fatto dopo con altri provvedimenti. E adesso che i dpcm Poste ed Enav sono stati spediti alle camere per il parere obbligatorio (anche se non vincolante) i nodi vengono al pettine.

Ma Saccomanni vuole accelerare e mette Fincantieri in rampa di lancio

Secondo il Corriere della Sera, il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, è pronto ad accelerare il passo delle dismissioni per dare un contributo importante alla durata in carica del governo Letta. Il quotidiano spiega che per mercoledì prossimo, 12 febbraio, il comitato per le privatizzazioni si riunirà sotto la guida del direttore generale del ministero, Vincenzo La Via. L’obiettivo, dopo l’avvio delle procedure per la vendita del 49% del capitale delle Poste e del 49% di Enav, è quello di cedere una quota del 40% di Fincanbtieri, il colosso della cantieristica navale civile e militare.

Karlsruhe dichiara vincitore il diritto Ue

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La decisione del Tribunale Costituzionale tedesco del 7 febbraio sulla legittimità dell’Omt, il programma di cosiddetto acquisto illimitato di titoli di Stato di paesi dell’eurozona in difficoltà finanziarie, e subordinato a “stretta condizionalità”, che la Banca centrale europea (Bce) aveva approvato il 6 settembre 2012, interviene a distanza di un anno e mezzo dal deposito del ricorso promosso da un gruppo di deputati e professori tedeschi euroscettici.

La questione consisteva nell’accertare se l’Omt invadesse le competenze in materia di politica economica degli stati membri e violasse il divieto di finanziamento monetario degli stati posto in capo alla Bce, in contrasto con lo statuto della Bce e con l’art. 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue), che vieta alla banca centrale il finanziamento sul mercato primario.

Compatibilità Omt
A giudizio di sei membri su otto, il programma di acquisto di titoli di Stato violerebbe le prerogative degli stati membri in materia di politica economica, prescrivendo che, per ogni acquisto di bond, lo Stato in questione debba attuare determinate riforme strutturali (“stretta condizionalità”).

In secondo luogo, il programma avrebbe l’effetto di aggirare il divieto di finanziamento monetario degli stati membri (art. 123 Tfue), dal momento che, acquistando sul mercato secondario i titoli di Stato dei paesi in difficoltà, la Bce incentiverebbe anche l’acquisto di bond sul mercato primario da parte degli investitori.

Queste sarebbero le “importanti ragioni per presumere”, si legge nella decisione, che il programma di acquisti obbligazionari “ecceda il mandato di politica monetaria della Bce, violando i poteri degli stati sovrani e il divieto di monetizzazione del debito pubblico”.

Ciononostante, i giudici della corte di Karlsruhe non sono andati fino in fondo. Essi hanno infatti sollevato, non senza aver ipotizzato un’interpretazione dell’Omt conforme al diritto dell’Unione (§§ 99-100), un rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue), che dovrà dunque pronunciarsi sulla compatibilità del programma con il diritto primario dell’Unione.

Ultra vires
In termini giuridici la decisione si presta a un classico commento in chiaroscuro. Da una parte vi traspare la netta convinzione dell’illegittimità del programma Omt. La quale – se si basa sulla tesi che esso sia ultra vires rispetto al mandato della Bce – riflette l’indirizzo giurisprudenziale avviato dalla sentenza Lissabon Urteil e fortemente consolidatosi con le sentenze emesse fra il 2011 e il 2012 sugli aiuti alla Grecia, sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e sul Fiscal compact.

Muovendo da un’intransigente difesa della sovranità del popolo tedesco, questo indirizzo giurisprudenziale ha imposto una previa delibera del Bundestag su qualsiasi decisione dell’Unione economica e monetaria o del Mes relativa al salvataggio finanziario di paesi dell’eurozona.

Questo indirizzo contrasta peraltro nella specie con la netta affermazione del Maastricht Urteil del 1993, secondo cui “le facoltà del Bundestag e quindi degli elettori di influire sull’esercizio dei poteri sovrani da parte degli organi europei sono (….) quasi integralmente ridotte, nella misura in cui la Bce è configurata come Banca indipendente nei confronti della Comunità europea e degli stati membri”, trattandosi di “garantire la fiducia nella convertibilità di una moneta” che può essere assicurata “meglio da una banca centrale indipendente che non da organi pubblici che dipendono nelle loro possibilità di azione e nei mezzi essenzialmente dal volume e dal valore del denaro, nonché da un consenso limitato nel tempo da parte delle forze politiche”.

Europa sovranazionale
Dall’altra parte, la decisione di rinviare la questione alla Corte del Lussemburgo costituisce indubbiamente una svolta a favore della concezione sovranazionale dell’Unione europea, se solo si tiene conto che, fra le corti costituzionali degli stati membri, il Tribunale tedesco era rimasto il solo a rifiutare ancora di esperire il rimedio del rinvio pregiudiziale.

Le ragioni di questa scelta sono state a mio giudizio sia giuridiche che politiche. Sul primo piano, la questione coinvolgeva solo in via subordinata il diritto costituzionale nazionale, al punto che lo stesso ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble aveva messo in dubbio la competenza del Tribunale di Karlsruhe a esprimersi su una materia quasi esclusivamente di diritto europeo.

In termini politico-effettuali, deve essere poi risultato forte il timore che l’accoglimento del ricorso avrebbe creato scompiglio sui mercati finanziari e, conseguentemente, nella stessa Unione, in una fase di grande precarietà e alla vigilia di elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo dall’esito quanto mai incerto per il suo stesso futuro.

Tuttavia la partita con la Corte del Lussemburgo è più che mai in corso. Le motivazioni che accompagnano il rinvio pregiudiziale sono infatti tutt’altro che rassicuranti per la Corte di giustizia, che viene così stretta tra due fuochi. La scelta dei tempi si rivelerà ancora una volta di estrema importanza.

Alitalia esce dalle sabbie mobili

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La vicenda Alitalia è uscita definitivamente dai confini nazionali. Dopo il tentativo dei “capitani coraggiosi” di salvare il vettore nazionale e la lunga e complicata trattativa con Air France, il governo e il management di Alitalia sembrano aver deciso.

Sarà Etihad il partner della nostra compagnia di bandiera. Entrerà nel capitale, contribuendo a ridefinire il piano delle rotte e avanzando anche l’interesse per la società di controllo e gestione dell’hub di Fiumicino.

Letta nel Golfo
A suggellare questa ipotesi è stato il nostro premier Enrico Letta nel corso della sua ultima missione nel Golfo. Ora è in corso la due diligence, il processo investigativo che viene messo in atto per analizzare valore e condizioni di un’azienda.

A causa di qualche possibile ostacolo – in primis i tempi sensibili dei livelli occupazionali in Alitalia e delle tariffe aeroportuali – questa fase durerà almeno un mese. La strada sembra però segnata e il tempo necessario a definire i dettagli è garantito dall’ingresso di Poste italiane nel capitale della compagnia di bandiera.

L’accordo è di per sé non solo necessario, ma anche opportuno perché in un mercato come quello del trasporto aereo è impossibile immaginare di rimanere soli.

L’alleanza Skyteam – di cui Alitalia è parte insieme ad Air France, Klm e alla stessa Etihad – ha dimostrato di funzionare solo parzialmente ed è servita per raggiungere in parte economie di scala, ma non ha salvato Alitalia dalle sabbie mobili dei debiti.

Con Etihad si potrà discutere una razionalizzazione delle rotte e dei costi, rafforzando il ruolo della nostra compagnia come vettore regionale senza trascurare le opportunità sul lungo raggio che offre il partner emiratino.

Etihad Airways è operativa dal 2003 e ha trasportato nel 2013 circa 12 milioni di passeggeri; dal suo hub, l’Abu Dhabi International Airport, serve 102 destinazioni per il trasporto passeggeri e merci in Medio Oriente, Africa, Europa, Asia, Australia e America con una flotta di 89 Airbus e Boeing.

La compagnia ha ordinato altri 220 aerei, tra cui 71 Boeing 787 e 10 Airbus A380, il più grande aereo passeggeri del mondo.

Levata di scudi
La notizia dell’accordo ha ovviamente provocato una levata di scudi da parte dei concorrenti. Non tanto di Air France, ormai rassegnatasi a rimanere nel capitale di Alitalia in una posizione minoritaria, ma soprattutto di Lufthansa che ha denunciato alla Commissione europea il dossier Alitalia per supposti aiuti di Stato e violazione della concorrenza. La Commissione si è pronunciata a tempo di record, respingendo la denuncia tedesca.

Il rapporto tra Etihad e il governo emiratino è infatti al di fuori del perimetro della competenza europea. Il faro di Bruxelles è invece ancora acceso sulla natura del prestito garantito da Poste italiane per l’aumento di capitale.

Secondo i tecnici europei, questa seconda operazione potrebbe presentare profili di incompatibilità con le regole del mercato. Alitalia e Etihad hanno però confermato che entro un mese sarà definito l’accordo tra le parti e il ruolo di Poste potrebbe quindi risultare temporaneo e comunque diluito.

Malpensa penalizzata
Se i profili di ottemperanza alle regole di mercato sembrano quindi rispettate non saranno né poche né indolori le possibili ricadute del nuovo corso sul mercato domestico. Un piano di rilancio industriale per Alitalia comporta una razionalizzazione dei costi e degli strumenti operativi, a cominciare dall’individuazione dei nuovi hub.

Da questo punto di vista, mentre sembra essere pienamente salvaguardato se non addirittura valorizzato il ruolo di Fiumicino, le prime notizie relative all’accordo sembrano penalizzare fortemente Malpensa, sacrificata per dirottare molti dei voli nazionali e regionali verso Linate.

Ma è la sorte di numerosi scali nazionali a rimanere quanto mai incerta, nonostante il recente piano aeroporti varato dal governo e dal ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Maurizio Lupi. Occorrerà vedere quanti e quali scali aeroportuali Etihad e Alitalia riterranno strategici e se la rete – molto capillare – degli aeroporti italiani potrà servire al meglio le esigenze di redditività della nuova alleanza.

Chiuso – si spera presto e bene – il fronte esterno, Alitalia rischia di essere ancora a lungo un problema per il governo italiano e per il fronte interno.

Italia, la deriva della corruzione

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Gli sforzi fatti sino ad oggi dall’Italia in campo legislativo nella lotta alla corruzione sono del tutto insufficienti e lasciano irrisolti i problemi. È quanto afferma la Commissione europea nella sua relazione sulla lotta alla corruzione, inviata il 3 febbraio al Consiglio e al Parlamento europeo.

Nonostante la nuova legge anticorruzione e l’adozione del piano triennale nazionale contro questa piaga, primo passo per la conseguente approvazione di atti simili da parte di regioni ed enti locali, il livello della corruzione italiana è rimasto altissimo.

Piani fantasmagorici
Quasi 60 miliardi all’anno – ha stimato la Commissione – il 4% del Pil italiano e, si badi bene, la metà di quello che l’economia europea perde annualmente a causa della corruzione, cioè 120 miliardi. Dati catastrofici, presi peraltro dalle relazioni della Corte dei conti italiana, che non ammettono replica.

Le bacchettate della Ue sono ancora più importanti perché quest’ultima, anche se con grande diplomazia ed eleganza, demolisce l’impianto normativo nazionale di lotta alla corruzione ritenendolo, anche se non lo dice espressamente, non solo inadeguato, ma comportante un ulteriore appesantimento burocratico ad anacronistici strumenti di lotta.

Il riferimento va innanzitutto alla “trovata” italiana di risolvere i problemi adottando fantasmagorici “piani triennali anticorruzione”, con dentro un po’ di tutto, dall’analisi dei processi amministrativi a rischio alla prevenzione e alle misure di repressione.

E chi dovrà adottare tutto questo? (non lo poteva chiedere la Commissione europea, ma ce lo chiediamo noi) Semplice! Quelle stesse amministrazioni la cui dirigenza ha condanne e indagini a carico da parte di magistratura inquirente e contabile e che, in caso, di inchieste per corruzione di suoi dirigenti si guarda bene dal sospenderli o rimuoverli.

Prescrizione e carenze legislative
Ma torniamo alla relazione europea. Proprio sul piano nazionale anticorruzione la Commissione mostra evidenti dubbi per la sua efficacia, comportando “un onere considerevole” per le pubbliche amministrazioni.

Grosse perplessità sono manifestate nei confronti delle macchinose procedure per l’adozione dei piani di regioni, enti locali e altre istituzioni, nonché, per la nomina, nei vari enti, di un “responsabile per la prevenzione della corruzione”.

La Commissione, infatti, dopo le lodi di rito all’“ambizioso” progetto, osserva come sia “importante scongiurare il rischio che quest’esercizio su larga scala si trasformi in un processo formalistico dove i documenti programmatici e l’assetto istituzionale contino di più degli interventi immediati in grado di risolvere le falle esistenti”.

Non è peraltro chiaro – sottolinea – se tutte le amministrazioni abbiano le competenze e le capacità per elaborare i piani d’azione e garantirne un’attuazione reale.

Stesso discorso sulla nuova legge italiana anticorruzione (Legge 6 novembre 2012, n. 190). Dopo aver espresso alcuni apprezzamenti, in maniera tranciante la Commissione osserva come restino irrisolti molti problemi, dalla disciplina della prescrizione che non consente la condanna dei colpevoli, alle carenze legislative sul falso in bilancio ed alla frammentazione delle norme sulla concussione e la corruzione. Bocciata anche questa! E passiamo oltre.

Corruzione, politica e criminalità
È il capitolo sulla “Corruzione nelle alte sfere e legami con la criminalità organizzata” che consegna ai paesi europei un quadro desolante e drammatico dell’Italia. La Commissione sottolinea infatti che “la credibilità di un quadro anticorruzione efficace e dissuasivo dipende dalla capacità di perseguire i casi di corruzione”, ma la “percezione pubblica del fenomeno denuncia lo scarso effetto deterrente delle sanzioni applicate in questo settore”.

Inoltre rapporti internazionali di tutto rispetto, hanno rilevato come le carenze esistenti nella normativa penale italiana contribuiscano alla percezione di “un clima di quasi impunità”, ostacolando l’efficacia dell’azione penale e l’accertamento dei casi di corruzione.

Nel nostro paese, i legami tra politici, criminalità organizzata e imprese e lo scarso livello di integrità dei titolari di cariche elettive e di governo sono oggi tra gli aspetti più preoccupanti, come testimonia l’elevato numero di indagini per casi di corruzione, tanto a livello nazionale che regionale.

Uno studio del 2010 a cura del Center for the Study of Democracy considera il caso italiano tra i più esemplari per capire quanto stretti siano i legami tra criminalità organizzata e corruzione. Secondo tale rapporto “è soprattutto la corruzione diffusa nella sfera sociale, economica e politica ad attrarre i gruppi criminali organizzati e non già la criminalità organizzata a causare la corruzione”.

Davanti a questo quadro desolante, a conclusione dell’impietosa analisi, la Commissione europea consiglia all’Italia l’adozione di alcune misure, come la modifica della disciplina della prescrizione e il rafforzamento del regime di integrità delle cariche elettive e di governo nazionali, regionali e locali.

Ci sembra, però, di notare, nel tono dell’appello, una qualche perplessità sulla convinzione che l’Italia possa accettare simili suggerimenti. Perplessità che potrebbero, negli anni successivi, trasformarsi in certezza.

L’Euro senza Europa

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Da oltre dieci anni l’euro è moneta legale in Kosovo e Montenegro. Si è trattato in ambedue i casi di una decisione unilaterale mossa da ragioni economiche – iperinflazione, forte contrazione dell’economia, euroizzazione de facto assai diffusa fra gli agenti economici privati – e politiche – la secessione dalla ex Jugoslavia.

Lo status di stati indipendenti – dal 2006 per il Montenegro e dal 2008 per il Kosovo – ha sollevato la questione della congruità di tali regimi monetari atipici con i Trattati europei, resa più acuta dal fatto che il Montenegro è tra i paesi candidati all’ingresso nella Unione europea (Ue), con cui ha avviato negoziati di adesione. Il Kosovo è fra i “potenziali” candidati, nella fraseologia comunitaria.

Dal punto di vista della sostanza economica, i due paesi – minuscole economie – godono di margini di manovra assai limitati nell’affrontare possibili shock esterni in quanto le loro banche centrali non possono condurre una politica monetaria autonoma né agire come prestatrici di ultima istanza.

Sono fortemente esposti a rischi di instabilità sia macroeconomica che finanziaria. Nell’ultimo quinquennio hanno segnato un discreto progresso economico con solidi tassi di crescita del Pil. Restano però strutturalmente molto deboli, con tassi di disoccupazione assai elevati (dell’ordine del 12-15 per cento in Montenegro e del 30-40 per cento in Kosovo).

Il Montenegro registra poi un disavanzo molto ampio e persistente della bilancia dei pagamenti correnti e quindi un accumularsi di debito nei confronti dei mercati esteri dei capitali.

Criteri di convergenza
Nella prospettiva dell’ingresso nella Ue e poi nell’area dell’euro e nel processo di convergenza economica che questo percorso implica, sorgono difficoltà istituzionali in quanto il Trattato prevede che i paesi membri della Ue con una propria moneta nazionale adottino l’euro qualora soddisfino i criteri di convergenza, ivi incluso quello relativo alla stabilità del tasso di cambio rispetto all’euro nell’ambito del cosiddetto “ERM II”.

Questo è stato l’iter di adesione all’euro sia per i primi entranti nel 1998 che per i successivi. Una regola di parità di trattamento implicherebbe un iter siffatto anche per i due paesi in questione.

Su questo punto, norma giuridica e sostanza economica sono, almeno in parte, in conflitto.

Nelle sue conclusioni dell’ottobre 2007 – il documento principale in materia – il consiglio Ecofin dichiarò che l’adozione unilaterale dell’euro non è compatibile con il Trattato, aggiungendo con un po’ di voluta vaghezza che le implicazioni del Trattato per il regime monetario del Montenegro sarebbero state precisate al tempo dei negoziati di adesione.

Una possibile soluzione sarebbe rappresentata dall’introduzione di una propria moneta nazionale, legata all’euro da un regime di “currency board” – che implica una parità irrevocabilmente fissa fra le due valute. Questo consentirebbe in linea di principio di valutare la convergenza dell’economia del paese al momento della sua domanda di adesione all’euro secondo i classici criteri di Maastricht.

Tale soluzione comporta tuttavia dei costi elevati e non è scevra da rischi nel doppio passaggio dall’euro alla moneta nazionale e poi nuovamente all’euro.

Non è quindi escluso che possa prevalere una posizione più flessibile e pragmatica, in ragione delle natura eccezionale delle condizioni che hanno contraddistinto l’euroizzazione unilaterale. In tal caso, sarebbe poi il Trattato di adesione a disciplinare un processo di convergenza ad hoc.

Questo è lo stato dell’arte ad oggi.

L’Europa toglie il gesso all’Havana

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Il Consiglio Affari Esteri dell’Unione europea ha concesso al Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) e alla Commissione Europea un mandato negoziale per la conclusione di un accordo bilaterale con Cuba, provvisoriamente denominato di dialogo politico e cooperazione.

Oltre la posizione comune
L’approvazione, il 10 febbraio, di questo mandato apre la strada al superamento della cosiddetta “posizione comune”, la dichiarazione unilaterale del Consiglio Ue del 1996 che sottometteva i rapporti tra Ue e Cuba a dei progressi concreti dell’apertura democratica e del rispetto dei diritti umani nell’isola caraibica.

La posizione comune, uno strumento sui generis esistente nella pratica solo nei confronti di Cuba, era stata adottata da un’Europa a 15 per iniziativa dell’allora neoeletto premier spagnolo José Maria Aznar, ed era seguita a un periodo di rapporti altalenanti tra Bruxelles e l’Havana che per un certo periodo valutò la possibilità di aderire al sistema di Lomé (convenzioni che regolano i rapporti dell’Ue con i paesi in via di sviluppo di Africa, Caraibi e Pacifico), per poi declinare l’offerta a causa dell’esigenze in materia democratica.

Dal 1996 in poi, la posizione ingessò i rapporti comunitari con Cuba, senza peraltro ottenere particolari risultati né in materia di sviluppo democratico nell’isola, né di riforme economiche.

L’allargamento dell’Ue nel 2006 venne a irrigidire ulteriormente la posizione comune, a causa della poca simpatia di diversi governi dell’Europa centro – orientale nei confronti di un paese ancora comunista.

Commercio e diplomazia
Ciononostante, pur non potendo concludere un accordo internazionale con Cuba, l’Ue si è nel tempo consolidata come il secondo socio commerciale dell’isola dopo il Venezuela e il primo investitore nel paese. Una volta ristabilita la cooperazione, congelata nel 2003 a seguito degli arresti di dissidenti cubani (il gruppo dei 75) e riavviata nel 2006, l’Ue ha aperto anche una missione diplomatica nell’isola, diretta fino al 2012 da un incaricato d’affari.

Da diverso tempo si cercava una formattazione dei rapporti con Cuba, unico paese d’America Latina non legato da alcun trattato con Bruxelles.

È esattamente questo che il nuovo negoziato persegue: la contrattualizzazione dei rapporti, mantenendo l’essenza delle linee d’attuazione: incoraggiamento delle riforme politiche ed economiche, sistematizzazione del dialogo in materia di diritti umani e libertà fondamentali, facilitazione degli scambi commerciali e degli investimenti.

Nessun accordo di associazione
La posizione comune come tale rimane in vigore e sulla base del negoziato che nei prossimi mesi il Seae e la Commissione porteranno avanti, gli stati membri valuteranno se abrogarla, sostituendola con il nuovo trattato, che non sarebbe però un accordo d’associazione (che richiede un livello di compenetrazione politica attualmente non raggiungibile con Cuba). Il trattato equivarrebbe a quelli di prima generazione, conclusi negli anni ottanta-novanta.

È un cauto passo avanti che dovrebbe permettere all’Ue di consolidare i rapporti con Cuba e che anche all’Havana dovrebbe interessare: il futuro del sistema attuale si complica infatti alla luce dell’indebolimento economico del Venezuela dopo la morte di Chávez.

Tra Chávez e i Castro si era sviluppato un rapporto di fraterna collaborazione ideologica – economica, nella quale il presidente venezuelano ricercava legittimità rivoluzionaria a cambio di petrolio. Il tutto completato da varie “missioni” di cooperazione nei paesi dell’Alleanza bolivariana per le Americhe, finanziate dal petrolio venezuelano e spesso composte da personale cubano, specie nel campo sanitario. Il Venezuela aveva nei fatti sostituito l’Urss.

Necessario quindi mantenere un cauto riformismo che permetta di aprire qualche spiraglio per il miglioramento del livello di vita della popolazione. Le riforme a Cuba sono sempre e solo economiche e molto limitate: il sistema cubano non crede minimamente alle virtù su larga scala del mercato, al massimo cerca di lasciare qualche spazio a iniziative di poca portata.

L’ultima serie di riforme prevede rilassamenti in materia di compravendita d’immobili, automobili e iniziative imprenditoriali: le prime due sinora impossibili ai privati, la terza molto limitata.

Vertice Celac
Cuba, pur avendo rapporti altalenanti con l’Europa e molto tesi con gli Usa, non è stata mai davvero emarginata dalla famiglia latinoamericana: il recente vertice della Comunità Economica dell’America Latina e dei Caraibi (Celac), organizzazione americana che esclude Usa e Canada e che sta acquisendo maggiore importanza rispetto all’Organizzazione degli Stati Americani, è stato un grande successo, con l’infrequente presenza di 32 capi di stato su 33 (assente solo il panamegno Martinelli, in cattivi rapporti con l’Havana).

E Messico e Brasile, le due potenze emergenti latinoamericane, stanno dimostrando la loro volontà di competere sullo scenario cubano (il Messico ha condonato 70% del debito dell’Havana, il Brasile ha investito nel porto di Muriel).

Cuba ha un’importanza simbolica in America Latina, molto al di là dell’effettivo peso dell’isola che è ridotto. Accompagnare le riforme che inevitabilmente verranno da posizioni privilegiate è quello che Ue, Messico e Brasile stanno perseguendo; ognuno a suo modo.

Persino gli Stati Uniti, pur bloccati dalla sensibilità che il dossier cubano ha per la politica americana, specie e in uno stato chiave come la Florida, hanno intrapreso un cammino sottotraccia per ravvivare i rapporti economici e i contatti con Cuba.

La prossima fase dei rapporti tra Ue e Cuba sarà quindi inevitabilmente caratterizzata da flessibilità e realismo che dovrebbero essere facilitati dal nuovo quadro istituzionale.