24 Settembre 2024, martedì
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6.000 Campanili, l’on. Giulietti interroga il Governo per chiedere il finanziamento di ulteriori progetti

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Dopo l’interrogazione urgente presentata insieme ad altri 50 deputati, l’on. Giampiero Giulietti è tornato sulla questione del “Programma 6.000 campanili” con un’interrogazione a risposta scritta al Ministro delle Infrastrutture con il quale sollecita il Governo a finanziare anche i progetti collocati utilmente in graduatoria.

“Molti Comuni sono rimasti fuori dai primi finanziamenti soltanto per aver spedito il progetto qualche secondo dopo quelli finanziati. – ha dichiarato l’on. Giulietti – E’ quindi auspicabile che il Governo lavori per finanziare ulteriormente i progetti ritenuti ammissibili, predisponendo per il futuro una modalità diversa per accedere al contributo, che tenga conto principalmente della qualità della progettazione e della regione di appartenenza, stabilendo anche un limite di importo massimo in relazione agli abitanti di ciascun comune. 

Il solo criterio della celerità nel “cliccare” il tasto del computer è risultato inadeguato dal momento che ha fortemente penalizzato i comuni, soprattutto montani, che soffrono di un forte gap competitivo a causa dell’inadeguatezza delle linee informatiche”. Nell’interrogazione il deputato Pd chiede inoltre di conoscere la graduatoria relativa a tutti i progetti ammissibili a finanziamento e la graduatoria di quelli esclusi dal finanziamento.

Ufficio Stampa

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Italia, percorsi per uscire dall’Afghanistan

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Oltre a costituire un possibile punto di svolta per l’Afghanistan e per l’intera regione centroasiatica, la fine della missione Isaf (International Security Assistance Force), fissata a dicembre di quest’anno, rappresenta una difficile sfida per gli stati che vi hanno preso parte.

Alle difficoltà che un’operazione del genere comporta si aggiungono le incognite derivanti da una situazione politica estremamente fluida come quella afghana. Nel caso dell’Italia, poi, il “caso Shalabayeva” potrebbe complicare ulteriormente il piano per il ritiro.

Da la Marmora a Camp Arena
In occasione del vertice interministeriale della Nato tenutosi il 4 e 5 giugno 2013 a Bruxelles, i paesi alleati si erano impegnati a rimanere in Afghanistan anche dopo il 2014 nell’ambito della missione Resolute Support, che dovrebbe coinvolgere un totale di 10-12 mila uomini e avere come principale obiettivo quello di continuare ad addestrare ed assistere le forze di sicurezza afghane, ma senza compiti di combattimento.

Si tratterebbe di una missione più limitata rispetto a Isaf, ma fondamentale per garantire il corretto utilizzo dei fondi che nei prossimi anni verrebbero stanziati per l’Afghanistan, in particolare per l’equipaggiamento e gli stipendi delle forze di sicurezza afgane (circa 4,1 miliardi di dollari l’anno).

Tuttavia, la mancata firma dell’Accordo bilaterale di sicurezza (Bilateral secutiy agreement, Bsa) con gli Stati Uniti da parte del presidente Hamid Karzai sta complicando i piani della comunità internazionale.

Attualmente, l’Italia schiera circa 2mila uomini in Afghanistan. Il 28 gennaio, la base operativa avanzata La Marmora di Shindand, ultima delle Forward Operating Base (Fob) italiane è stata ceduta definitivamente alle forze di sicurezza afghane, nell’ambito del passaggio di consegne della responsabilità della sicurezza da Isaf alle autorità locali.

Essa diverrà la sede della brigata aerea della nascente aeronautica militare afgana di cui gli italiani, con 35 istruttori dell’aeronautica Militare, stanno preparando piloti e controllori di volo.

Con la cessione della Marmora, la Transition Support Unit Center si è rischierata interamente a Camp Arena (Herat), sede del Regional Command West sotto il comando dell’Italia. Nei piani, l’Italia dovrebbe mantenere una presenza di circa 800-900 soldati da impiegare nell’ambito della Resolute Support, per una spesa annua stimata in 200 milioni di euro

Secondo fonti della difesa, “le spese prevedibili a regime (800-900 unità) si attestano intorno ai 250-300meuro. Dipende comunque dal tipo di missione che verrà indicata (non combat) per cui presenta un certo grado di variabilità”. Tuttavia, un mancato accordo tra Washington e Kabul sul Bsa si tradurrebbe nell’inevitabile ritiro di tutto il contingente Isaf con conseguenze negative dalla portata imprevedibile sulla stabilità del paese.

Ritiro truppe
Il ritiro dall’Afghanistan rappresenta un’operazione estremamente delicata. Si tratta, infatti, di un paese senza sbocchi sul mare, situato in un complesso contesto regionale, se si considerano i difficili rapporti tra Kabul e i suoi vicini. Ogni azione deve essere pianificata con la massima attenzione e decisa di concerto con gli altri paesi Nato. Un ritiro disordinato e male organizzato, infatti, esporrebbe a notevoli rischi chi restasse eventualmente indietro.

Sinora, l’attività di redeployment ha comportato il rientro in Italia di oltre mille soldati e un totale di quasi tremila metri lineari di carico, comprese centinaia di mezzi mobili campali e veicoli tattici.

Il principale responsabile della esecuzione del piano di ritiro è l’Italfor, l’unità logistica del contingente italiano, guidata dal colonnello Riccardo Sciosci che ricopre anche la carica di Comandante logistico nazionale. I mezzi e gli uomini sino a oggi movimentati sono stati rimpatriati mediante ponti aerei da Herat a Dubai e da lì imbarcati e trasferiti in Italia. Il trasporto dei materiali è stato concesso in appalto a una ditta ucraina che dispone di vettori aerei idonei, per un costo di circa 70mila euro per ogni volo di andata e ritorno.

Per quanto riguarda il rientro dei mezzi e degli uomini ancora di stanza in Afghanistan, le opzioni sul tavolo dei decisori italiani sono essenzialmente tre.

La prima, quella del ponte aereo sino a un porto del Golfo (Abu Dhabi piuttosto che Dubai) e il successivo imbarco e trasferimento in Italia, è quella che pone meno interrogativi dal punto di vista politico e della sicurezza. Si tratta, tuttavia, anche dell’opzione più onerosa dal punto di vista economico. Pertanto, è probabile che venga utilizzata per il rimpatrio dei materiali di cui le forze armate italiane potrebbero necessitare nel breve periodo, oltre che per il ritiro dei soldati (per il quale è percorribile anche la scelta di voli commerciali).

Riflessi caso Shalabayeva
La seconda opzione è rappresentata dalla cosiddetta Northern Distribution Network (Ndn), rete che si estende dall’Uzbekistan alle repubbliche baltiche, passando per il Kazakhstan e una parte della Russia, in prevalenza sfruttando il trasporto ferroviario.

Il costo del trasporto di un container attraverso la Ndn sarebbe compreso tra i 10 e i 12mila euro. Per l’Italia si tratterebbe di un’opzione importante soprattutto per quanto riguarda il rimpatrio di mezzi e materiali di cui le forze armate non necessitano nel breve periodo. Tuttavia, il deterioramento dei rapporti tra Italia e Kazakhstan provocato dal “caso Shalabayeva” sta avendo riflessi negativi sulla pianificazione del ritiro italiano dall’Afghanistan.

A febbraio 2013, infatti, l’allora ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, e il suo corrispettivo kazako avevano siglato un accordo per il transito del personale e dei mezzi militari italiani schierati in Afghanistan che prevedeva l’uso gratuito della base aerea di Shymkent. Tale accordo risulta al momento “congelato”, per stessa ammissione dell’attuale ministro della Difesa, Mario Mauro.

Secondo fonti interne al Ministero della Difesa, i contatti con la controparte kazaka sarebbero stati già riallacciati e vi sono buone probabilità che l’intera faccenda si risolva nei prossimi mesi. Nel migliore dei casi, la vicenda Shalabayeva potrebbe aver provocato solamente un rallentamento nel processo delle autorizzazioni. Tuttavia, il condizionale è d’obbligo, così come l’individuazione di opzioni alternative.

La terza via percorribile per le operazioni di retrograde è quella del trasporto via terra attraverso il territorio pakistano e il successivo imbarco dei materiali al porto di Karachi. In questo caso, oltre a preoccupazioni relative alla sicurezza, esistono incognite di carattere politico. La vie di accesso, infatti, vengono spesso bloccate da gruppi di dimostranti pakistani, sostenuti nelle loro iniziative dal governo locale del Khyber Pakhtunkhwa.

Qualunque sia l’opzione scelta, è possibile che una parte del materiale venga lasciata in dotazione alle forze armate afghane, elemento suscettibile di favorire, tra le altre cose, un più agevole accesso sul mercato locale da parte delle imprese italiane.

Verso le elezioni
Le incognite relative al ritiro dall’Afghanistan delle truppe italiane e di quelle degli altri alleati riflettono la grande incertezza che avvolge il futuro del paese. Il 2 febbraio ha preso ufficialmente il via la campagna per le presidenziali, ma è difficile che si aspetti di conoscere l’esito delle elezioni per decidere le sorti della pianificata missione Resolute Support e degli uomini e dei mezzi ancora impiegati in Afghanistan.

In caso di ballottaggio, infatti, i tempi potrebbero allungarsi sino a luglio, rendendo impossibile un’adeguata pianificazione delle operazioni. Una eventuale mancata firma del Bsa da parte di Karzai prima delle elezioni potrebbe segnare, dunque, la fine dell’impegno della Nato in Afghanistan, con conseguenze che oggi è difficile prevedere.

Tra spartiacque e confluenza

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L’anno europeo degli anniversari ‘pesanti’ era stato posto sotto l’egida di parole importanti, in vista delle elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo e della presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Unione europea (Ue) dal 1° luglio al 31 dicembre.

Di anno spartiacque, aveva parlato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; di anno di svolta, il premier Enrico Letta e pure il presidente, intervenendo, il 4 febbraio, alla plenaria dell’Assemblea di Strasburgo. “Spartiacque” e “svolta”, per l’Unione, tra il rigore e la crescita, i sacrifici e l’occupazione.

Verso le elezioni europee
A cento giorni dalle elezioni europee, la diplomazia italiana comincia a mettere dell’acqua nel vino, non sempre buono, della politica: così, lo “spartiacque” diventa “confluenza” – sperando che almeno sia quella al Ponte della Becca del Ticino della crescita nel Po del rigore, non quella d’un rigagnolo nel grande fiume; e la “svolta” diventa “correzione di rotta”, perché “l’Ue è come una nave, che basta toccare il timone e vira di molto, ma molto lentamente”.

Realismo a fronte di retorica: nessuno s’illude che l’Ue, dopo le elezioni di maggio e il rinnovo delle Istituzioni – la Commissione e i vertici del Consiglio -, abbandoni il rigore e punti senza vincoli di bilancio sulla crescita e l’occupazione; come tutti sanno che la presidenza italiana, stretta nelle scadenze istituzionali, non potrà davvero cambiare le cose.

Trent’anni del progetto Spinelli
Elaborazioni intellettuali a margine delle intense celebrazioni dei trent’anni del progetto Spinelli: l’approvazione, il 14 febbraio 1984, a larga maggioranza, nel Parlamento europeo, del progetto di Trattato per l’Unione europea è stata ricordata a Strasburgo dal presidente Napolitano; e viene pure celebrata a Roma, proprio il 14, con un evento promosso dal Consiglio italiano del Movimento europeo (Cime), il cui presidente Virgilio Dastoli fu vicinissimo a Spinelli e visse tutta l’avventura del ‘Club del Coccodrillo’, dal nome del ristorante di Strasburgo dove gli eurodeputati europeisti si riunivano.

Quel progetto era un documento visionario, come lo era stato il Manifesto di Ventotene: allora, l’Europa era solo una somma di Comunità ancora alle prese con il problema britannico. Spinelli, nonostante le perplessità e le ostilità di molte forze, fu capace di anticipare e, in qualche misura, innescare l’evoluzione dalla Comunità all’Unione.

Dalla grande guerra alla Ced
Oltre che i trent’anni del progetto Spinelli, quest’anno ricorrono anche i sessant’anni dal fallimento senz’appello della Ced, la Comunità europea di difesa, che doveva nascere dopo la Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ma che fu definitivamente affossata, il 30 agosto 1954, dal voto contrario dell’Assemblea nazionale francese; e, ancora, i cent’anni della Grande Guerra, il cui tragico ricordo dovrebbe contribuire a ravvivare e rinsaldare, nei cittadini europei, le ragioni dell’integrazione – data simbolo è il 28 giugno, il giorno dell’attentato di Sarajevo in cui furono uccisi il Gran Duca Ferdinando d’Austria e la moglie Sofia e che divenne il ‘casus belli’.

A Strasburgo, la giornata europea a 360 gradi del presidente Napolitano era partita da Spinelli e con Spinelli s’era chiusa. In mezzo, parole, applausi, polemiche. Della candidatura di Spinelli nelle liste del Pci alle prime elezioni europee a suffragio universale, nel 1979, Napolitano era stato uno dei fautori, insieme a Giorgio Amendola.

Il presidente mancava da Strasburgo dal 2007. Ci è tornato alla fine di una legislatura di crisi, forse la più travagliata dell’Assemblea comunitaria. Guardando al voto di maggio e al semestre italiano, Napolitano porta un messaggio di discontinuità per l’Europa e un auspicio di continuità per l’Italia: discontinuità – appunto – tra rigore e crescita, tra conti in ordine e ai posti di lavoro; e continuità perché in Italia – dice – il governo non subirà contraccolpi dalle elezioni europee.

Europa intrappolata
L’Europa – esordisce il presidente – affronta il “momento della verità”: “Non regge più la politica dell’austerità a ogni costo”. In plenaria e poi dialogando con testimoni del progetto spinelliano, Napolitano osserva che l’Ue esce dalle sfide più importanti della sua storia: quella apertasi nel 2008 è una crisi in cui “non si contrapponevano gli interessi degli Stati”, ma che “riguardava la capacità di crescita, il funzionamento delle istituzioni e il consenso dei cittadini”.

Ora, c’è bisogno di “rompere il circolo vizioso di questa Europa intrappolata”. Il presidente depreca “l’agitazione distruttiva contro l’euro e contro l’Europa” di “un’immaginaria altra Europa” destinata a “nascere sulle rovine di questa”; e sottolinea, suscitando una contestazione leghista, come “l’Euro sia un’innovazione di valore storico, ma rimasta per troppi anni monca”.

Il presidente dell’Assemblea Martin Schulz, in campagna elettorale per la Commissione europea, colloca Napolitano “nel solco di De Gasperi e Spinelli”. E lui sottolinea che “condizione decisiva del successo” del progetto europeista “è una nuova, più forte e decisa volontà politica comune, capace di dare ai cittadini le ragioni storiche e le nuove motivazioni” dell’integrazione.

“L’Europa – diceva Napolitano il 4 febbraio – non è solo mercato comune e cooperazione economica, è anche valori e democrazia”. C’è il pericolo – avvertiva- di una “irresponsabilità demagogica”, che, a maggio, può tradursi in una marea di suffragi euro-scettici e populisti. Il 9 febbraio, pochi giorni dopo, il referendum svizzero suonava la campana a martello.

Hillary alla conquista della Casa Bianca

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La recente notizia che il più grande comitato elettorale americano vicino ai democratici, Priorities Usa, ha iniziato a raccogliere fondi per Hillary Clinton ha sciolto gli ultimi dubbi sul fatto che il partito stia compattamente puntando sull’ex segretario di Stato per le presidenziali 2016.

Una così ampia convergenza verso un candidato, con tanto anticipo rispetto alle elezioni, non si era mai registrata nella storia politica americana: il fatto che anche Jim Messina, ex capo della campagna di Barack Obama, sia da poco diventato vicepresidente di Priorities Usa pro Hillary la dice lunga sul doppio filo che ormai lega l’ex first Lady al presidente in carica. Le personalità che si stanno mobilitando su questo fronte si moltiplicano a vista d’occhio.

La candidatura della Clinton solleva però anche molte perplessità. Sia per l’effetto dejavù – in un paese che ama i cambiamenti – rispetto alla presidenza di Bill (1992-2000), sia perché rispetto allo stile di Obama gli attuali 66 anni di Hillary appaiono troppi, soprattutto nella prospettiva degli otto anni di presidenza. I suoi fedelissimi replicano però che, se eletta, la Clinton entrerebbe in carica alla stessa età di Ronald Reagan (69), uno dei presidenti in assoluto più amati degli Stati Uniti.

Costruzione sapiente
La compattezza di oggi sul nome di Hillary è il punto d’arrivo, per nulla scontato, di un paziente lavoro di rifinitura politica che non si è mai interrotto. A partire dalla saggia e non semplice scelta, all’indomani della bruciante sconfitta alle primarie 2008, di accettare l’incarico di segretario di Stato. Con un chiaro disegno: accrescere il suo profilo politico e internazionale e recuperare sintonia, grazie a lealtà e intesa con Obama, con quella parte dell’elettorato (democratico e non solo) cui Hillary risultava ancora visceralmente invisa.

Un’operazione perfettamente riuscita, se è vero che al momento delle sue dimissioni dal dipartimento di Stato, nel 2012, la Clinton aveva raggiunto una popolarità interna del 69% (la più alta nell’arco dei ventuno anni in cui ha calcato la scena nazionale) e ottenuto attestati di stima da ogni angolo del mondo.

Dopo aver percorso, in quattro anni, oltre un milione e mezzo di chilometri attraverso 112 paesi e 401 giorni di missione all’estero, nessuno osava negare a Hillary il diritto a una siesta. Le dimissioni dalla Segreteria di Stato, concordate mesi prima con il presidente, sono però suonate anche agli osservatori più distratti come un’abile mossa per smarcarsi da Obama in preparazione del 2016.

Un incarico così totalizzante non le avrebbe consentito, infatti, di consolidare un profilo politico più autonomo e non da gregaria. Non si può escludere, per altro, che proprio la politica estera possa diventare, per Hillary, terreno d’elezione per marcare distinguo più netti da Obama, soprattutto alla luce delle non poche incertezze strategiche da lui palesate su importanti dossier.

Usa pronti per una donna?
Anche se è vero che solo il completo superamento dei problemi di salute che ha avuto negli ultimi mesi da segretario di Stato, e sulla cui esatta natura è sceso il più marmoreo riserbo, potrebbe consentire alla Clinton di affrontare l’estenuante maratona delle presidenziali.

La vera sfida di fondo con cui Hillary (o qualunque altra donna candidata) dovrà misurarsi nuovamente è però di carattere più profondo e attiene prevalentemente alla sfera socioculturale. Nonostante lo straordinario livello di emancipazione che le donne hanno conquistato nella società americana, infatti, la figura del presidente degli Stati Uniti rimane ancora incardinata in una simbologia sostanzialmente maschile: dal comandante in capo, al padre della patria fino a quello, integerrimo, di famiglia, il presidente è sempre stato un uomo.

Nel 2008, non a caso, attacchi durissimi contro Hillary si sono levati, anche ben oltre la sfera politica, da settori fino a quel momento insospettabili della società americana. Se è vero che gli americani votano con la testa rivolta al conto in banca, questo aspetto culturale e un po’ impalpabile svolgerà certamente un ruolo non secondario, anche se molto meno esplicito di altri.

Dopo aver violato il tabù del primo afroamericano alla Casa Bianca, gli Stati Uniti del dopo crisi saranno finalmente pronti ad eleggere una donna? A decidere saranno, ancora una volta, soprattutto la strategia e la politica. Ma le carte, per il momento, sembrano tutte nelle mani di Hillary.

L’occhio dell’Europa sulla finanza

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La Commissione europea ha reso nota la sua proposta legislativa per separare le più rischiose attività di investimento e le attività tradizionali delle trenta maggiori banche europee. Si tratta dei gruppi bancari che, nel recente passato, hanno svolto un ammontare rilevante di negoziazioni complesse e che hanno dimensioni tali da esercitare impatti significativi sul resto del sistema.

Separazione fra attività bancarie
La riforma proposta a fine gennaio prevede, innanzitutto, che ognuna di queste banche non possa effettuare quelle attività di compra-vendita per conto proprio in strumenti finanziari e in merci, esclusivamente finalizzate a ottenere profitti senza alcun beneficio – diretto o indiretto – per i clienti.

Essa prevede, inoltre, che le stesse banche conferiscano le altre attività di compra-vendita per conto proprio e quelle di compra-vendita per conto dei clienti, basate su complesse operazioni in derivati o in altri prodotti strutturati, a entità legali interne al gruppo, ma separate dalla loro tradizionale attività commerciale oppure che istituiscano presidi in grado di isolare e di porre sotto controllo i relativi rischi.

Essa affida, infine, alle autorità di regolamentazione europee e, soprattutto, nazionali la concreta attuazione di tali norme, con specifico riferimento alle soluzioni operative e di governance per la separazione fra le più rischiose attività di investimento e le attività commerciali, e la possibilità di estendere queste stesse norme a banche non incluse fra le prime trenta.

Secondo il Commissario ai servizi finanziari, Michel Barnier, l’Unione europea (Ue) ha così completato il lungo percorso di ri-regolamentazione dei mercati finanziari sollecitato dalle crisi internazionali ed europee e concretizzatosi nella centralizzazione di molte transazioni prima esterne ai mercati regolati (ossia Otc), nella costruzione di una nuova architettura di vigilanza micro e macro-prudenziale, nel recepimento dei nuovi coefficienti bancari di capitale, nel disegno dei due fondamentali pilastri del processo di Unione bancaria.

La proposta di separazione di attività bancarie è di particolare rilevanza. Essa mira, infatti, a isolare e a porre sotto controllo quel sistema bancario (o finanziario) “ombra” che tanto peso ha avuto nel trasformare l’incremento delle insolvenze nel segmento statunitense dei mutui subprime in una pandemia nei mercati finanziari internazionali.

Trading proprietario
Vari commentatori hanno già sottolineato che la riforma presenta vari limiti. Innanzitutto, al fine di salvaguardare il modello continentale della banca universale, tale riforma non propone una netta separazione fra attività bancarie di investimento e attività bancarie tradizionali, ma preferisce spostare l’attenzione sulla necessità di tenere distinte le compra-vendite bancarie per conto proprio e quelle per conto dei clienti. Così facendo, essa si avventura però su un terreno scivoloso in quanto, nel concreto, risulta spesso difficile individuare un netto confine fra questi diversi tipi di compra-vendita.

Inoltre, la proposta della Commissione europea fornisce una definizione troppo restrittiva di “trading proprietario” e lascia un’eccessiva discrezionalità alle scelte dei regolatori dei singoli Stati membri. Infine, essa prende forma in ritardo tanto che non vi saranno i tempi tecnici per superare il vaglio del Consiglio europeo e per ottenere l’approvazione del Parlamento europeo prima delle prossime elezioni. Pertanto, l’approvazione è demandata ai nuovi componenti degli organi dell’Ue.

Tali critiche colgono, spesso, nel segno, ma non arrivano al nocciolo del problema. Come è accaduto per l’adozione dei nuovi coefficienti di capitalizzazione di Basilea 3, è possibile che la proposta di riforma della Commissione europea sarà recepita dalle maggiori banche dell’area ben prima di assumere una cogenza normativa, così da evitare ogni possibile stigma.

D’altro canto, la rinuncia a separare le attività bancarie di investimento da quelle tradizionali è spiegabile con l’estesa area grigia che connette queste due attività; e la definizione restrittiva di compra-vendita bancaria per conto proprio porta, comunque, a un divieto che ‘forza’ la posizione molto più conservativa di Germania e Francia.

Rischio contagio
Il problema fondamentale, fin qui sottovalutato, è un altro: la separazione fra (una parte del)le attività più rischiose e le attività tradizionali di ciascuna banca facilita una più rigorosa ed efficace regolamentazione di ambedue le attività?

L’evidenza empirica disponibile indica che, negli Stati Uniti e nel Regno Unito dove una qualche forma di separazione è già avvenuta, i responsabili della vigilanza hanno perseguito una strategia diversa: rafforzare le regole per le attività bancarie tradizionali, che riguardano gli investitori al dettaglio (in particolare, le famiglie) e le piccolo-medie imprese produttive, e continuare a imporre regole ‘leggere’ per le attività bancarie di investimento che coinvolgono gli investitori professionali.

Tale scelta può apparire ragionevole perché mira ad assicurare massima protezione ai depositanti e agli altri investitori prudenziali anche a costo di sacrificare la tutela degli investitori professionali e di quanti amano il rischio.

La crisi finanziaria internazionale del 2007-’09 ci ha però mostrato la fallacia di un simile approccio. Il contagio fra le banche di investimento statunitensi e i grandi agglomerati finanziari europei è stato così immediato e pervasivo da far emergere che non vi sono confini netti e barriere robuste fra il settore bancario ‘ombra’ e le banche commerciali.

Pertanto, prima di perseguire l’obiettivo di una separazione fra (una parte del)le attività bancarie di investimento e quelle tradizionali, si tratta di imporre regole severe anche alle prime attività che sono state troppo a lungo de-regolamentate. Questo obiettivo non sembra, però, una priorità dei regolatori britannici e non sembra colto dai regolatori dell’Ue. 

Berna vota per “pane e cioccolata”?

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Tutti ora rievocano Pane e cioccolata, il fin troppo celebrato film di Franco Brusati con Nino Manfredi. Si torna all’emigrato d’una volta che tinge i capelli di biondo per farsi passare per svizzero?

Francofoni e germanofoni aperti
Il referendum del 9 febbraio mostra dati significativi. Per la prima volta da cinque anni ha votato la maggioranza (56%) degli aventi diritto, il che significa che il quesito referendario era sentito dagli elettori e, naturalmente, più dai sostenitori che dagli oppositori.

Il “no all’immigrazione di massa” ha prevalso per pochi punti percentuali: appena il 50,3%. Nel sistema della doppia maggioranza (cantoni e voti popolari) i cantoni “pro” sono stati 17, mentre i cantoni “contro” si sono fermati a 9.

Un fossato linguistico li ha separati: alla Svizzera romanda, favorevole al “no al no”, si sono aggiunti i tre Cantoni germanofoni di Basilea, Zugo, Zurigo. Ed ancora: Basilea, Ginevra, Zurigo, le tre città cosmopolite per eccellenza, non vogliono chiudersi agli stranieri.

All’indomani del voto, le autorità ginevrine hanno dichiarato che l’eventuale contingente da aprire dovrà essere abbastanza largo per Ginevra da consentirle di restare internazionalista. Detto in altri termini: senza l’apporto dei frontalieri francesi che arrivano ogni giorno dalla Savoia, Ginevra letteralmente chiude.

Per non parlare delle multinazionali che vi hanno sede proprio perché è aperta al mondo e indifferente a certe ristrettezze della vita altrove. Ginevra è fra le città a più alta densità di Bentley e Rolls.

Dal Ticino no all’immigrazione di massa
Il voto ticinese (68%) ha fatto pendere la bilancia a favore del “no all’immigrazione di massa”. Al contrario, se la maggioranza in Ticino fosse stata meno ampia, il risultato sarebbe stato diverso su scala federale. Il Cantone italofono è stato determinante sia nella campagna elettorale sia nello scrutinio.

Il Ticino, da marginale che si considera rispetto alla Svizzera al di là delle Alpi, diviene centrale nel dibattito politico ed afferma che la libera circolazione delle persone non risponde alle esigenze della popolazione. Un voto certamente contro la politica federale, ma anche contro il “padronato”.

È con questa formula che – rispolverando una vecchia dizione – alcuni ticinesi, non certo sospetti di sindacalismo radicale, chiamano i datori di lavoro ai quali addebitano d’ingaggiare chi accetta salari più bassi e si piega a condizioni più dure.

Frontalieri
Il dumping sociale, che sarebbe praticato dai frontalieri, colpisce l’occupazione ticinese nei settori bassi del lavoro dipendente (edilizia in primo luogo) e persino in settori alti quali banche e servizi.

Le cifre agitate dai ticinesi la dicono lunga sul loro stato d’animo: 60.000 frontalieri entrano ed escono ogni giorno intasando le strade con le autovetture. I frontalieri – secondo le autorità di Lugano – preferiscono muoversi in auto e da soli. Questo perché la parte italiana, a differenza della svizzera, non completa le tratte ferroviarie che sarebbero alternative al trasporto su gomma.

Non si tratta tanto di un voto xenofobo quanto della manifestazione di un’insofferenza economica e sociale. Difficile d’altronde parlare di xenofobia in un Cantone che con i frontalieri condivide praticamente tutto, salvo farsi concorrenza sul mercato del lavoro.

Avvisaglie di certi umori erano avvertibili al Forum di dialogo italo – svizzero di fine gennaio. Le critiche all’Italia erano più esplicite da parte dei ticinesi che degli altri svizzeri. Il fatto è che ci conosciamo poco, malgrado la vicinanza geografica e culturale – fu la felice dichiarazione di Ferruccio De Bortoli. Il quale riconobbe che c’è maggiore ignoranza nei media italiani verso la Svizzera che nei media svizzeri verso l’Italia.

A provare la correttezza dell’analisi, giungono tardivi, ma fermandosi pigramente fra Mendrisio e Lugano, plotoni di cronisti a scoprire “di avere la Svizzera dietro casa”, con tutto ciò che nel nostro immaginario comporta la parola Svizzera.

Ue, clausola ghigliottina?
La domanda che tutti si pongono è come reagirà l’Unione europea. Il Consiglio dell’11 febbraio ha adoprato parole nette a proposito del “tout se tient” fra le quattro libertà. Scatta allora la clausola ghigliottina se salta l’accordo sulla libera circolazione delle persone?

Si apre una partita che ricorda le gare di ciclismo su pista: il pistard che parte per primo finisce per perdere. L’Unione aspetta quanto Berna presenterà a Bruxelles come piattaforma per il nuovo assetto. Nel frattempo s’interroga se sospendere l’adozione del mandato per negoziare l’accordo istituzionale con la Svizzera.

Questo dovrebbe mettere sotto un solo cappello, per l’appunto istituzionale, la molteplicità degli accordi settoriali. Prevede la clausola che riconosce alla Corte di Giustizia di Lussemburgo la competenza esclusiva nell’interpretare l’acquis anche nei riguardi della Confederazione. La clausola, manco a dirlo, è oggetto di riserve in Svizzera perché violerebbe la sovranità della giurisdizione federale.

Lavori su impianti elettrici: pubblicata la nuova Norma CEI 11-27:2014

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La quarta edizione della Norma CEI 11-27 presenta una struttura identica alla Norma CEI EN 50110-1:2014-01 da cui deriva. Il nuovo documento si è infatti reso necessario per aggiornare e conformare il testo alla nuova edizione della Norma CEI EN 50110-1, nonché al Decreto Legislativo 81/08 (la precedente edizione del 2005 riportava ancora i riferimenti alla abrogata 626/94).

La norma si applica alle operazioni ed attività di lavoro sugli impianti elettrici e fornisce le conseguenti prescrizioni di sicurezza con particolare attenzione alle procedure da applicare durante i lavori di manutenzione.

La norma si applica anche ai lavori non elettrici, quali ad esempio lavori edili eseguiti in vicinanza di impianti elettrici, di linee elettriche aeree o in vicinanza di cavi sotterranei non isolati o insufficientemente isolati (così come definiti dal D. Lgs 81/08 e s.m.i.).

La norma non si applica invece ai lavori sotto tensione su impianti a tensione superiore a 1000 V in corrente alternata e 1500 V in corrente continua che sono invece trattati nella Norma CEI 11-15.

Le modifiche rispetto alla precedente edizioni sono:

a) definizioni riguardanti i responsabili degli impianti elettrici e dei lavori eseguiti su di essi;

b) definizioni di lavoro elettrico e di lavoro non elettrico;

c) prescrizioni di sicurezza per le persone comuni (PEC) che eseguono lavori di natura non elettrica; d) distanza di lavoro sotto tensione (DL) relativa alla bassa tensione che viene azzerata;

e) revisione e aggiunta della modulistica correlata ai lavori elettrici e non elettrici;

f) dichiarazione esplicita della non applicabilità della distanza di lavoro (Dw) della Norma CEI EN 61936-1.

La Norma in oggetto sostituisce completamente la Norma CEI 11-27:2005-02 che rimane comunque applicabile fino al 1° febbraio 2015.

Mediazione civile: la parola passa al Tar. Ecco la lettura della decisione del Cds

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Si ritorna a discutere di mediazione e si ritorna a discutere di mediazione in sede giudiziale e in particolare dinanzi al Consiglio di Stato al fine di ottenere un provvedimento cautelare di sospensione sulla base della assunta illegittimità di alcune norme del regolamento attuativo del Dlgs 28/2010 (approvato con decreto interministeriale del 18 ottobre 2010 n. 180).

La decisione del Consiglio di Stato – Al fine di meglio comprendere la decisione depositata dal Consiglio di Stato il 12 febbraio 2014, occorre ricordare che, con una ordinanza depositata il 10 dicembre 2013, il Tar Lazio – Roma (sezione Prima, Estensore: Bottiglieri ) aveva ritenuto non sussistere i presupposti per la concessione della sospensiva.

Più precisamente, sul ricorso presentato dall’Organismo unitario dell’avvocatura (Oua) e riunito al ricorso proposto dall’Unione nazionale delle camere civili (Uncc), nella motivazione dell’ordinanza il Tar aveva precisato che non sussisteva periculm in mora (si era rilevata, infatti, «l’insuscettibilità dell’atto regolatorio impugnato di arrecare all’attualità in capo ai ricorrenti un danno caratterizzato dai requisiti dell’irreparabilità e della gravità, ben potendo i medesimi conseguire l’integrale riparazione delle posizioni azionate in gravame che dovessero essere ritenute illegittimamente lese in sede di accoglimento nel merito del ricorso») e, dall’altro, in relazione al fumus boni iuris, si poneva in evidenza «la necessità di esaminare le nuove questioni di costituzionalità dedotte in ragione delle modifiche normative sopravvenute in corso di giudizio nella sede propria del merito» (erano infatti intervenute radicali modifiche ed integrazioni al Dm 180/2010 ad opera del decreto interministeriale del 6 luglio 2011 n. 145).

A seguito del diniego della sospensiva, l’Oua proponeva ricorso in appello al Consiglio di Stato, chiedendo la riforma dell’ordinanza del Tar Lazio («concernente determinazione criteri e modalità di iscrizione e tenuta registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi»).

Il Consiglio di Stato (sezione Quarta, estensore: Sabatino) ha ritenuto di provvedere ai sensi dell’articolo 55, comma 10, del codice del processo amministrativo e ciò ritenendo che «le questioni sottoposte appaiono meritevoli di un vaglio nel merito» e, quindi, «dovendosi in tali limiti accogliere l’appello e disporre la sollecita fissazione dell’udienza di discussione»; l’ordinanza dispone così che il Tar provveda ad una «sollecita fissazione dell’udienza di merito».

Al fine di comprendere il senso compiuto della decisione, occorre precisare che la norma invocata prevede che il Tar, in sede cautelare, in presenza di esigenze ritenute «apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito», fissi con ordinanza collegiale la data della discussione del ricorso nel merito. «Nello stesso senso può provvedere il Consiglio di Stato, motivando sulle ragioni per cui ritiene di riformare l’ordinanza cautelare di primo grado; in tal caso, la pronuncia di appello è trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la sollecita fissazione dell’udienza di merito» (ex articolo 55, comma 10, del codice del processo amministrativo).

Appare, dunque, evidente come da un canto il Consiglio di Stato abbia ritenuto (se pur implicitamente) non sussistere le ragioni per l’emissione di una sospensiva e, dall’altro, abbia valutato differentemente dal Tar le esigenze contenute nel ricorso in quanto «appaiono meritevoli di un vaglio nel merito». E proprio in «tali limiti» che il Consiglio di Stato ha riformato l’ordinanza cautelare di rigetto del Tar.

La giusta valutazione – La decisione assunta dal Consiglio di Stato appare quindi improntata a consentire una rapida definizione del merito. La particolare delicatezza del tema oggetto del ricorso infatti rende altamente opportuno che la decisione sia assunta nel più breve tempo possibile (in applicazione dell’articolo 55, comma 10, del codice del processo amministrativo la cui ratio è proprio quella di consentire che non restino obliterate esigenze di tutela a fronte dell’insussistenza dei presupposti per la pronuncia di provvedimenti cautelari).
Resta chiara e indiscussa l’attuale assenza di provvedimenti giudiziali di sospensione cautelare, ed occorrerà attendere la decisione del Tar Lazio che dovrà pronunciarsi in breve tempo nel merito.

Disclosure inibita da indagini

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Niente voluntary disclosure se il fisco ha iniziato a indagare sui capitali all’estero. Anche attraverso un semplice questionario. Possibilità per il contribuente di far valere gli effetti premiali di uno o più scudi fiscali effettuati in passato: in questo caso andranno indicati gli estremi delle dichiarazioni riservate, nome dell’intermediario e data di presentazione. Sarà poi l’amministrazione finanziaria a controllare la regolarità della procedura di emersione. Eliminato ogni residuo dubbio anche sull’arco temporale da «mappare» ai fini della regolarizzazione volontaria: in alcuni casi si potrà tornare indietro fino all’anno 2003 (compreso). È quanto emerge dalle bozze dei modelli per l’adesione alla voluntary disclosure pubblicati ieri dall’Agenzia delle entrate. Gli operatori potranno esprimere osservazioni sui formulari e sulle schede allegate entro il 15 marzo 2014, scrivendo una e-mail a bozzadisclosure@agenziaentrate.it. L’Agenzia ha però precisato che le richieste presentate utilizzando i moduli in consultazione saranno comunque ritenute valide, anche in caso di successive modifiche a seguito dei suggerimenti pervenuti.
I modelli. Chi intende aderire alla procedura prevista dal dl n. 4/2014 dovrà presentare una scheda richiedente (R), accompagnata da una scheda attività (A) per ciascun asset oggetto di regolarizzazione. L’istanza potrà essere consegnata all’Ucifi di persona oppure con raccomandata a/r. Nella quasi totalità dei casi la procedura sarà seguita da un professionista di fiducia del contribuente, munito di procura speciale.

Stretta sui tempi delle ispezioni

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D’ora in avanti gli uffici dell’Agenzia delle entrate dovranno essere tempestivi in sede di ispezione. È infatti nullo l’accertamento quando il fisco non ha emesso l’atto entro sessanta giorni anche se l’ispezione si è protratta oltre il termine. Inutile per l’amministrazione sostenere di aver avuto bisogno di più giorni, dovrebbe provare l’assoluta impossibilità di concludere per tempo le operazioni di verifica.  Il monito arriva con una importante sentenza dalla Corte di cassazione, n. 3142 del 12 febbraio 2014, con la quale è stato respinto il ricorso dell’Agenzia delle entrate.  In altri termini l’ufficio dovrebbe dimostrare di aver tardato perché la sua attività è stata in qualche modo ostacolata dal contribuente o da circostanze contingenti. In tutti gli casi l’amministrazione dev’essere tempestiva. Piazza Cavour consacra questi concetti in un ben preciso principio di diritto secondo cui «qualora, per contrastare la eccezione di nullità dell’avviso per violazione del termine di cui all’art. 12co7 legge n. 212/2000, formulata con i motivi di ricorso da contribuente, la Amministrazione finanziaria alleghi, quale fatto di particolare e motivata urgenza, di non aver potuto rispettare il termine dilatorio indicato, essendosi chiuse le operazioni di verifica in data successiva al sessantesimo giorno antecedente la scadenza del termine di decadenza per l’esercizio del potere di accertamento della imposta, l’oggetto della prova va individuato nella oggettiva impossibilità di adempimento all’obbligo ex lege e dunque grava sull’Amministrazione finanziaria, in conformità al principio di vicinanza del fatto da provare, l’onere di dimostrare che la imminente scadenza del termine di decadenza, che non ha consentito di adempiere all’obbligo di legge, sia dipesa da fatti o condotte a essa non imputabili a titolo di incuria, negligenza od inefficienza».