24 Settembre 2024, martedì
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Il Fisco risponde dopo 33 anni al ricorso dell’imprenditore: “Irricevibile”

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Il Fisco risponde dopo 33 anni al ricorso dell’imprenditore: “Irricevibile”. No, non è stato quella parola, “irricevibile”, scritta sulla raccomandata che la Commissione tributaria centrale sezione di Torino gli ha inviato, a sconcertare Roberto Steffen, imprenditore piemontese oggi domiciliato fiscalmente in Austria: si è accorto, perché gli era passato del tutto di mente, che la risposta del Fisco è arrivata a 33 anni di distanza da quando fece il ricorso. Allora Steffen aveva 28 anni e un altro commercialista, nel frattempo passato a miglior vita (per cui i motivi di accertamento e ricorso di quel lontano 1980 li conosce solo la Commissione): oggi, che di anni ne ha 61, Steffen può solo sorridere amaramente di questa “barzelletta drammatica”.

I numeri del fallimento di una giustizia tributaria in Italia corroborano la sensazione di impotenza del contribuente (i dati li riporta Il Giornale insieme con l’intervista a Steffen). E’ di 903 giorni la media temporale italiana (264 a Bergamo, 2020 a Palermo) per giungere a un giudizio di primo grado davanti a una commissione tributaria. Va considerato che nel 30% delle cause la Corte di Cassazione ha dato torto all’Agenzia delle Entrate. Se per un componente della commissione il compenso mensile oscilla tra i 400 e i 500 euro, è di 100 mila euro il compenso annuale di presidente di commissione.

I giudici tributari sono però sotto organico riguardo agli standard di efficienza attesi: 3600 contro 4688 previsti. L’età media dei giudici è di 64 anni, 300 giudici ogni anno vanno in pensione. Alla fine del 2010 erano 715 nila i ricorsi tributari pendenti. Solo a livello regionale (dati 2009) sono 103 mila.

Tariffe servizi cresciute del 50% in 10 anni: Roma la peggiore in Ue

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Le tariffe dei servizi in Italia sono cresciute del 49,2% negli ultimi 10 anni. Un dato tre volte superiore alla media europea del 14,9%. E alla città di Roma spetta il “primato” di peggiore in Ue. La Capitale infatti si posiziona nella classifica di efficienza dei servizi erogati in rapporto alle tariffe pagate 81° su 83 città tra i 30 Paesi Ue più Turchia, Islanda, Norvegia e Svizzera.
I dati sono relativi all’inchiesta Eurobarometro, indagine che si basa sui dati del 2013, scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera:

“Altro dato avvilente: fra le 83 città prese in esame, Roma occupa la casella numero 81. La capitale italiana è dunque la peggiore delle capitali europee per qualità dei servizi locali: trasporti pubblici, pulizia delle strade, rifiuti urbani. Napoli e Palermo sono al numero 82 e 83, ma neanche le città del Nord brillano. L’inchiesta, che si basa sui dati del 2013, segnala che negli ultimi dieci anni le tariffe delle nostre città sono cresciute del 49,2 per cento a fronte del 14,9 europeo”.
E se Roma è la peggiore, le città al Nord non brillano:
”Non che le nostre città del Nord brillino particolarmente, considerando che Bologna galleggia a metà classifica (posizione numero 39), mentre Verona e Torino non raggiungono nemmeno la mediocrità (rispettivamente ai posti 45 e 52). Ma la differenza fra le aree del Paese, come sottolineano i numeri contenuti nel documento della Confartigianato, è comunque talmente macroscopica da non poter essere trascurata!.
Il confronto tra la qualità del servizio offerto, si tratti di smaltimento dei rifiuti, forniture di gas, acqua ed elettricità o ancora i trasporti pubblici, e quanto pagato è deludente anche secondo i dati misurati da Ref Ricerche per Indis Unioncamere e Istat:
“A Trento, per esempio, il prezzo è inferiore del 14,8 per cento alla media nazionale mentre l’indice di soddisfazione è superiore del 53,7 per cento. Così a Milano, dove a un costo più basso del 17,5 per cento corrisponde un maggior gradimento del 24,5 per cento rispetto al dato medio italiano. All’opposto troviamo invece Cagliari, dove le tariffe per le piccole imprese sono più alte del 37,8 per cento nonostante un livello di soddisfazione inferiore di ben il 58,4. E Palermo, con prezzi più salati del 17,3 e un gradimento più basso del 55,4 per cento rispetto alla media. E Roma: tariffe più 7,3 e soddisfazione meno 17,6″.
E in Italia negli ultimi 10 anni si paga di più per avere meno:
“Negli ultimi dieci anni il costo dei servizi pubblici locali non energetici (le forniture di gas e luce sono fortemente influenzate dai prezzi delle materie prime) è aumentato in Italia del 73,3 per cento, a fronte di un’inflazione del 24,1. Il rincaro reale è stato perciò del 49,2 per cento, quasi tre volte e mezzo la crescita del 14,9 per cento registrata al netto dell’inflazione nei 17 Paesi dell’euro: di cui siamo quindi in larga misura responsabili proprio noi”.
Tariffe alte e che, spiega Rizzo, nulla hanno portato comunque nelle tasche delle imprese:
“Lo studio della Confartigianato mostra che nel 2011 delle 6.151 imprese controllate da Regioni, Province e Comuni soltanto 2.879 (meno della metà) hanno chiuso il bilancio in utile, mentre 1.249 hanno archiviato l’anno in pareggio e le restanti 2.023 hanno presentato conti in rosso. E che rosso: in media un milione 94.768 euro ciascuna, per un totale di due miliardi 225 milioni. Somma tale da azzerare il miliardo e 413 milioni di utili realizzati dalle aziende pubbliche profittevoli (mediamente 490.815 euro ognuna di esse), facendo così gravare sulla collettività una perdita netta di 802 milioni”.
Intanto la spesa sale e anche il costo per lo Stato:
“Nel 2011 la loro spesa consolidata ha raggiunto 65,5 miliardi di euro. È il 4,2 per cento del Prodotto interno lordo, contro il 2,2 per cento del 1998. Con punte vertiginose. Nel Lazio il peso delle imprese pubbliche locali sull’economia regionale è salito in tredici anni dall’1,7 al 4,3 per cento. In Veneto, dall’1,5 al 4,7. In Emilia-Romagna, dal 3 al 6,8 per cento. Nella Provincia autonoma di Trento, dal 4,7 al 10,3. Nella Valle D’Aosta, dal 2,9 al 14,3. Sono dati che spiegano molte cose. Per esempio, la crescita del numero degli addetti, che ha raggiunto quota 212.921: più 7.545 dipendenti soltanto nel 2010, lo stesso anno in cui il personale delle amministrazioni locali si riduceva di 13 mila unità e le imprese controllate dallo Stato ne perdevano 4.830″.
E il trasporto pubblico urbano è quello che offre il peggio al prezzo più caro:
“il costo per chilometro va da un minimo di 1,48 euro in Umbria fino a 4,42 in Lombardia, 5,16 in Sicilia, 7,14 in Campania e 7,40 nel Lazio, dove la sola municipalizzata romana (Atac) ha quasi 12 mila dipendenti. E sono sempre gli autisti umbri quelli che percorrono più chilometri in un anno: mediamente 54.749. Nel Lazio ogni addetto alla guida ne fa invece 31.543 e in Lombardia 29.629, ma in Campania si scende a 19.170, per toccare il fondo in Sicilia con 17.210″.

Governo Renzi, prima grana: Tasi. Comuni rischiano buco da 625 milioni

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Il governo Renzi non è ancora nato ma già ecco la prima grana da affrontare: la Tasi. Manca un decreto legge per evitare un buco da 625 milioni di euro nei bilanci dei Comuni, dovuto dal dislivello tra la vecchia Imu e la nuova tassa sugli immobili. Allo stato attuale delle cose, spiega Valentina Conte su Repubblica, i sindaci non possono chiudere i bilanci.
Il testo esistente sarebbe dovuto essere approvato dal Consiglio dei ministri di venerdì 14 febbraio, ma la crisi di governo l’ha fatto saltare.
Si può sperare nella continuità di presenza di Graziano Delrio, ministro dell’esecutivo di Enrico Letta e quasi certamente anche in quello di Matteo Renzi. Delrio, scrive Conte, è
“l’unico effettivo garante del patto del 28 gennaio scorso, quando i Comuni riuscirono ad ottenere dal governo 500 milioni sicuri per colmare il gettito mancante e la promessa di cercarne altri 125. In più, la possibilità di alzare le aliquote Tasi dello 0,8 per mille, da distribuire in modo flessibile e “federale” tra prime e seconde case, così da destinare queste nuove entrate alle detrazioni per le famiglie numerose o in difficoltà”.

145 magistrati bocciati perché pigri o poco capaci: dati sulla riforma dal 2008 a oggi

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Centoquarantacinque magistrati italiani non hanno superato le “valutazioni di professionalità” da quando nel 2008 per legge è stato introdotto a cadenza quadriennale questo strumento di controllo in seno al Csm, fondamentale per le progressioni in carriera su sette gradini.

Scrive Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera:
L’immagine di una corporazione usa ad autoassolversi, e nella quale una volta superato un concorso basterebbe solo invecchiare per fare carriera, scolora dunque in vecchia polaroid ingiallita se messa a confronto con questo dato inedito, che insieme all’altro di diverso ambito ma più noto (116 magistrati condannati in sede disciplinare fra l’1 settembre 2010 e l’1 gennaio 2013) segnala una inversione di tendenza evidente. E ancor più sensibile, nel caso delle bocciature di professionalità, se si pensa che nei primi due anni il nuovo meccanismo delle valutazioni (i dati statistici, i provvedimenti a campione, i pareri dei capi degli uffici, il passaggio dai Consigli giudiziari locali, e infine il vaglio del Csm) ha dovuto mettersi in moto.
Incorre in un giudizio «non positivo» il magistrato che, restando positivi i tre prerequisiti della indipendenza, dell’imparzialità e dell’equilibrio, sia però carente secondo il Csm in uno o più degli altri quattro parametri, e cioè capacità, laboriosità, diligenza e impegno: dopo un anno il Csm farà una nuova rivalutazione su un nuovo parere, ma intanto il magistrato avrà perso un anno e sarà penalizzato nelle progressioni in carriera perché finirà in coda quantomeno a tutti quelli del suo stesso concorso. Il giudizio «negativo» scatta invece o quando è compromesso uno dei tre cardini di indipendenza, imparzialità ed equilibrio, oppure quando sono gravemente carenti due o più degli altri quattro parametri di capacità, laboriosità, diligenza e impegno: in questi casi devono passare due anni per essere rivalutati, si può essere obbligati a fare corsi di riqualificazione, si può essere cambiati di funzione, e se non si supera la seconda rivalutazione si viene allontanati dal servizio.
Il 2008 ha prodotto 10 valutazioni non positive e 4 negative su 900 totali, nel 2009 le 1.197 valutazioni hanno dato luogo a 5 non positive e 6 negative, il 2010 ha visto 22 non positive e 5 negative su 1.638 valutazioni, che nel 2011 sono salite a 2.026 con 20 non positive e 2 negative; nel 2012 su 1.642 magistrati esaminati i non positivi sono stati 31 e i negativi 6, mentre il 2013 si è concluso con 26 non positivi e 8 negativi su 2.132 valutati. In totale, dunque, quasi tutti i magistrati italiani sono stati interessati da almeno una valutazione quadriennale di professionalità, e su 9.535 di esse quelle concluse con un giudizio non positivo o negativo sono state 145, più già altre 2 nell’inizio 2014: fa l’1,5% di stop professionali, percentuale multipla dei prefissi telefonici da zero virgola che ancora contraddistinguono categoria che pure hanno un governo professionale autonomo come gli avvocati o i giornalisti.
Se mai, dove la magistratura sembra ancora poter migliorare e affinare la propria autoregolamentazione professionale è sul lato qualitativo, posto che, come ha constatato la consigliere Csm Giovanna Di Rosa che ha elaborato e offerto questi dati inediti a un seminario della corrente di Unicost, nella stragrande maggioranza delle bocciature la ragione è una sola: ritardi nel deposito di qualche provvedimento, spesso lo stesso ritardo magari già al centro di un processo disciplinare. E qui si aprono due questioni. La prima è che, se ormai le toghe hanno l’angoscia di finire nei guai per il ritardo nel deposito dei provvedimenti, è evidente che a fare un buon magistrato non basta soltanto il rispetto della tempistica, anzi proprio perfetti aziendalisti con le carte «tutte a posto» possono nascondere altre gravi lacune o pesanti difetti. La seconda è che, per fare emergere questi tarli nei pareri ufficiali stesi dai capi degli uffici, dove troppo spesso ogni magistrato pare Triboniano, diventa cruciale la serietà (anche spietata) delle segnalazioni di criticità talvolta invece ancora accomodate dal quieto vivere del cane non mangia cane (…)

Matteo Renzi: “Una riforma al mese”. Incaricato, ma non ha la squadra

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“Una riforma al mese”, Matteo Renzi, premier incaricato, promette di “metterci tutta l’energia e l’impegno di cui sono e siamo capaci”, anche se la sua squadra di governo fatica a trovare la giusta formazione. L’incarico del capo dello Stato, come previsto, è arrivato lunedì mattina dopo un’ora di colloquio. Come da prassi istituzionale, il segretario Pd e presidente del Consiglio in pectore ha accettato l’incarico con riserva. Renzi, non appena ricevuta l’investitura ufficiale, ha scandito subito la tabella di marcia.
Entro il mese di febbraio compiremo un lavoro urgente sulle riforme della legge elettorale e istituzionali, subito dopo immediatamente nel mese di marzo la riforma del lavoro, in aprile la pubblica amministrazione e in maggio il fisco. (Matteo Renzi al Quirinale).

Parole rilanciate qualche ora più tardi via Twitter con l’hashtag #lavoltabuona: sul social network Renzi non si affacciava da giovedì scorso, quando la direzione Pd ha dato l’ok alla sua staffetta.
L’ansia da prestazione (rapida, decisionista e autonoma) si scontra però con la realtà, cioè i vincoli di coalizione, i numeri che al Senato necessitano dio un vaglio permanente. Dopo l’accelerazione impressa con la sfiducia a Letta da parte della Direzione Pd, passando per le consultazioni-lampo imposte da Napolitano, fino all’incarico di oggi, la staffetta come viene chiamato eufemisticamente il cambio in corsa alla guida del Governo subirà uno stop: formazione della squadra del nuovo esecutivo e resistenza dell’alleato Alfano, consigliano tempi meno rapidi e trattative complicate prima che Renzi possa ripresentarsi dal Capo dello Stato stavolta per giurare.
“Per un orizzonte di legislatura come quello che ci proponiamo – ha spiegato lo stesso Renzi uscendo dall’incontro con Napolitano – serve qualche giorno per sciogliere la riserva. Tuttavia assicuro che metterò in questo impegno tutta l’energia di cui sono capace”. Una prima risposta ad Alfano (l’orizzonte lungo escluderebbe le urne a breve), una conferma che la composizione del Consiglio dei ministri è legata alle garanzie che quell’orizzonte lungo non sia una mera indicazione di principio, smentibile alla prima difficoltà.
Abbiamo intenzione di lavorare in modo serio sui contenuti, state scrivendo cose complicate sui nomi e sulle mie vicende personali e mi sono venuto a noia da solo. L’attenzione è sui contenuti e l’orizzonte di legislatura necessita di una qualche giorno di tempo. (Matteo Renzi al Quirinale)
L’ostacolo più grosso verso una definizione della lista in tempi rapidi è il ministero dell’Economia: Lucrezia Reichlin, il candidato con più chance, si è presa del tempo per decidere se accettare. In alternativa un nome autorevole e politicamente orientato ma con un profilo di credibilità all’estero (e con garanzie verso Ue, Bce e Fmi che rispetti gli impegni presi dall’Italia). Sul programma, mentre Ncd continua a chiedere un Comitato che lo supervisioni, Renzi risponde con un’agenda serrata come è nel suo stile.

Microcredito FSE Campania, pubblicato l’11° elenco di beneficiari

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La Regione Campania ha pubblicato l’11° elenco di domande ammesse e non ammesse, all’esito della verifica istrutoria, ai microprestiti agevolati fino a 25.000 euro attingendo dal Fondo Microcredito FSE.

La misura, di cui ci siamo ampiamente occupati su Campania Europa, è stata dotata di risorse per a 100 milioni di euro. Permetterà a giovani, donne, disoccupati, disabili di avviare ed ampliare nuove imprese e costituire realtà associative.

 

Per la Cgue è illegittimo escludere i dirigenti dalle procedure di mobilità

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L’esclusione dei dirigenti dalle procedeure di mobilità non è linea con la direttiva
98/59/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi. E quindi l’Italia è inadempiente perchè non tutela tutte le categorie di lavoratori. Lo ha stabilito la Cgue con la sentenza C-596/12 depositata oggi.

Il recepimento italiano

La Commissione europea ha chiesto alla Corte di constatare che, avendo escluso la categoria dei «dirigenti» dall’ambito di applicazione della procedura di mobilità prevista dalla legge n. 23/1991 (norme in materia di cassa integrazione), l’Italia è venuta meno agli obblighi imposti dalla direttiva 98/59/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.
La direttiva 98/59 mira a rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi e a ravvicinare le disposizioni in vigore negli Stati membri. È stata recepita attraverso la legge n. 223/1991 che regola la procedura per la dichiarazione di mobilità. L’articolo 2095 del codice civile italiano distingue quattro categorie di lavoratori, ossia i «dirigenti», i «quadri», gli «impiegati» e gli «operai».
La posizione delle commissione
Sin dal 2008, la Commissione ha invitato l’Italia a presentare osservazioni in merito alla propria legislazione di recepimento delle procedure di tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo previste dalla direttiva 98/59. Secondo la Commissione, l’esclusione dall’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo di una categoria di lavoratori, designata dalla legge italiana con il termine «dirigenti» (articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991), non è conforme alla direttiva 98/59.
La Commissione sostiene che la direttiva 98/59, il cui ambito di applicazione si estende a tutti i lavoratori senza eccezione, non risulta correttamente recepita dalla legge 223/1991, la quale ammette a beneficiare delle garanzie da essa previste unicamente gli operai, gli impiegati e i quadri, escludendo i dirigenti. Essa ritiene che la normativa e i contratti collettivi italiani riguardanti specificamente i dirigenti non colmino tale lacuna.
Nella sua sentenza la Corte ricorda innanzitutto che, armonizzando le norme applicabili ai licenziamenti collettivi, il legislatore dell’Unione ha inteso, nel medesimo tempo, garantire una protezione di livello comparabile dei diritti dei lavoratori nei vari Stati membri e uniformare gli oneri che tali norme di tutela comportano per le imprese dell’Unione. Pertanto, la nozione di «lavoratore» non può essere definita mediante un rinvio alle legislazioni degli Stati membri.
Essa deve essere definita in base a criteri oggettivi che caratterizzino il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi delle persone interessate: caratteristica essenziale è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest’ultimo, prestazioni in contropartita delle quali percepisce una retribuzione.
La categoria dei «dirigenti» ricomprende persone inserite in un rapporto di lavoro. Viceversa, la legge n. 223/1991 si riferisce soltanto agli operai, agli impiegati e ai quadri, con esclusione dei «dirigenti».
Dalla documentazione versata agli atti della Corte risulta inoltre che, in Italia, tale interpretazione è fatta propria sia dall’amministrazione che dalla Corte suprema di cassazione (circostanza non contestata dall’Italia).
La Corte sottolinea che la direttiva 98/59 sarebbe parzialmente privata del suo effetto utile in caso di mancata attuazione della procedura di consultazione nei confronti di taluni lavoratori, a prescindere dalle misure sociali di accompagnamento previste in loro favore. Al contrario, non ammette alcuna possibilità per gli Stati membri di escludere dal suo ambito di applicazione questa o quella categoria di lavoratori.
Per questi motivi, la Corte dichiara che avendo escluso, mediante la legge n. 223/1991, recante norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, la categoria dei «dirigenti» dall’ambito di applicazione della procedura prevista dall’articolo 2 della direttiva 98/59/CE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, l’Italia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti.

Le nuove generazioni in azienda: una sfida per il management

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I neolaureati che stanno entrando in azienda (purtroppo bisogna aggiungere “quei pochi fortunati…”) sono molto diversi da quelli che uscivano dall’università 15/20 anni fa. Alla precedente generazione si poteva chiedere sacrificio, gavetta e rispetto della gerarchia, molto più di quanto lo si possa fare oggi. Provando a generalizzare, e quindi giungendo ad una innegabile forzatura, è possibile riscontrare quattro caratteristiche abbastanza comuni nei ragazzi che stanno entrando oggi nel mondo del lavoro:

– Un’attenzione (più) labile: rispetto a qualche anno fa, i ragazzi tendono a stufarsi presto e a distogliere molto più rapidamente la loro attenzione. Sono abituati a fare più cose contemporaneamente, a muoversi velocemente e non sopportano i tempi spesso lenti, della burocrazia. A periodi di intensa passione per una data attività o obiettivo, seguono quindi abbastanza presto, la noia o la routine, e quindi il bisogno di nuovi stimoli.

– Un tempo di semina limitato: la pazienza non è una virtù particolarmente sviluppata nella nuova generazione. Si tende a bruciare o a voler bruciare le tappe e se questo non si dimostra possibile, si cade facilmente nello sconforto e nella demotivazione. La gavetta quindi va bene, ma rispetto, alla precedente generazione, la tolleranza nei confronti di questa fase della vita professionale è molto limitata.

– Un’idiosincrasia alla gerarchia: rispetto ai giovani di 15 anni fa, la gerarchia è un valore molto meno rispettato dalle nuove generazioni. I ragazzi oggi sono cresciuti con modelli di riferimento in cui la gerarchia è una componente a basso valore aggiunto. La famiglia ha un livello di gerarchia molto inferiore rispetto al passato, il servizio militare è sparito e il web, in cui i giovani passano molto tempo, è un modello eterarchico che privilegia quindi le relazioni orizzontali. La frase “devi farlo perché lo ha detto il capo”, così potente per gran parte delle persone che lavorano in azienda, perde di significato per i giovanissimi che, magari si adattano a questo genere di diktat, ma non lo capiscono. La conseguenza è una probabile perdita di stima per le persone che ragionano in termini così lontani dai loro e una sicura perdita di interesse per il lavoro e l’azienda in cui operano.

– Una bassa importanza al lavoro ai fini dell’autorealizzazione: mentre un tempo il lavoro era la principale fonte di realizzazione personale, i ragazzi di oggi danno molto più valore ad altri aspetti quali il tempo libero, gli amici, i propri interessi e passioni. Il sacrificio sul lavoro è visto in modo molto diverso rispetto al passato. Tra dovere e piacere il baricentro si sta spostando progressivamente verso quest’ultimo. Questo non significa che in azienda non ci si impegni o si prenda il lavoro con superficialità, solo che l’autorealizzazione non passa più dalla considerazione che ha di me il capo. Tra un “bravo” da parte del mio responsabile e una serata al cinema o a teatro, la scelta tende a spostarsi sempre più verso quest’ultima.

Queste caratteristiche impattano significativamente sul funzionamento organizzativo e sugli stili gestionali dei manager. Lo stile gestionale burocratico non funziona più. Quello gerarchico nemmeno. Lo stile paternalistico meno che mai. Lo stile partecipativo spesso non è applicabile per disinteresse dei collaboratori.

Una possibile risposta passa attraverso una radicale reinterpretazione del ruolo manageriale: da supervisore/controllore a coach e mentore.

Il contratto di vendita di un nuovo fabbricato che non prevede l’uso del posto auto è nullo

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Aspetti legislativi. In parte l’invivibilità delle nostre città dipende anche dalla carenza di spazi adeguati per il parcheggio delle automobili. Tale problema è stato affrontato originariamente dal legislatore con il decreto ministeriale del 2 aprile 1968 (art. 3) a cui si deve l’introduzione di un limite inderogabile di densità edilizia. Successivamente l’art. 41-sexies della legge urbanistica – introdotto dall’art. 18 della legge 6 agosto 1967 n. 765/1967 (c.d.”Legge Ponte”) ha previsto che “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione”. Da tale disposizione è scaturito il vincolo di destinazione delle aree destinate a parcheggio.

Alcuni precedenti giurisprudenziali. La Cassazione più volte si è pronunciata in merito affermando che il diritto sulle aree a parcheggio obbligatoriamente previste dall’art. 18 come vincolo pubblicistico di destinazione, viene imposto per legge a favore dei condomini del fabbricato cui accede (Cass. 4 febbraio 1999, n. 973; Cass. 20 luglio 1999, n. 7766; Cass. 28 gennaio 2000, n. 982). Trattandosi di vincolo reale, che non nasce per clausola pattizia, ma per legge, esso si trasferisce automaticamente con tutti i successivi trapassi dell’unità abitativa. Il legislatore ha stabilito la riserva di appositi spazi per parcheggio a servizio dell’edificio, imponendo una regola inderogabile: non sono consentite nuove costruzioni che non siano corredate di dette aree destinate a parcheggi ed ha, nel contempo, inteso stabilire un onere a carico di chi chiede il permesso di costruire, nel senso che egli non può, qualora non ottemperi a tale prescrizione, ottenere il permesso stesso. Ne consegue, l’impossibilità di realizzare nuove costruzioni in assenza di adeguati spazi di parcheggi, ma anche la carenza assoluta del potere del privato di rimuovere tale vincolo.

Il caso di specie. Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 10 febbraio 2014, n° 2917 trova la sua disciplina nell’art. 41 sexies della n.1150/1942, (introdotto dall’art. 18 1. 6.8.1967 n. 765), che introduce un vincolo pubblicistico. Alcuni condomini usavano illegittimamente il posto auto che, per legge, avrebbe dovuto essere riservato, già nell’atto di compravendita, al nuovo acquirente dell’appartamento. Quindi la Cassazione non ha fatto altro che confermare quanto disposto dai giudici di merito: “nullo l’atto di compravendita della nuova costruzione nella parte in cui non prevede l’uso del posto auto da parte del neo acquirente. Il venditore deve rispettare il rapporto volumetrico che determina un vincolo a carattere pubblicistico”. Quindi, già al momento della stipula del contratto di compravendita, nasce per il condomino la facoltà di esercitare il diritto reale d’uso sullo spazio destinato a parcheggio dell’edificio condominiale. Di conseguenza il contratto stipulato deve considerarsi nullo in quanto elude il vincolo di destinazione al quale è sottoposta, ex lege, l’area di parcheggio ed è causa di danno ingiusto (ex art. 872, c. 2, c.c.). Ricordiamo che precedentemente la Cassazione con sentenza del 10/01/2011, n. 346 aveva anche stabilito che l’elusione del vincolo di destinazione delle aree destinate a parcheggio, costituendo una violazione delle norme speciali in materia di edilizia, implica conseguenze risarcitorie.

Dalla stangata sulla casa alle città in dissesto, tutti i dossier a rischio

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Nonostante le promesse di “rottura” con i vecchi riti, le trattative fra i partiti allungano il periodo di gestazione del nuovo Governo Renzi, ma l’ondata delle riforme lasciate a metà e dei decreti legge in sospeso rendono strategico il fattore tempo e aumentano i rischi di uno stallo politico che può costare caro a molti.

Una partita cruciale è quella Europea, perché Bruxelles attende la manovra “parallela” alla legge di stabilità che dovrebbe garantire all’Italia 5-6 miliardi in più di spazi di spesa per investimenti. I tempi per presentare le misure aggiuntive, dopo il giudizio freddo della Ue sulla legge di stabilità 2014 e la promessa del Governo Letta di anticipare spending review e misure strutturali, stanno scadendo, e lunedì mattina il ministro uscente dell’Economia Fabrizio Saccomanni volerà a Bruxelles a presentare il nuovo piano. La trattativa e il tentativo di spuntare un giudizio positivo, comunque, spetteranno al suo successore, che le cancellerie europee attendono a stretto giro.

I nodi del Fisco In attesa di capire il loro destino 2014 sono comunque in molti, a partire dai proprietari di casa. Nella legge di stabilità è scritto un meccanismo della Iuc, l’imposta “unica” comunale, che non funziona, e il Governo Letta aveva ipotizzato insieme ai sindaci un ritocco per introdurre un’aliquota aggiuntiva in grado di finanziare le detrazioni per le abitazioni principali. Il decreto con il correttivo è stato travolto dalla crisi politica, e soprattutto c’è da scommettere che la sua presentazione con il nuovo Governo non sarà facile.

Il correttivo finisce infatti per alzare la pressione fiscale, perché secondo la bozza di decreto preparata all’Esecutivo Letta non tutto il gettito aggiuntivo sarebbe stato trasformato in sconti per le abitazioni principali, per cui la sua riproposizione farà ri-scoppiare la polemica politica sul tema eterno delle tasse sulla casa, e non rappresenterebbe un buon biglietto da visita per il neo-nato Governo Renzi. Sta di fatto che la Iuc in vigore oggi rischia di far pagare i proprietari di case medio-piccole, che non hanno mai pagato né Ici né Imu grazie agli sconti fissi presenti nelle vecchie imposte e assenti nella nuova, di rivelarsi più cara dell’Imu faticosamente abolita per milioni di case di valore medio, e di aprire nello stesso tempo buchi milionari nei bilanci delle grandi città perché le case di valore più alto pagheranno assai meno di prima. Un pasticcio, la cui soluzione rischia di allontanarsi ancora.

Città in crisi

Ma alcune grandi città guardano preoccupate alle trattative febbrili tra Palazzo Vecchio e Palazzo Chigi anche a prescindere dalle tasse sulla casa. Napoli e Reggio Calabria sono a un passo dal dissesto finanziario, dopo che le sezioni regionali della Corte dei conti hanno bocciato i loro piani di riequilibrio che avrebbero dovuto evitare il default. Nel tentativo di salvare le due città da una paralisi amministrativa che renderebbe ancora più difficile la vita dei creditori in eterna attesa dei pagamenti dai Comuni, il Governo Letta ha scritto nei giorni scorsi una norma-paracadute che concedeva a Napoli e Reggio Calabria, ma anche a Vibo Valentia e agli altri Comuni che si trovano nella stessa situazione, 30 giorni per ripresentare un piano di riequilibrio più solido di quello appena bocciato. Il Governo è caduto, i 30 giorni dalla bocciatura previsti dalla nuova bozza per riscrivere i piani di rientro stanno finendo, e per far rivivere il progetto servirebbe probabilmente una proroga un po’ più consistente. Ma come il correttivo Tasi, nemmeno il salva-Napoli sembra indicato per far ottenere a Renzi una “luna di di miele” che la via scelta per arrivare a Palazzo Chigi non gli concede. Gli altri Comuni In crisi strutturale o meno, migliaia di Comuni italiani (e soprattutto centinaia di migliaia di dipendenti) attendono il varo di un’anticipazione sui fondi locali per evitare problemi di liquidità alle loro casse e conseguenti inciampi nel pagamento degli stipendi e nella gestione dei servizi. La legge di stabilità, infatti, ha riscritto le regole di attribuzione dei fondi ai Comuni, ha introdotto criteri di distribuzione complicatissimi e ancora tutti da attuare, ma stipendi e fornitori andrebbero pagati tutti i mesi e le casse non aspettano. Per questa ragione, insieme al correttivo sulla Tasi il Governo Letta aveva previsto un anticipo da 1,3 miliardi circa, schiacciato come tutto il resto dalle dimissioni consegnate al Quirinale. Senza una proroga in extremis (anche questa predisposta ma non varata dal Governo Letta), poi, tutti i Comuni dovrebbero approvare i propri bilanci preventivi entro il 28 febbraio, senza conoscere le loro entrate fiscali e nemmeno la quota di fondi a loro disposizione: in una condizione del genere, un rialzo generalizzato di Tasi, Imu e addizionale Irpef per evitare sorprese sarebbe quasi scontato nei Comuni che non hanno già portato al massimo le aliquote.

In sospeso

Intanto la crisi politica ha bloccato in Parlamento una serie di decreti in corso di conversione, che ora potrebbero inciampare nei nuovi equilibri politici prodotti dalle trattative per il Governo Renzi. Fra otto giorni, per esempio, scadono i termini entro cui il Senato dovrà convertire in legge il “Destinazione Italia”, che fra l’altro introdurrebbe per le imprese il nuovo meccanismo di compensazione fra crediti con la Pa e debiti fiscali, i mini-bond e il bonus ricerca. Lo stesso giorno scade anche lo “svuota-carceri” varato dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, che sicuramente non troverà posto nel nuovo esecutivo, mentre c’è qualche giorno in più per il “Salva-Roma bis”.