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Carceri: dallo spazio vitale minimo deve essere scomputata l’area degli arredi – Cass. Pen. 5728/2014

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Depositata il 5 febbraio 2014 la pronuncia numero 5728 della prima sezione penale relativa al calcolo dello spazio vitale minimo (3 metri quadri) alla luce dei parametri elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

La vicenda prende il via quando un magistrato di sorveglianza del Tribunale di Padova ha accolto il reclamo di un detenuto relativamente alla doglianza inerente lo spazio disponibile all’interno della camera detentiva disponendo che le autorità competenti adottassero le determinazioni conseguenti, compresa la allocazione del reclamante in un altro locale di pernottamento che garantisse uno spazio minimo individuale pari o superiore a tre metri quadrati. Il detenuto – si legge in sentenza – era ristretto insieme ad altri due detenuti e disponeva di uno spazio di 3.03 mq ; detratto l’ingombro del mobilio, tuttavia, lo spazio effettivamente disponibile era di 2.85 mq «nettamente al di sotto del limite vitale di 3 mq stabilito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo» la quale – nella nota sentenza Torreggiani – ha stabilito che ai fini della determinazione dello “spazio vitale” deve tenersi conto dell’ingombro dei mobili.

Ricorreva in Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Padova deducendo l’errore di diritto da parte del magistrato di sorveglianza consistente nell’aver sottratto dal computo della superficie utile l’area occupata dall’armadietto. La giurisprudenza della Corte EDU – sostiene il P. G. nel ricorso – ha fatto riferimento alle sole dimensioni dell’immobile a prescindere dalla «ovvia presenza di mobili». Inoltre, il riferimento alla sentenza Torreggiani «sarebbe stato estrapolato dagli argomenti di parte».

La Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso della Procura e ha affermato che, in base ai parametri elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, per la determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto, deve essere scomputata dalla superficie lorda della cella l’area occupata dagli arredi.

I giudici ricordano come nel sancire il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti l’art. 3 CEDU non abbia tipizzato le condotte integratrici della violazione del divieto, né, analogamente, l’art. 27 c. 2 Cost. stabilisca specifici canoni per la determinazione dei trattamenti vietati.

Nel caso di specie, il magistrato di sorveglianza si è esattamente uniformato al criterio stabilito dalla Corte di Strasburgo nella citata sentenza, avendo scomputato dalla superficie lorda della cella del reclamante lo spazio occupato dall’arredo fisso. Non può essere condivisa, pertanto, l’obiezione del pubblico ministero fondata sulla mancata specificazione della superficie di ingombro da parte della Corte EDU.

Sulla nozione di profitto ai sensi dell’art. 2 d.lgs 74/2000 – Cass. Pen. 5759/2014

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Depositata il 6 febbraio 2014 la pronuncia numero 5759 della terza sezione penale relativa alla nozione di profitto ai sensi dell’art. 2 d.lgs 74/2000.

Questi i fatti: il Tribunale del Riesame annullava un provvedimento di sequestro di un magazzino e di quote di due terreni disposto nei confronti di un soggetto indagato del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti). Contro tale decisione ricorreva in Cassazione il Procuratore della Repubblica deducendo una non corretta nozione di profitto del reato di cui all’art. 2: i giudici, infatti, avrebbero annullato il provvedimento sul presupposto che non fosse stata previamente accertata la possibilità di reperire una somma corrispondente nel patrimonio della società nè verificata la natura fittizia di quest’ultima. Il tutto, sulla scia di pronunzie di questa S.C. come, ad esempio, la n. 38740 (Sgarbi, 4.10.12).
In realtà – come fa notare il ricorrente – quest’ultima decisione muove da presupposti diversi perchè riguarda una ipotesi di violazione dell’art. 10 bis (omesso versamento nel termine fissato delle ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituti) e, comunque, il provvedimento cautelare reale disposto in quel caso, trovava giustificazione nel fatto che “il profitto del reato di omesso versamento delle ritenute si trovava ancora nelle casse della società”. Invece, quando si versi nelle altre fattispecie tributarie delittuose, ove la condotta illecita è costituita dalla rappresentazione, nella denuncia fiscale, di poste passive fittizie ovvero omessa rappresentazione di elementi attivi di reddito (e, quindi, risparmio di imposta), non è individuabile un profitto concreto (depositato nei conti della società) e, come tale, aggredibile. Diversamente opinando (considerando, cioè, il risparmio fiscale come incremento del patrimonio e, quindi, dato direttamente sequestrabile), si finisce per equiparare il presupposto per la sequestrabilità del profitto del reato al presupposto per la sequestrabilità del vantaggio che la persona giuridica trae dal reato. Quest’ultimo, però, è autonomamente considerato dalla L. n. 231 del 2001, art. 5, solo per quei reati per i quali il legislatore ha previsto la responsabilità penale degli enti ma, fra detti reati, non vi sono quelli tributari.

La suprema Corte ha ritenuto il ricorso fondato.
Nei reati tributari – osservano i giudici – il profitto è costituito anche dal risparmio economico che consegue alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale (sez. 3, 2.12.11, Galiffo, n. 1199; Sez. 3, 7.7.10, Bellonzi, n. 35807). Le stesse sezioni unite (23.4.13, Adami, n. 18374) hanno affermato che il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, “è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa come quello derivante dal mancato pagamento del tributo“.
Se è vero che a seguito del reato tributario non si è verificato un decremento del patrimonio circolante, l’accrescimento patrimoniale è solo il riflesso di un mancato depauperamento che, però, non si traduce in un elemento concreto, materialmente apprensibile.
Ha, dunque, ragione il ricorrente quando sostiene che, contrariamente a quanto asserito dal Tribunale, nella specie, non occorreva alcuna specifica dimostrazione della impossibilità di sequestrare – in alternativa ai beni dell’indagato – la corrispondente somma nel patrimonio della società.
Principio, del resto, già chiaramente enunciato in altra recente pronunzia di questa sezione (9.5.12, Sgarbi, rv. 254795) che ha sottolineato come la possibilità di sequestro preventivo per equivalente del profitto (consistente nell’imposta non versata) derivante dall’omesso versamento di ritenute certificate (posto in essere dall’amministratore) – è prevista nella misura in cui “la somma corrispondente sia rimasta nelle casse della società“.

Ancora sulla illegittimità della aggravante della clandestinità – Cass. Pen. 1894/2014

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Con la pronuncia che si segnala la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulle conseguenze della dichiarazione di illegittimità costituzionale della circostanza aggravante dell’art. 61 n. 11-bis c.p. (cd. aggravante della clandestinità) a seguito della pronuncia n. 249/2010 della Corte Costituzionale. Si tratta di un tema diffusamente trattato in dottrina, tra i numerosi commenti si veda Zirulia, Quale sorte per le sentenze che hanno applicato l’aggravante di clandestinità?, in Diritto Penale Contemporaneo nonché Nuzzo, Appunti sulla incostituzionalità dell’art. 61 n. 11-bis c.p., in Cass. Pen. 2010, p. 3741.

I giudici hanno ribadito quanto già affermato dalla giurisprudenza (v. su tutte Cass. Pen., Sez. VI, 17 novembre 2010, n. 40836 commentata in Cass. Pen. 2011, p. 1348) secondo cui la dichiarata incostituzionalità di una circostanza aggravante che abbia spiegato incidenza nel determinismo della pena applicata implica la declaratoria di nullità della sentenza emessa in applicazione dell’art. 444 c.p. La piattaforma negoziale sulla quale è maturato l’accordo sanzionatorio intercorso tra le parti risulta, invero, priva di validità a fronte dell’approvazione di una pena che, come calcolata, risulti oramai illegittima. La sentenza emessa, quindi, deve essere annullata senza rinvio con coeva restituzione degli atti al Tribunale competente il quale, in uno con le parti coinvolte, dovrà compiere una nuova valutazione della regiudicanda (senza preclusioni inerenti la fase invalidamente esaurita) ed effettuare, pertanto, una rinegoziazione dell’accordo per l’applicazione della pena ovvero, in mancanza, dare ingresso al giudizio ordinario o all’abbreviato.

Nella sentenza che si segnala, la pena base applicata in seguito al patteggiamento era il risultato di un giudizio di equivalenza tra una attenuante e l’aggravante in questione: non vi è dubbio, pertanto, che la aggravante della clandestinità abbia inciso sulla pattuizione sulla pena.

In conclusione, il venir meno (in seguito al pronunciamento della Corte Costituzionale) di un elemento evidentemente incidente in termini rilevanti sul contenuto dell’accordo posta a base della sentenza di patteggiamento, genera l’effetto di travolgere l’intero provvedimento, imponendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con trasmissione degli atti al giudice a quo, onde consentire alle parti di riformulare un diversa pattuizione sulla pena ovvero di optare per la trattazione del procedimento in via ordinaria.

In merito all’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne portatore di handicap

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La massima

In tema di delitti contro l’assistenza familiare, l’inabilità al lavoro che, ai sensi dell’art. 570, comma secondo, cod. proc. pen., impone al genitore l’obbligo di corrispondere i mezzi di sussistenza anche al figlio maggiorenne va intesa, in base alla definizione contenuta negli artt. 2 e 12 della l. n. 118 del 1971, come totale e permanente inabilità lavorativa. 

Il commento

L’obbligo, penalmente sanzionato, di prestare i mezzi di sussistenza ha un contenuto più ristretto di quello delle obbligazioni previste dalla legge civili.

Infatti, in sede civile, il genitore separato è obbligato ex articolo 155-quinquies del codice civile a concorrere al mantenimento del figlio anche dopo il raggiungimento della maggiore età da parte di quest’ultimo: obbligo che perdura finché il genitore interessato non dia prova che il figlio abbia raggiunto l’indipendenza economica (Sez., I, civile, 8/2/2012, n. 1773; Sez. VI, civile, 15/2/2012, n. 2171); mentre per i figli maggiorenni, portatori di handicap grave, il comma 2 del citato articolo 155-quinquies prevede l’applicazione delle disposizioni stabilite in favore dei figli minori.

Al contrario, integra il reato di cui all’articolo 570, comma 2, n. 2 c.p. la mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza ai figli di “età minore” ovvero maggiorenni “inabili al lavoro”, derivandone che l’inabilità al lavoro del figlio maggiorenne è condizione imprescindibile per la configurabilità del reato e, a tal fine, per “inabile al lavoro” deve intendersi colui che risulti avere una riduzione permanente della capacità lavorativa nella misura pari o superiore al 74 per cento, legge n. 118 del 1971 e decreto legislativo n. 509 del 1988.

Per l’effetto, la Corte ha annullato la condanna evidenziando come non potesse ravvisarsi la violazione penalmente sanzionata, ma semmai un illecito civile, nel mancato versamento dell’assegno in favore della figlia, pur divenuta maggiorenne, risultando che a questa era stata riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa solo del 46 per cento.

Ricordiamo che il punto n.2 dell’art. 570, 2° comma c.p. (violazione degli obblighi di assistenza famigliare) prevede che le dette pene si applicano congiuntamente a chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa.

Con la citata sentenza la Suprema Corte vuole rilevare come l’inabilità al lavoro del figlio maggiorenne sia elemento imprescindibile e presupposto di legge necessario per l’integrazione del reato ex art. 570 c.p.. Viene evidenziato, inoltre, il disposto del Decreto Legislativo 509/1988 dal quale emerge, in maniera palese, che il parametro di valutazione dell’inabilità al lavoro è oggettivo e non lascia spazio a dubbi di natura ermeneutica. Secondo la disposizione di legge, infatti, la riduzione della capacità lavorativa non deve essere inferiore al 74%.

Stalking: non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa

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Depositata l’11 febbraio 2014 la sentenza numero 6384 in tema di stalking.

I giudici della terza sezione penale ribadiscono anzitutto come il delitto di atti persecutori – cosiddetto “stalking” (art. 612 bis cod. pen.) – sia un reato che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo; pertanto, ai fini della sua configurazione non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 29872 del 19/05/2011 Cc. dep. 26/07/2011 Rv. 250399; Sez. 5, Sentenza n. 34015 del 22/06/2010 Cc. dep. 21/09/2010 Rv. 248412).

Il Tribunale aveva ritenuto insussistenti gli elementi di colpevolezza del reato di stalking, che richiede un perdurante stato di ansia o di paura e non già una mera ripetizione di condotte lesive, osservando come il notevole flusso telefonico (sicuramente dal contenuto minaccioso) non era univocamente sintomatico di una condotta assillante tale da ingenerare il menzionato stato psichico anche in considerazione del fatto che risultavano molte telefonate da parte della donna verso l’ex marito.

I giudici di Piazza Cavour, al contrario, hanno ritenuto che il comportamento molesto dell’ex marito posto in essere col mezzo del telefono – caratterizzato dalla molteplicità di chiamate e sms anche a contenuto minatorio o da atteggiamenti ossessivi (ad esempio, presentandosi nei luoghi frequentati dalla donna oppure contattando persone vicine alla stessa) – fosse assolutamente idoneo a generare quello stato di ansia e paura per la propria incolumità tipico dello stalking. A nulla rileva, in conclusione, nè l’esistenza di chiamate della donna nè il contesto conflittuale originato dalla crisi della relazione di coppia – dato, quest’ultimo, che non è assolutamente idoneo ad escludere o ridurre la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato in questione, ma che anzi appare assai rilevante, tant’è che l’art. 612 bis, al comma 2, prevede addirittura come aggravante l’esistenza di rapporti di coniugio o di pregressi rapporti affettivi tra le parti.

Bruno Contrada: Strasburgo condanna l’Italia per trattamenti inumani e degradanti

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Depositata l’11 febbraio 2014 la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo relativa al ricorso numero 7509 del 2008 presentato da Bruno Contrada contro l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU.

I giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per aver tenuto in carcere Bruno Contrada, tra il 24 ottobre 2007 e il 24 luglio 2008, nonostante il suo stato di salute fosse incompatibile con il regime detentivo. Negandogli la scarcerazione per motivi di salute, in altri termini, l’Italia avrebbe violato l’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo secondo cui «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

«Tutti i documenti presentati – hanno osservato i giudici della Corte Europea – hanno costantemente e inequivocabilmente accertato che lo stato del signor Contrada della salute era incompatibile con il regime carcerario a cui fu sottoposto. Il protrarsi della detenzione di quest’ultimo si pone pertanto in contrasto con il divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’articolo 3 della CEDU». Con sei voti contro uno la Corte ha così ritenuto che vi è stata una violazione dell’art. 3.

Di opinione contraria il Presidente della Corte – Giudice Işıl Karakaş – secondo cui «la situazione di Contrada non era talmente grave da ritenere violato l’articolo 3 CEDU, non avendo egli subito trattamenti inumani o degradanti»; l’opinione contraria è allegata alla sentenza in base a quanto previsto dall’art. 45 § 2 della Convenzione («Se la sentenza non esprime in tutto o in parte l’opinione unanime dei giudici, ogni giudice avrà diritto di unirvi l’esposizione della sua opinione individuale») nonché all’art. 74 § 2 del Regolamento della Corte («Ogni giudice che ha partecipato all’esame del caso ha il diritto di allegare alla sentenza sia l’esposizione della sua opinione individuale, concordante o dissenziente, sia una semplice dichiarazione di dissenso»).

Omesso versamento dei contributi: sulla causa di non punibilità di cui all’art. 2 c.1-bis D.L. 463/1983

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Depositata l’11 febbraio 2014 la sentenza numero 6378 della terza sezione penale in tema di omesso versamento delle trattenute previdenziali ed assistenziali a proposito dell’ambito di operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 2 c. 1-bis del D. L. 463/1983 secondo cui «Il datore di lavoro non è punibile se provvede al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione».

In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che può ritenersi tempestivo, ai fini del verificarsi della causa di non punibilità, il versamento delle ritenute previdenziali effettuato dall’imputato nel corso del giudizio, allorché risulti che lo stesso non ha ricevuto dall’ente previdenziale la contestazione o la notifica dell’accertamento delle violazioni o non sia stato raggiunto nel corso del procedimento penale da un atto contenente gli elementi essenziali dell’avviso di accertamento.

Punto centrale della pronuncia sono la rilevanza giuridica e la finalità da riconoscere alla contestazione amministrativa che deve precedere l’esercizio dell’azione penale, dovendosi richiamare il principio secondo cui la L. n. 638 del 1983 (conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463) ha modificato i termini e le modalità di operatività della causa di non punibilità introducendo, prima dell’invio della notitia criminis, un meccanismo, costituito dalla contestazione o notifica dell’accertamento della violazione, finalizzato ad agevolare la definizione del contenzioso in sede amministrativa.

Posto che rimane fermo il diritto del datore di lavoro ad essere messo in concreto in condizione di esercitare la possibilità di sanare il debito, la Corte richiama quanto affermato dalle Sezioni Unite (sentenza n. 1855/2012) secondo cui a tale diritto corrispondono specifici obblighi per l’ente previdenziale e per l’autorità giudiziaria: in sintesi, esiste un obbligo da parte dell’ente previdenziale di rendere noto, nelle forme previste dalla norma, al datore di lavoro l’accertamento delle violazioni, nonchè le modalità e termini per eliminare il contenzioso in sede penale.

Abusi sessuali su minore e conflittualità familiare: il giudice deve valutare l’attendibilità della vittima

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Nei giudizi relativi ad abusi sessuali su minori, specie se avvenuti all’interno delle “mura domestiche”, il giudice deve sempre valutare l’attendibilità della persona offesa, a maggior ragione se coinvolta in drammatiche situazioni familiari.
«È notorio, che una situazione di intensa conflittualità tra i genitori incide sulla psicologia di un bambino, e tanto più di un bambino che è ancora in un’età – come cinque anni – in cui la distinzione tra realtà e fantasia si configura in modo più labile rispetto a quella che si apprende in una età successiva, secondo un ordinario sviluppo psicologico».
Come anticipato lo scenario portato dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione attiene, ancora una volta al tema, – ahimè sempre più frequente – degli abusi sessuali su minori, avvenuti nella cerchia delle relazioni familiari.
Ebbene, con sentenza del 30 gennaio 2007 il Tribunale di Messina, condannava alla pena prevista per i reati di cui agli artt. 81 cpv. e 609 bis c.p.p. (pena, poi, attenuta dal giudice dell’appello, ai sensi dell’art. 609 quater, 3 comma c.p.) un uomo per aver compiuto atti sessuali con una persona di età inferiore ai dieci anni, e precisamente un suo nipote di anni cinque.
Concluso il giudizio di merito con sentenza della Corte d’Appello di Messina, l’imputato proponeva formale ricorso per Cassazione denunciando a sua ragione, l’inattendibilità del minore, stante la complicata situazione familiare in cui viveva.
Veniva prospettata, in particolare, “l’omessa considerazione del contesto cui il bambino avrebbe denunciato lo zio per gli abusi sessuali, cioè una situazione di separazione in corso tra i genitori del minore caratterizzata da un tasso di conflittualità nettamente superiore alla norma”.
Peraltro, già in sede d’appello il difensore dell’imputato aveva “rilevato l’insufficienza e contraddittorietà della prova acquisita a carico dell’imputato, costituita esclusivamente dalle dichiarazioni del minore, risultate generiche …e chiaramente influenzate dall’atteggiamento della madre. La madre, infatti, come emerge anche dalla motivazione della sentenza di primo grado, aveva avviato un procedimento innanzi al Tribunale per i minorenni di Messina per ottenere la decadenza dalla potestà genitoriale del marito (fratello dell’imputato).
Situazione, quest’ultima, tutt’altro che “pacifica” – osserva la Corte.
«La corte territoriale, quindi, avrebbe dovuto (…) adeguatamente motivare sulla inesistenza di conseguenze della suddetta situazione di conflitto nelle dichiarazioni d’accusa che il bambino, che viveva in normale contatto con la madre, ha pronunciato nei confronti del fratello del padre: e ciò tanto più in un contesto in cui, come evidenzia la stessa sentenza d’appello, nella relazione redatta per il Tribunale per i minorenni le specialiste del Servizio Tutela Materna Infantile avevano definito il minore “un bambino che utilizza molto spiegazioni di tipo fantastico, è capace di inventare circostanze, fatti e luoghi con creatività rendendoli attendibili, specialmente se in difficoltà e quando non sa come dovrebbe rispondere».
«La personalità del bambino era, [dunque] ragionevole ritenere che potesse subire, in qualunque sua manifestazione attinente a persone di famiglia, il riflesso della situazione di conflitto familiare in cui si era trovato a vivere: che questo non fosse avvenuto occorreva pertanto verificarlo, per verificare l’effettiva attendibilità del minore, non essendo sufficiente stabilire una separazione aprioristica tra il minore figlio di coniugi in forte conflitto e il minore abusato da un soggetto riconducibile psicologicamente a quel padre che la madre voleva, con la sua iniziativa presso il Tribunale dei minori, estromettere dalla vita del bambino».
Questi i motivi per cui i giudici della Corte ritennero non manifestamente infondata la doglianza avanzata nei motivi di ricorso dalla difesa.

Estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni: analisi ragionata alla luce della sentenza n. 51433/2013

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Il fatto: Tizio, creditore nei confronti di Caio in ordine a spettanze derivanti da un rapporto di lavoro, cospargeva di benzina l’autovettura di quest’ultimo, facendogli altresì trovare poggiata in terra una tanica contenente del liquido infiammabile, al fine di costringerlo a pagargli le somme di cui era creditore, nonché a fargli sottoscrivere un verbale con i sindacati per la concessione della cassa integrazione.
Per questo fatto, con provvedimento del Giudice per le Indagini Preliminari, veniva applicata nei confronti di Tizio la misura della custodia cautelare in carcere, avendo il giudice qualificato la condotta dello stesso come estorsiva ed avendola ritenuta così grave da giustificare l’applicazione di detta misura.
Tale provvedimento era oggetto di impugnazione da parte dell’imputato e il Tribunale del Riesame, pur confermando la qualificazione giuridica del fatto in estorsione, riteneva di dover applicare nei confronti di Tizio la misura cautelare meno afflittiva degli arresti domiciliari, ritenuto tra l’altro che la pretesa creditoria di Tizio era legittima e fondata, essendo comprovata da numerosi elementi ed in ogni caso riconosciuta dallo stesso Caio.
Avverso tale provvedimento, proponevano ricorso per Cassazione sia l’imputato a mezzo del proprio difensore sia il Pubblico Ministero.
L’unica doglianza dedotta dall’imputato riguardava l’asserita violazione dell’art. 649 c.p.p.: il Pubblico Ministero aveva emesso (inizialmente) decreto col quale disponeva il giudizio per il reato di minacce, successivamente riqualificato come estorsione, ma, ad avviso della difesa, se non sussistevano esigenze cautelari al tempo, trattandosi del medesimo fatto, non potevano sussistere nemmeno quando lo stesso Pubblico Ministero decideva di procedere per il delitto di estorsione.
Tale (unico) motivo di ricorso veniva rigettato dalla Corte, avendo questa ritenuto che l’asserita violazione dell’art. 649 c.p.p. era rimasta priva di qualunque riscontro probatorio e pertanto inesaminabile allo stato degli atti dal Collegio.
Il Pubblico Ministero insisteva invece per l’applicazione della custodia cautelare in carcere, ritenendo la condotta dell’imputato così grave da non poter essere “contenuta” dalla misura degli arresti domiciliari, sussistendo un concreto pericolo di reiterazione di reati della medesima specie, oltre alla possibilità di un eventuale inquinamento probatorio.

Il commento: La Corte ha ritenuto di dover disattendere anche i motivi del ricorso presentato dal Pubblico Ministero, spostando il campo d’indagine – ex art. 609 c.p.p. – non tanto sull’applicazione della misura cautelare più o meno afflittiva da applicarsi, quanto sulla eventuale riqualificazione giuridica del fatto, ritenendo che, se questo fosse stato qualificato come reato diverso e cioè come reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il soggetto non avrebbe potuto vedersi applicata alcuna misura cautelare.
Pertanto la critica e l’analisi dei Giudici di legittimità si è focalizzata sulla confutazione di quel recente orientamento giurisprudenziale – evidentemente ritenuto correttamente applicabile al caso di specie prima dal Giudice per le Indagini Preliminari e poi dal Tribunale del Riesame – secondo cui “integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che esprime tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio, preteso diritto, sicché la coartazione dell’altrui volontà deve ritenersi assuma ex se i caratteri dell’ingiustizia“. (ex plurimis v. Cass. 19230/13)
La questione giuridica affrontata dalla S.C. può pertanto essere così sintetizzata: “se e in che limiti la gravità della minaccia o della violenza, posta in essere da chi faccia valere una legittima pretesa deducibile davanti al giudice costituisca elemento del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni“.

Prima di analizzare l’iter argomentativo e le conclusioni alle quali è giunta la S.C. con la sentenza n. 51433/13, pare opportuno – sinteticamente e senza alcuna pretesa di esaustività – analizzare le fattispecie di reato esaminate nella pronuncia de qua. (per i rilievi che seguono ed un maggiore approfondimento, v. per tutti, in dottrina, Fiandaca – Musco, Diritto Penale – Parte Speciale, ult. ed.; Antolisei, Manuale di Diritto Penale – Parte Speciale ult. ed.)

Il reato di estorsione trova il proprio inquadramento codicistico nei delitti contro il patrimonio ed è disciplinato dall’art. 629 del c.p. che punisce chiunque, con violenza o minaccia, costringe qualcuno a fare od omettere qualcosa, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con danno altrui.
Trattasi di un reato comune, non essendo richiesto dalla norma che il soggetto attivo rivesta una particolare qualifica soggettiva; qualora la condotta in oggetto sia posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, sarà configurabile il delitto di concussione, sempre che vi sia stato il ricorso all’abuso della pubblica qualità.
La finalità perseguita dall’agente nel delitto in parola, è quella di creare – attraverso la violenza o la minaccia – uno stato di coazione psicologica nella vittima, tale da costringerla a porre in essere una condotta lesiva del proprio patrimonio per la soddisfazione di una pretestuosa ed illegittima richiesta, per la quale l’agente procurerà – a sé o ad altri – un ingiusto profitto.
A tale proposito va specificato che la compressione della libertà di autodeterminazione determinata dall’agente con la propria condotta criminosa, non potrà essere assoluta, nel senso che alla vittima dovrà essere lasciato un margine decisionale – nonostante gli sia stata prospettata come conseguenza del suo rifiuto un male, nella forma della violenza o della minaccia – configurandosi, in caso contrario, la diversa fattispecie di reato prevista dal delitto di rapina (sempre che l’impossessamento abbia a riguardo un bene mobile).
E’evidente pertanto la natura plurioffensiva del delitto di estorsione, mirando la norma a tutelare non solo il patrimonio, quanto anche la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo del reato.
L’estorsione, per le modalità di esecuzione del fatto criminoso che la caratterizzano, rientra nel novero di quei reati la cui realizzazione è subordinata ad una cooperazione artificiosa della vittima, elemento che, sotto questo profilo, accomuna tale fattispecie di reato alla truffa, distinguendosi da quest’ultima nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza nella sfera soggettiva della vittima.
Nella truffa infatti, la vittima viene tratta in inganno dall’agente il quale paventa (anche indirettamente) un male soltanto possibile ed eventuale e, pertanto, sulla base di un pericolo inesistente, questa si convince ad eseguire una determinata prestazione.
Nella estorsione, il male prospettato alla vittima è invece concreto e realizzabile dall’agente stesso o da altri, per cui la prestazione (illegittima) viene eseguita nel timore di subire le conseguenze malefiche prospettate.
Quanto all’elemento psicologico richiesto dalla norma per la configurazione del reato, è opinione largamente condivisa in dottrina che sia il dolo generico e non – come spesso si è affermato – specifico. Tali osservazioni derivano dall’analisi della condotta richiesta dalla norma, secondo cui il procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, non rappresenta soltanto il fine perseguito dall’agente nel delinquere, ma, piuttosto, risulta essere l’elemento costitutivo della fattispecie oggettiva.

Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone, è stato inserito dal legislatore nei delitti contro l’amministrazione della giustizia, rispettivamente agli artt. 392 e 393 c.p.
La tutela offerta dalle norme in esame è quella di punire chi, nella convinzione di esercitare un preteso diritto nei confronti di un soggetto terzo, decide di farsi giustizia da sé senza ricorrere all’Autorità giudiziaria.
La ratio legis della disposizione in parola, pertanto, consiste nel sanzionare la riprovevolezza della condotta e la sovversione all’ordine pubblico da parte del soggetto attivo del reato, il quale decide di “bypassare” quelli che sono gli strumenti di diritto offerti dal nostro ordinamento giuridico, per ricorrere alla coercizione personale ed arbitraria nei confronti di terzi per la realizzazione di un preteso diritto.
Gli elementi costitutivi del reato possono essere così individuati: a) l’esercizio da parte dell’agente di un preteso diritto da far valere nei confronti di un terzo (a tale proposito va precisato che potrebbe trattarsi anche di un diritto putativo e cioè inesistente, di cui tuttavia l’agente è convinto di essere titolare. Spetterà in questo caso al giudice valutare con prudenza tutti gli elementi del caso a sostegno della putatività del diritto preteso); b) l’opposizione da parte di un soggetto terzo rispetto a detta pretesa; c) la possibilità di ricorrere all’Autorità giudiziaria per la tutela del diritto preteso: questo è un elemento fondamentale nella fattispecie di reato in esame significando, in caso contrario, che la asserita pretesa avanzata dall’agente risulterebbe essere illegittima, trasformando la propria condotta violenta in un mero pretesto per ottenere qualcosa di non dovuto; d) il ricorso arbitrario alla forza – nella forma della violenza o della minaccia – diretta ad ottenere dal terzo quanto da questi pretesamente dovuto; e) il dolo, consistente nella volontà di realizzare la condotta violenta al fine di esercitare un preteso diritto.
Anche qui, come per il delitto di estorsione, la dottrina più attenta ha precisato che l’elemento psicologico richiesto dalla norma per la configurazione del reato, è il dolo generico e non specifico. Il fine di esercitare un preteso diritto, infatti, altro non è che l’intenzione di farsi ragione da sé e pertanto non essendo questo un quid posto al di fuori del fatto di reato, è assorbito nella condotta e nell’evento stesso, portando a dover ritenere che è richiesto il dolo nella sua forma generica.

E’ proprio attorno al punto sub d) che orbita l’analisi della S.C. nella sentenza in commento: quali limiti incontra la condotta violenta o minacciosa dell’agente – comune ad entrambe le fattispecie di reato – anche se sorretta da una pretesa legittima, tale da poter giustificare la configurazione del delitto di estorsione, per il solo fatto di essere caricata di una tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio preteso diritto.
Sia la dottrina che la giurisprudenza di legittimità, hanno concordemente ritenuto che la linea di confine tra i due reati fosse individuabile non tanto nella materialità del fatto, che può essere identica, quanto nell’elemento volitivo (rectius: intenzionale) dell’agente.
Nell’estorsione l’agente agisce nella consapevolezza che quanto pretende dalla vittima non gli è dovuto, almeno in quella misura, e pertanto mira ad ottenere un ingiusto profitto con danno altrui.
Nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’agente è invece mosso dalla convinzione – anche errata – di essere titolare di un preteso diritto e, pertanto, con la condotta violenta o minacciosa pretende il soddisfacimento dello stesso coartando l’altrui volontà. (in giurisprudenza v. ex plurimis Cass. 17/07/1936, Raineri; Cass. 13/03/1953, Centofanti; Cass. 1596/1966 riv 103557; Cass. 409/1971 riv 120790; Cass. 7940/1986 riv 173481; Cass. 6445/1989 riv 171179; Cass. 12329/2010 riv 247228; Cass. 22935/2012 riv 2531992)
Nonostante questa pacifica impostazione, negli ultimi anni si è affermato che “nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la minaccia e la violenza non sono fini a se stesse, ma sono strettamente connesse alla condotta dell’agente, diretta a far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pongo come elementi accidentali, per cui non possono mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza“. (Cass. sent. n. 10336/2003)
Ed ancora “quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia. In determinate circostanze e situazioni, pertanto, anche la minaccia dall’esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che fanno sfociare l’azione in mera condotta estorsiva“. ( Cass. 47972/2004 riv 230709; Cas. 28/11/2007 n. 766; Cass. 27/06/2007 n. 35610, Della Rocca; Cass. 27/06/2007 n. 35613, Guarino; Cass. 15/02/2007 n. 14440, Mezzanzanica; Cass. 29/10/2008 n. 42317, Smaldore; Cass. 02/12/2009 n. 49564; Cass. 28539/2010 riv 247882; Cass. 41365/2010 riv 248736)

La S.C. dopo una interessante ricostruzione storica sulla disciplina del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni all’interno dei codici preunitari, al cui contenuto si è successivamente ispirato il codice Zanardelli (per l’analisi storica si rimanda alla lettura della sentenza in commento), giunge ad argomentare quanto di seguito esposto.
Sia lo sviluppo storico dell’istituto che l’inquadramento dogmatico, portano a ritenere che l’intento unico del legislatore sia stato quello di voler sanzionare il “farsi giustizia da sé” – con violenza o minaccia – senza ricorrere all’Autorità giudiziaria e non le modalità con le quali l’agente persegue il proprio scopo.
E’ la legge stessa ad offrire una tutela maggiore nel caso in cui la violenza o la minaccia alle persone sia commessa con armi (art. 393 co. 3 c.p.); è evidente pertanto la ratio legis di aver voluto conservare l’identità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, anche nel caso in cui la condotta dell’agente sia particolarmente grave.
Sottolinea a tale proposito la Corte che, nel caso in cui l’agente ponga in essere una condotta che integri anche gli estremi di un altro reato – si pensi al caso in cui l’agente mosso dal fine di esercitare un preteso diritto ponga in essere un sequestro di persona per la realizzazione del suo intento – il reo risponderà secondo le norme sul concorso di reati.
La giurisprudenza, sul punto, non ha avuto dubbi nell’affermare che il reo dovesse essere ritenuto responsabile del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p. in concorso con l’art. 605 c.p. e non del più grave reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 c.p. (v. ex plurimis Cass. 9731/2009 rv. 243020; Cass. 38438/2001 rv. 219977; Cass. 6677/1987 rv. 178535)
Ancora, la Corte, pone l’attenzione sul dato testuale dell’art. 581 co. 2 c.p. secondo cui il reato di percosse non trova applicazione quando “la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato“.
E’ evidente pertanto che la semplice percossa risulta essere già assorbita dal reato di cui all’art 393 c.p., ma quando la carica di violenza trasmoda in un reato diverso – ad esempio lesioni o omicidio – l’agente risponderà del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in concorso con gli eventuali altri reati commessi nei confronti della persona offesa.

La tesi qui confutata, sostiene la Corte, si limita – senza spiegarne le ragioni – a ritenere che l’azione diventa estorsiva quando: a) è tale da non lasciare alla vittima alcuna possibilità di scelta; b) quando denota una prava volontà ricattatoria.
Quanto al punto sub a) – come già specificato nella parte in cui si è brevemente analizzata la struttura del delitto di estorsione – la giurisprudenza di legittimità, al fine di distinguere il reato di estorsione da quello di rapina, ha sostenuto che “l’elemento di discrimine tra i due reati, di estorsione e rapina, è costituito dall’area di libertà concessa alla persona offesa; sussiste il delitto di estorsione quando la volontà del soggetto passivo, per effetto della minaccia, non sia completamente esclusa, ma, residuando la possibilità di scelta fra l’accettante le richieste dell’agente o subire il male minacciato, la possibilità di autodeterminazione sia condizionata in maniera più o meno grave dal timore di subire il pregiudizio prospettato; se la minaccia, viceversa, si dovesse risolvere in un costringimento psichico assoluto, cioè nell’annullamento di qualsiasi possibilità di scelta, ed il risultato dell’agente fosse il conseguimento di un bene mobile, si configurerebbe infatti un vero e proprio impossessamento e, conseguentemente, il diverso reato di rapina”. (v. ex plurimis Cass. 47972/2004; Cass. 4308/1995 rv. 203773)
In ordine al punto sub b), va rilevato che la volontà ricattatoria dell’agente è senza dubbio un grave indizio del fine che quest’ultimo intende perseguire e, pertanto, spetterà al giudice verificare quale sia stata effettivamente l’intenzione dell’agente: se quella di ricavare dalla propria condotta un ingiusto profitto, o quella meno riprovevole di ottenere – seppure con l’uso arbitrario della forza – un qualcosa che gli spettava (anche putativamente) di diritto.

E’ per questo che il focus dell’analisi si dovrà spostare piuttosto sulla verificazione della sussistenza di due elementi: a) l’esistenza di un preteso diritto da parte dell’agente; b) la possibilità da parte dell’agente di ricorrere all’Autorità giudiziaria per la tutela del suddetto diritto.
L’assenza di uno di questi due elementi porterà infatti alla conseguenza di un inutile ulteriore approfondimento sull’elemento psicologico, dimostrando al contrario sic et simpliciter la prava volontà ricattatoria dell’agente, finalizzata al raggiungimento di un profitto ingiusto con danno altrui.
Il Collegio rileva a tale proposito che nelle sentenze richiamate, a ben vedere, l’agente per un motivo o per un altro non avrebbe mai potuto conseguire – attraverso il ricorso all’Autorità giudiziaria – il risultato a cui mirava ponendo in essere la condotta violenta o minacciosa nei confronti della vittima, trattandosi di un diritto non azionabile.

Tirando le fila del discorso, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sent. n. 51433/2013 ha affermato il principio secondo cui il delitto di estorsione non sarà mai configurabile quando l’agente con l’intento di esercitare un preteso e fondato diritto, pur potendo rivolgersi all’Autorità giudiziaria, decide di farsi giustizia da sé utilizzando nei confronti della vittima violenza e/o minaccia, non rilevando a tale proposito l’intensità e la gravità della violenza o della minaccia, potendo egli rispondere – in caso di lesione di ulteriori beni giuridici – del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in concorso con altri reati.
Per questi motivi la S.C., qualificando il fatto ai sensi dell’art. 693 c.p. e rigettando il ricorso del Pubblico Ministero, ha annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata, nonché l’ordinanza di custodia cautelare disposta dal Giudice per le Indagini Preliminari, ordinando l’immediata scarcerazione dell’imputato se non detenuto per altra causa.

Sezioni Unite: dichiarazioni spontanee ed interruzione della prescrizione

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Depositata il 6 febbraio la sentenza numero 5838 delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione in tema di dichiarazioni spontanee ed interruzione della prescrizione.

La Corte prende le mosse osservando come gli interrogativi da risolvere siano fondamentalmente due: quello relativo alla effficacia interruttiva delle dichiarazioni spontanee e quello, subordinato, riguardante l’ambito di esplicazione di detta, eventuale, efficacia nei confronti dei coimputati.

Quanto al primo aspetto, i giudici, richiamando l’art. 374 c.p.p. (presentazione spontanea), hanno affermato che le dichiarazioni rese in sede di presentazione spontanea all’autorità giudiziaria sono idonee ad interrompere la prescrizione, al pari dell’interrogatorio, purché all’indagato siano stati contestati i fatti addebitati.

Ricapitolando, considerato che l’interrogatorio reso davanti al PM o al giudice rientra nell’elenco tassativo degli atti aventi efficacia interruttiva del corso della prescrizione di cui all’art. 160 c.p., ne deriva che le dichiarazioni rese dall’indagato in sede di presentazione spontanea possono dispiegare efficacia interruttiva – al pari dell’interrogatorio – in costanza di una duplice condizione:

che siano rese alla autorità giudiziaria (e non dunque alla polizia giudiziaria);
che siano rese in esito a contestazione del fatto per cui si procede.
Quanto alla seconda questione, la risposta – osserva la Corte – è offerta dall’impianto codicistico, e precisamente dall’art. 161 c.1 c.p. secondo cui la sospensione e la interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato essendo pacifico che tale effetto estensivo prescinde dalla contestuale valutazione procedimentale delle posizioni dei concorrenti, al punto da estendersi anche a coloro che vengono imputati del reato in un momento successivo.