25 Settembre 2024, mercoledì
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Governo Renzi, la lista dei ministri: 16+1, metà sono del Pd, metà donne

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Ecco la lista dei ministri che il presidente del Consiglio incaricato Matteo Renzi, dopo aver sciolto la riserva, ha sottoposto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e ha annunciato alla stampa dopo 2 ore e 42 minuti di faccia a faccia con Napolitano, e qualche minuto dopo l’annuncio del segretario generale alla Presidenza Donato Marra:
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: Graziano Delrio (Pd).

Ministri con portafoglio
Al ministero dell’Interno confermato Angelino Alfano (Ncd)
Al ministero dell’Economia Pier Carlo Padoan (Ocse, Fmi) al posto di Fabrizio Saccomanni
Al ministero della Giustizia Andrea Orlando (Pd) al posto di Anna Maria Cancellieri
Al ministero della Difesa Roberta Pinotti (Pd) al posto di Mario Mauro (Ncd)
Al ministero degli Esteri Federica Mogherini (Pd) al posto di Emma Bonino (Radicali)
Al ministero del Welfare Giuliano Poletti (Legacoop) al posto di Enrico Giovannini
Al ministero dell’Istruzione Stefania Giannini (Scelta civica) al posto di Maria Chiara Carrozza (Pd)
Al ministero della Salute confermata Beatrice Lorenzin (Ncd)
Al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti confermato Maurizio Lupi (Ncd)
Al ministero dell’Agricoltura Maurizio Martina (Pd). Nunzia De Girolamo (Ncd) si era dimessa il 26 gennaio.
Al ministero dell’Ambiente Gianluca Galletti (Udc) al posto Andrea Orlando (Pd)
Al ministero dello Sviluppo Economico Federica Guidi (giovani Confindustria) al posto di Flavio Zanonato (Pd)
Al ministero della Cultura e del Turismo Dario Franceschini (Pd) al posto di Massimo Bray (Pd)
Ministri senza portafoglio
Al ministero delle Riforme Costituzionali e rapporti col Parlamento Maria Elena Boschi (Pd) al posto di Gaetano Quagliarello (Ncd)
Al ministero della Pubblica Amministrazione Marianna Madia (Pd) al posto di Gianpiero D’Alia (Udc)
Al ministero degli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta (Pd) al posto di Graziano Delrio (Pd)
Ministeri accorpati o soppressi:
Ministero dell’Integrazione. C’era Cécile Kyenge (Pd)
Ministero della Coesione Territoriale. C’era Carlo Trigilia
Ministero dei Rapporti col Parlamento. C’era di Dario Franceschini (Pd)
Ministero degli Affari Europei. C’era Enzo Moavero Milanesi
Ministero delle Pari Opportunità e Sport. (Josefa Idem si era dimessa)
Renzi aveva ricevuto l’incarico da Napolitano lunedì 17 febbraio: sono passati 4 giorni.
Letta aveva ricevuto l’incarico il 24 aprile ed aveva presentato la sua lista di ministri il 27 aprile.
NUMERI. Nel governo Renzi ci sono 16 ministri, di cui 8 donne, un record. L’età media è 47 anni. Il ministro più anziano è Padoan, 64 anni. La più giovane è Maria Elena Boschi, 33 anni.
Nel governo Letta c’erano 21 ministri, 10 viceministri e 30 sottosegretari. Le donne erano 7, l’età media 52 anni.
Renzi è il più giovane presidente del Consiglio della storia italiana, e nella storia repubblicana è il terzo, dopo Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini, a non essere parlamentare. Solo un altro riuscì a diventare presidente del Consiglio a 39 anni: Benito Mussolini. Ma il 31 ottobre 1922 Mussolini aveva 39 anni e 3 mesi, mentre Renzi sale a Palazzo Chigi a 39 anni e 41 giorni.
Metà governo è del Pd, e tre ministri (Mogherini, Boschi, Madia) vengono direttamente dalla segreteria Pd nominata il 9 dicembre da Renzi.
Rappresentanza dei partiti nel nuovo governo:
Pd: presidente del Consiglio, sottosegretario alla presidenza e 8 ministri
Ncd: 3 ministri
Scelta civica: 1 ministro
Udc: 1 ministro
I partiti nel Governo Letta erano così rappresentati:
Partito Democratico (PD): presidente del Consiglio dei ministri, 8 ministri, 5 viceministri e 12 sottosegretari;
Nuovo Centrodestra (NCD) (dal 16/11/2013): vicepresidente del Consiglio dei ministri, 4 ministri, 1 viceministro e 8 sottosegretari;
Scelta Civica (SC): 1 ministro, 1 viceministro e 1 sottosegretario;
Popolari per l’Italia (PpI): 1 ministro e 1 sottosegretario;
Unione di Centro (UdC): 1 ministro senza portafoglio e 1 sottosegretario;
Radicali Italiani (RI): 1 ministro;
Indipendenti: 3 ministri, 2 viceministri e 5 sottosegretari.
Partecipazione all’esecutivo senza rappresentanza in Consiglio dei ministri:
Forza Italia (FI): 1 sottosegretario tecnico.

CARO RENZI, LA VERA PARTITA DEL TUO QUASI MONOCOLORE SI GIOCA IN EUROPA. E UNA CARTA DA CALARE C’È

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Abbiamo il “quasi monocolore” Renzi. Il presidente del Consiglio c’è, i ministri sono pressoché un accessorio, strumenti nelle mani del leader. La maggioranza è confermata, ma i partiti – Pd compreso – sono marginali rispetto ad un governo che è quasi interamente fatto ad immagine e somiglianza di Matteo, dove quasi tutto dipende in modo stretto e sorvegliato da lui. Mentre l’opposizione può non dirsi insoddisfatta, considerato che alla Giustizia arriva uno che non ha mai militato nella schiatta degli “anti-berlusconiani” duri e puri e che un ministro come la Guidi non è certo un nemico del Cavaliere. L’unico elemento spurio è il ministro dell’Economia, segno evidente che al giovane Renzi è sì concesso spaziare, ma fino ad un certo punto. Padoan è uomo degli organismi internazionali, Ocse in testa, sicuramente non dispiace a Draghi anche se non è di scuderia come Saccomanni, sa cosa significhi negoziare con le più importanti cancellerie europee. È l’unico in questo esecutivo così fragile – considerato anche il clamoroso declassamento degli Esteri – che abbia autonomia di valutazione, di pensiero e di relazioni, specie in campo internazionale.

Ed è proprio sul terreno della politica economica in relazione ai vincoli europei che si giocherà la vera partita del “quasi monocolore” guidato da Renzi. Il quale, essendo notoriamente ragazzo fortunato, ha trovato sulla sua strada un inedito e inaspettato alleato che, se il neo-presidente saprà capirlo, potrebbe rivelarsi decisivo. No, non fa parte del nuovo governo, è l’olandese Jeroen Dijsselbloem (si pronuncia Yerùn Dàisselblùm). Ministro delle Finanze nel governo lib-lab di Mark Rutte, è da un mese presidente dell’Eurogruppo in sostituzione di Jean-Claude Juncker, il lussemburghese che occupava quel posto dal 2005. Voluto fortemente dai tedeschi, e per questo automaticamente bollato come “falco”, Dijsselbloem ha annunciato qualche ora prima che nascesse il governo Renzi, di aver convinto il pluri-riluttante commissario Ue, Olli Rehn, ad accettare la sua proposta di “riforme in cambio di più tempo per risanare i bilanci”, che prevede una maggiore flessibilità rispetto alla rigida applicazione delle regole su deficit e debito in cambio di interventi strutturali da definire preventivamente con la Commissione e da realizzare prima che Bruxelles conceda più tempo. Anche perché “molte delle riforme hanno anche effetti positivi sul bilancio, e quindi c’è connessione tra le due cose”, aggiunge con saggia prudenza Dijsselbloem.

Quindi, non solo i paesi debbono dimostrare il loro reale impegno riformatore, ma negoziare le riforme in sede comunitaria in modo puntuale. Il che, da un lato, significa ulteriore perdita di sovranità, ma dall’altro comporta due grandi vantaggi. Primo: vincolare il buon fine delle riforme, riducendo il margine di frenata delle opposizioni parlamentari e delle opinioni pubbliche. Secondo: togliersi di dosso il basto dei parametri europei, creandosi così maggiori margini di azione.

Musica per le orecchie di Renzi, se solo ascolta. Il quale farà dunque bene a cogliere al volo l’aspetto positivo del messaggio del 47enne ministro olandese, tenendone conto nel programma di governo che si accinge a formulare. E siccome quella è la questione delle questioni, per Renzi diventa la quadratura del cerchio. Lo schema di Dijsselbloem, infatti, gli consente di negoziare con l’Europa, senza pericolose forzature, e portare a casa quei margini di manovra che i suoi due ultimi predecessori non avevano nemmeno osato immaginare di poter trattare. Nello stesso tempo, si assicura la possibilità di mettere in cantiere alcune riforme vere, avendo l’onere di doverle pre-definire ma il vantaggio di “blindarle”. E infine, si guadagna margini di manovra per il rilancio dell’economia, che potrà spendersi in termini di riduzione delle tasse (cuneo fiscale e Irap) e/o di investimenti in conto capitale. Cosa di cui ha estremo bisogno, Renzi, visto che anche gli ultimi dati congiunturali relativi all’industria dimostrano la ripresa è di là da venire.

Insomma, c’è solo una via mediana tra l’obbedienza cieca ai dettami europei (di fatto espressi in lingua tedesca) e la ribellione, che presuppone una credibilità che l’Italia non ha. Ed è proprio quella intelligentemente e coraggiosamente indicata dall’olandese dal nome impronunciabile. Uno schema, questo, che tra l’altro l’uomo prescelto per l’Economia è perfettamente in grado di capire, apprezzare e far proprio. Ma che potrebbe anche essere direttamente palazzo Chigi ad applicare, decidendo il programma di riforme, negoziandolo in sede Ue e poi tenendo la tabella di marcia della sua attuazione.

Cosa cambierebbe? Per esempio, in questo quadro, la spending review può essere riformulata, come è bene che sia, da lavoro di “spulcio delle voci di spesa” al ben più proficuo “risultato delle riforme”, dove il taglio dei costi è obiettivo succedaneo. Un conto è cambiare il sistema sanitario, ricavandone “anche” un vantaggio economico, e altro è individuare sprechi – ammesso e non concesso che ci si riesca – con l’unico obiettivo di ridurre i costi, e dunque lasciando il sistema così com’è. Ed è solo uno dei tanti esempi di quelle riforme che Dijsselbloem individua come la “merce di scambio” con l’Europa.

Il nostro baldanzoso presidente prossimo alla fiducia farà propria e percorrerà la “via Dijsselbloem”? Speriamo che lui e i suoi consiglieri, finora in altre faccende affaccendati, abbiano il tempo di accorgersene e studiarla. Perché altrimenti, la miccia di questo governo si rivelerà particolarmente corta.

I big fuori dal bonus ricerca

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Il bonus ricerca esclude le imprese con un fatturato superiore a 500 milioni di euro. La conversione in legge del decreto «Destinazione Italia» porta con sé questa novità in tema di credito d’imposta per Ricerca & Sviluppo. Un emendamento in fase di conversione ha infatti inserito un requisito dimensionale per l’accesso all’agevolazione, andando a escludere le imprese con un fatturato superiore a 500 milioni di euro. A prima vista sembrerebbe una norma a solo danno delle grandi imprese, ma potrebbe rivelarsi un’amara sorpresa anche per le imprese che potranno invece accedere al beneficio. Infatti, con l’introduzione di questo requisito il bonus ricerca sembra diventare selettivo, non applicandosi più indistintamente a tutte le imprese, e dovrebbe quindi diventare automaticamente un aiuto di stato. Questo si tradurrebbe in un ritardo nell’applicazione vista l’eventualità di una notifica dell’aiuto in sede europea oltre a generare problemi di cumulabilità con altri aiuti che al contrario non sarebbero esistiti.

Luca Goldoni: Italia senza freni a disco né a tamburo

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Ha raccontato con decine di libri (più di tre milioni di copie vendute) e racconta ancora con i giornali con cui collabora, i tic, le ossessioni, i vizi degli Italiani. Eppure Luca Goldoni, classe 1928 anche se pare un ragazzino, parmense, scrittore e giornalista, ammette di guardare a questa fase politica con una punta di sconcerto: «Ormai mi aspetto che Fabio Fazio annunzi sul palco dell’Ariston qualche comunicazione sulle consultazioni o che ci sia una coda dello streaming con Matteo Renzi e Beppe Grillo».
Domanda. A proposito di Grillo. In molti dicono che il duello con Renzi l’abbia vinto.
Risposta. Io su Grillo mi sono fatto una certa idea.
D. Ce la dica, allora.
R. Lui era sceso in politica, qualche anno fa, al tempo dei vaffa-day, convinto di raccogliere un po’ di consenso, diciamo un drappellone di persone, ma non di trovarsi sommerso, quasi annegato da uno tsnunami di voti.
D. Dice che ne è rimasto spiazzato?
R. Massì, mi ricorda una cosa che ho fatto da ragazzo quando, con un gruppo di amici, decidemmo di costruire un galeone di quelli in scatola, ha presente?
D. Certo, quelli in tanti pezzi in miniatura….
R. Bellissimo: c’erano le colubrine, le vetrate addirittura, c’erano le velature: noi, con pazienza, ci mettemmo lì, con la colla, a tirarlo su. Quando, dopo tre mesi, lo finimmo, risultò stupendo. Era magnifico, sarà stato un metro…
D. E che successe?
R. Che quando lo portammo in uno stagno, vicino casa, ci accorgemmo che andava a fondo, lo salvammo per un pelo. Non era stagno! Stava solo su una mensola. Ecco Grillo…
D. Grillo?
R. Grillo s’è accorto che quello che ha messo in piedi, che il suo galeone insomma non può galleggiare: lui non è preparato, i suoi deputati non lo sono. Intendo preparazione politica, finanziaria, economica. E il giocattolo non funziona. E allora ha deciso di romper tutto.
D. C’è anche Gianroberto Caseleggio però, non è solo… R. Sì, certo. Quando penso a lui mi viene in mente l’Unione sovietica. D. In che senso?
R. Nel senso che nei suoi rari discorsi, si sente aleggiare questa idea che si possa forgiare l’uomo nuovo, come si voleva fare in Urss. E, quando ci penso, non posso far a meno di ricordare un episodio curioso che, se vuole, le racconto…
D. Siamo qui per questo…
R. Ecco, era il 1961, il primo viaggio che feci là. Ero su un taxi quando, improvvisamente, cominciò a piovere. Il tassista allora fermò subito la macchina, scese, aprì il bagagliaio, ne trasse due tergicristalli e li andò rapidamente a posizionare. Quando si rimise alla guida, non potei frenare la curiosità…
D. E che cosa chiese?
R. C’era l’interprete con me e domandai perché non li lasciasse su, al loro posto…
D. Che risposta ebbe?
R. Che li rubavano. Capisce? Dopo decenni di comunismo, di educazione alla proprietà collettiva, quello era il risultato: rubavano le spazzole dei tergicristalli. Ecco, magari Casaleggio ci legge, se pensa di fare l’uomo nuovo, lo tenga a mente.
D. Anche da noi è così?
R. Certo, mica siamo immuni. L’altro ieri ero in ufficio da un persona che per mezz’ora mi ha intrattenuto sullo «schifo di questa Italia in cui tutti rubano». Poi, quando mi sono reso conto di aver lasciato il cellulare e di dover fare una telefonata, il mio ospite mi offerto il telefono d’ufficio.
D. E lei?
R. Ho declinato: gli ho detto che dovevo chiamare un tizio su un cellulare e e starci un bel po’ e che sarebbe stata una spesa. E lui sa cosa mi ha risposto?
D. Ce lo dica…
R. Di non preoccuparmi, che tutto sarebbe andato nel calderone delle spese di quell’azienda. Mi ha commosso: si comportava esattamente come quelli che censurava un attimo prima e non se ne stava accorgendo. Siamo un Paese così, senza freni a disco, né a tamburo.
D. Dunque, i grillini vogliono fare l’uomo nuovo e non capiscono di che pasta sia fatta l’umanità. Dall’altra parte c’è Renzi. Che ne pensa?
R. Renzi è un incendiario che s’è dovuto mettere a fare il pompiere, nel senso che lì, durante lo streaming, se non avesse avuto la necessità di mantere un contegno, come presidente incaricato, gli avrebbe risposto per le rime. E avrebbe vinto, per ché è più acuto.
D. La convince, come personaggio politico?
R. È fra quelli che non mi dispiace, l’ammetto. Credo nella sua candida e incasinata ingenuità, che cozza contro la realtà, contro le burocrazie.
D. Sarà una delle sue battaglie, sembra, quella contro le burocrazie.
R. E fa bene. È uno dei mali di questo Paese. In Italia si blocca tutto: se si fa una buona legge, stia sicuro che i burocrati riusciranno a impantanare i decreti attuativi.
D. Che cosa la indigna oggi?
R. Che malgrado la crisi ci sia chi continua a rubare. Non passa giorno che ne abbiamo notizia. Se la cavano patteggiando. Invece credo che farlo oggi, in queste condizioni, sia un aggravante. Un po’ come rubare fra le macerie dopo un terremoto: in alcuni Paesi applicano la legge marziale, li passano per le armi subito.
D. Ce la faremo, Goldoni?
R. Siamo sempre stai un popolo così: anche nei momenti peggiori, abbiamo saputo tirar fuori qualche risorsa, siamo riusciti ad avere qualche scatto. Abbiamo avuto vent’anni di berlusconismo, inteso come furbizia, come «ma perché pagare le tasse? Che ti frega?». È stato un virus che s’è insinuato e siamo diventati più cinici. Ce la faremo? Chissà.

Lo salutiamo chiedendogli di Sanremo, con cui aveva iniziato la chicchierata. «Un esempio del Paese senza freni che le dicevo prima», s’arrabbia, «altrove sarebbe durato, due, tre, poniamo quattro giorni. Da noi, ci siamo dentro da settimane. Con mia moglie a volte guardavamo l’Italia in diretta: ci sono fatti di costume, a volte è interessante. Niente: c’è il Festival. Han sequestrato tutto».

Il 69% degli italiani non crede nel parlamento

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Dall’impasse sulla legge elettorale a quella politica. Sembra che il parlamento non sia più in grado di fare. Di conseguenza, Matteo Renzi, forte del consenso delle primarie e dei suoi 1milione e 639mila voti (non i tre milioni di affluenza e tutt’altro che una piena legittimazione democratica) decide di saltare completamente il passaggio parlamentare di una crisi di governo e anche quello delle urne per imprimere la sua guida, il suo marchio e la sua energia. Per molti, Renzi rappresenta la vera scossa di cui avrebbe bisogno il Paese.Tuttavia questo ennesimo passaggio anomalo apre alcuni interrogativi e alcune preoccupazioni profonde. Nell’avvicendamento a Palazzo Chigi è mancato completamente il ruolo del Parlamento. La principale istituzione democratica esce indebolita nella sua credibilità dopo essere già stata fortemente colpita (quantomeno secondo l’opinione pubblica) a seguito delle liti e dei toni da saloon di poche settimane fa. Il calo di fiducia verso le istituzioni democratiche porta anche alla delegittimazione delle stesse, infatti, secondo il 69% degli italiani il Parlamento «non è più credibile come istituzione» (dati dell’Osservatorio Lorien del 10 febbraio). L’uso ripetuto di soluzioni composte da accordi extra-parlamentari e estranei alla verifica democratica delle urne provocano un profondo senso di impotenza politica nei cittadini. Da un lato gli elettori fanno sempre più fatica a considerare influente o determinante l’espressione della propria volontà attraverso il voto, la socializzazione politica ad opera dei partiti è venuta meno da tempo e l’appartenenza non definisce più le identità moderne. Dall’altro lato, i livelli incredibili di corruzione e gli scandali continui fanno vacillare sempre più la quota di fiducia che i cittadini sono ancora disposti a concedere al sistema politico e istituzionale. Nel rapporto tra rappresentanza e rappresentati si è ormai rotto il meccanismo della legittimità; non è un semplice caso di studio l’esplodere del fenomeno elettorale del M5s, dei movimenti di protesta antieuropeisti e anche del cosiddetto “movimento dei forconi” di cui ci siamo in fretta dimenticati. Non è semplice antipolitica, ma qualcosa di più profondo: siamo di fronte ad una crisi di legittimità democratica. Tralasciamo, per questa volta, il tema della lontananza estrema delle istituzioni europee e del significato distorto che assume ogni volta il voto per il rinnovo del Parlamento Europeo che esprimeremo a breve: è un altro aspetto dello stesso problema. Dov’è oggi il vero luogo delle decisioni? Non certo nel Parlamento e sempre meno nelle altre istituzioni democratiche. Dunque è anche un problema di governance. Sono sotto gli occhi di tutti le conseguenze della sfiducia dei cittadini verso la politica e le istituzioni democratiche: il calo della partecipazione si misura anche nel crollo drammatico dell’affluenza alle ultime elezioni amministrative. Gli ultimi esempi sono rappresentati dalle elezioni regionali in Sardegna (-15% rispetto alle scorse elezioni) e in Friuli che si mantengono appena sopra il 50% di affluenza. Questo trend ha caratterizzato nel tempo ogni tipo di elezioni e anche le ultime politiche hanno registrato il minimo storico. Senza il passaggio elettorale possiamo avere solo una rappresentazione virtuale dello stesso, i sondaggi, dunque, diventano l’unica misura possibile. Tuttavia l’uso spasmodico dei sondaggi diviene un semplice simulacro del consenso reale poiché lo scenario politico attuale è troppo poco definito per permettere una verifica numerica concreta. D’altronde, in caso contrario, il voto sarebbe un’ipotesi praticabile, ma tale per il momento pare non essere. Il susseguirsi di maggioranze difformi rispetto alle coalizioni presentate alle urne, di “governi tecnici”, di “governi di responsabilità”, di crisi di governo senza un voto di sfiducia e di soluzioni extra parlamentari per nuovi incarichi di governo destabilizza ulteriormente la situazione. Come può la volontà popolare incidere su questi passaggi? Essa appare troppo spesso frustrata e inespressa e sono gli stessi cittadini ad indicarlo chiaramente. Tutto ciò non per dare addosso a Renzi o per unirsi al coro dei detrattori, anzi, augurando un buon lavoro al nuovo presidente del consiglio il  warning di Lorien Consulting vuole portare all’attenzione del dibattito i rischi e le conseguenze profonde delle scelte fatte e del clima politico-sociale. Attenzione al senso di impotenza che vivono i cittadini: il progressivo allontanamento dai centri delle decisioni porta con se un crescente senso di rabbia e di frustrazione pronto anche ad esplodere improvvisamente o violentemente.Attenzione anche al rischio di svuotamento delle fondamenta del processo democratico. *a.d. di Lorien Consulting.

Secondo Friedman, il più andreottiano è D’Alema

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Non ci posso credere. Dicono che Matteo Renzi, per comporre la squadra di governo, abbia incontrato in gran segreto anche Massimo D’Alema. Ma sarà vero? Se lo fosse, sarebbe la prova provata che Renzi è un bugiardo incallito, uno che dice una cosa e poi ne fa un’altra, perfino più bugiardo di Silvio Berlusconi, che a volte – a furia di ripeterle – dà l’impressione di credere davvero alle proprie bugie. Nel libro di Alan Friedman, le cui vendite – secondo la pubblicità – aumentano di 50 mila copie al giorno (anche qui: verità o bugia?), Renzi aveva giurato che si sarebbe impegnato allo spasimo per ammazzare il Gattopardo, simbolo della vecchia politica italiana, quella sempre pronta a cambiare tutto affinché nulla cambi. E sapete chi è il politico italiano  che, nel libro, viene indicato come il vero Gattopardo di oggi? Se pensate a Berlusconi, siete fuori strada. Per Friedman, il Gattopardo da fare fuori è Massimo D’Alema, indicato come il peggio del peggio sulla scena politica degli ultimi venti anni. È lui il vero conservatore che si è sempre opposto alle grandi riforme di cui l’Italia ha bisogno, sostiene Friedman. È lui, un comunista mai pentito, che, più di tutti, ha ostacolato i governi e i premier (compresi quelli di sinistra) che volevano cambiare qualcosa per arginare la spesa pubblica e fermare la corsa dell’Italia verso il baratro. È lui che ha impedito l’elezione di un «vero riformatore» come Romano Prodi al Quirinale. È lui il vero Gattopardo che ha sempre  fatto finta di appoggiare qualche riforma, in realtà per sabotarla meglio, e conservare le pessime leggi di spesa partorite dall’inciucio catto-comunista degli anni Ottanta. Per questo, Friedman arriva a definire D’Alema il vero erede di Giulio Andreotti, che del catto-comunismo è stato l’artefice. Un’offesa mortale, per uno come D’Alema, da sempre così orgoglioso della propria identità di sinistra. Il capitolo che Friedman gli dedica nel libro è uno spasso. Si intitola «Lo spumante di D’Alema», ed è il racconto di una visita dell’autore al casale con vigna in Umbria, dove l’ex premier Pd produce uno spumante rosé, di cui dice faville: «È inserito tra i 320 migliori del mondo, ed è entrato addirittura in classifica nel suo primo anno di produzione». Dai 16 ettari della sua vigna, D’Alema ricava «la ragguardevole cifra» di 35 mila bottiglie di spumante: «Se l’azienda andrà bene, forse farò un po’ di soldi». Completato il giro dell’azienda, dopo avere ammirato una pianta di giuggiolo che costa 15 mila euro e un ulivo secolare che ne costa 1.500, Friedman annota: «Mi colpisce che a casa D’Alema si monetizza tutto». E dal colore passa alle domande politiche, incontrando però un muro di gomma su tutta la linea. Friedman chiede se la Cgil con il 54 per cento dei tesserati pensionati non debba essere considerata una forza conservatrice. E D’Alema? «Non risponde. Ignora la domanda. Glissa. Si mette a recitare la storia d’Italia dal 1861». Non va meglio  quando gli chiede se è vero che, nel 1998,  fu un errore da parte sua prendere il posto di Prodi a Palazzo Chigi. D’Alema diventa «una tigre infuriata». Volano parole grosse: «Menzogna! Complotto! Odio!». In quell’istante, annota l’autore, «D’Alema mi appare come una specie di Belzebù Bis, un Andreotti redivivus, un Andreotti reincarnato nel corpo di un vignaiolo in Umbria. Il vero erede di Andreotti è Massimo D’Alema». Ancora: «A questi politici di vecchio stampo puoi fare qualsiasi domanda. Non arrossiscono mai. Si agitano raramente. Sorridono sempre. Ma riescono a parlare così a lungo eppure a dire così poco, che alla fine ti chiedi cos’hanno detto, perché del loro discorso non si ricorda nulla. Sono sfuggenti i politici come D’Alema. Come Andreotti». L’intervista va avanti ancora per una decina di pagine, le domande toccano punti precisi, come la riforma federalista fatta dal centrosinistra che consegnò alle Regioni gli stessi poteri dello Stato su questioni strategiche per l’economia, come l’energia. D’Alema ammette che si è trattato di un errore, che ha creato «un danno gigantesco», e anche se lui era primo ministro – nota Friedman – «riesce a mettere le mani avanti», a scaricare su altri la responsabilità di quell’errore. E così avviene su altri punti, con acrobazie dialettiche che Friedman si diverte a raccontare. Per non danneggiare le vendite del libro,  ci fermiamo qui. Chi vuole proseguire in questa divertente lettura può farlo spendendo 18 euro, il prezzo del volume. Facciamo però uno strappo solo per il finale del capitolo, davvero imperdibile. Finita la chiacchierata, D’Alema accompagna l’ospite all’uscita e gli rivolge un complimento che lo prende un po’ in contropiede: «La leggo sull’Herald Tribune ogni giorno, e spesso sono d’accordo con quello che scrive. E io non so cosa dire. Devo informare D’Alema che non scrivo per l’International Herald Tribune da circa dieci anni, dal 2003? No. Mi limito a un semplice ‘Grazie, tanto’ e sorrido, saluto, salgo in macchina e parto».Ecco, se davvero Matteo Renzi ha consultato anche D’Alema per comporre la squadra del nuovo governo, non riesco a immaginare quale possa essere la reazione di Friedman, che l’aveva designato come l’unico politico in grado di ammazzare il Gattopardo.

Gli avvocati scuotono il Palazzo. Sciopero dal 22 al 27 marzo. Marino (Oua); disobbedienza civile

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Oltre 10 mila avvocati capitanati dall’Oua scuotono il Palazzo e la politica (dalla rinata Forza Italia al Partito Democratico) che accorre a Piazza Montecitorio per offrire sostegno alle istanze delle toghe contro i costi della giustizia e il taglio di mille tribunali alla base di quella che definiscono la «rottamazione della giustizia». È la prima buona notizia incassata dalla categoria nella sua lunga giornata di mobilitazione: prima davanti alla Camera dei deputati con tanto di stand e striscioni e poi tutti a piazza della Repubblica in corteo fino a piazza Santi Apostoli pronti a sfilare a suon di fischi e cori. L’Organismo unitario dell’avvocatura italiana dice così «no alla giustizia a pagamento, no all’aumento del contributo unificato e persino delle marche da bollo per iscrivere una causa a ruolo, no all’aumento dei costi per i ricorsi in Appello e Cassazione, no alla motivazione a pagamento e alle multe per lite temeraria introdotti dal ddl delega sul processo civile di cui si chiede il ritiro». I cappi al collo degli avvocati campani con le maschere di Anonimous – il giustiziere buono contro il Governo fantoccio del film V per vendetta – insieme ai cartelli del tipo «Sono avvocato e ho fame», si sono guadagnati la scena di una marcia iniziata con la lista delle proteste e delle proposte al Governo e che si concluderà con l’adesione di decine di ordini e sigle. Presenti l’Associazione nazionale forense, i giovani dell’Aiga, i magistrati onorari della Federmot e loro, gli ordini professionali, in gran parte del sud Italia, determinati a denunciare da Napoli a Sulmona tutte le conseguenze del taglio di mille uffici giudiziari.

E lo sciopero riprenderà dal 17 al 22 marzo. Marino (Oua): risposte concrete o sarà disobbedienza civile

E la protesta non è finita, perché l’organismo unitario dell’avvocatura ha confermato lo stato di agitazione, avviando una ‘campagna di disobbedienza civile’ e annunciando che “in assenza di riscontri concreti da parte del governo e del parlamento, a partire dal ritiro del ddl delega sul processo civile” torneranno in sciopero dal 17 al 22 marzo prossimi. “Non ci fermeremo” dichiara il presidente dell’Oua, Nicola Marino. “Se non ci saranno risposte concrete alle proposte avanzate ieri con il grande corteo di Roma avvieremo una campagna di disobbedienza civile nei tribunali: smetteremo di supplire lo Stato, così  da mettere in evidenza le enormi inefficenze della macchina giudiziaria e il ruolo silenzioso e fondamentale degli avvocati. Non eserciteremo la difesa d’ufficio e il gratuito patrocinio”.
Insomma, conclude Marino, “senza il ritiro del dll delega sul processo civile e senza un interlocuzione seria con avvocati negli uffici legislativi e nei consigli giudiziari, sarà di nuovo astensione a marzo”.

Giavazzi al governo: cuneo fiscale giù con i tagli ai sussidi alle imprese

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Un paio di anni fa ha presentato un rapporto sugli incentivi alle imprese che proponeva di tagliare dieci miliardi su 30 e destinare quei risparmi per ridurre il cuneo fiscale e contributivo che riduce la competitività del sistema produttivo. E ora che al governo sta per andare il segretario del Pd Matteo Renzi, Francesco Giavazzi, economista, ne approfitta per rispolverare i risultati di quel lavoro lasciato nel cassetto da Mario Monti e poi da Enrico Letta. Con un commento pubblicato dal Corriere della sera, Giavazzi sottolinea che per “ridare competitività alle imprese”, la leva principale da manovrare “è una riduzione immediata e consistente del cuneo fiscale, finanziata con una combinazione di tagli di spese (immediate e future) e, se necessario, con imposte meno dannose delle tasse sul lavoro” (ma Giavazzi sul capitolo fiscale si mantiene nel vago). L’economista, in particolare, sottolinea che per “portare gli oneri sociali a carico delle imprese al livello tedesco bisogna ridurli di 23 miliardi”. E aggiunge appunto che di questa cifra  “9-10 miliardi si possono reperire tagliando i sussidi alle imprese: 4 miliardi il primo anno, altri 5-6 nei due successivi”. Anche dai costi della politica, da ridurre di “un miliardo, o due”, possono e devono arrivare i fondi necessari per restituire competitività al sistema produttivo. Mentre altri 8 miliardi potranno essere risparmiati, prosegue Giavazzi, con la spending review messa a punto dal commissario Carlo Cottarelli, che ritiene possibile raggiungere questo obiettivo già nel 2014. Una ricetta, quella suggerita da Giavazzi, che sarebbe già allo studio degli uomini del premier incaricato, Matteo Renzi.  Lo staff del presidente del consiglio che verrà, secondo le prime anticipazioni, sarebbe pronto a mettere sul taglio del cuneo fiscale altri otto miliardi attraverso un aumento delle detrazioni sul lavoro dipendente concentrato sui redditi bassi (con il maggior beneficio, 450 euro l’anno, per chi guadagna 15.000 euro) e una riduzione dell’Irap pari al 10%. Una misura finanziata per il 50% almeno con i risparmi individuati da Cottarelli, 3-4 miliardi nel 2014 e poi destinati a salire fino ai 32 miliardi del 2016. In particolare, si pensa di sfoltire le 30.133 partecipazioni della pubblica amministrazione in circa 7.400 società e soprattutto di incidere sulle 2.032 società partecipate dagli enti locali che sono in rosso per un totale di 2,2 miliardi.

Esplode pozzo gas e muore operaio: la Chevron si scusa con un buono pizza

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Qualche giorno fa è scoppiato l’ennesimo pozzo da fracking, della Chevron, in Pennsylvania. Le fiamme sono rimaste ad ardere incontrollate per ben cinque giorni ed un lavoratore ha perso la vita.
A causa dell’incendio e del fumo che si è sparso nella zona, molte famiglie di Bobtown hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni e la Chevron ha pensato di ‘alleggerire’ la loro situazione offrendo un buono pizza.
“Siamo molto dispiaciuti per l’incidente e per il grave danno arrecato ai nostri ‘vicini’ e all’ambiente (…) In allegato, un buono per un menu pizza + bibita gigante”.
Non tutti hanno giudicato il gesto di buon gusto e la lettera, finita subito sui social network, sta suscitando numerosi commenti negativi e ironici.

Disoccupata trova buono fruttifero del ’75 da 1 mln di lire: ora vale 120mila €

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Una donna, rovistando in vecchie carte a casa della madre, trova un buono fruttifero postale del 1975 di un milione di lire che, secondo le stime fatte, ora dovrebbe valere circa 120mila euro.
Come riporta il Gazzettino, a raccontare la storia della felice scoperta è la protagonista, Rita Locatelli, quarantenne, laureata in Lettere, insegnante precaria al momento disoccupata, madre di quattro bambini.

La donna, originaria di Bergamo, ma residente con la famiglia a Rovigo, dopo il ritrovamento si è rivolta all’Associazione per la Giustizia italiana, specializzata nella riscossione di vecchi titoli.