27 Settembre 2024, venerdì
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Cartolina di leva per gli ultraortodossi

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Il Comitato speciale della Knesset per l’“equa ripartizione del carico militare” ha presentato un progetto di legge per la coscrizione semi-universale degli ebrei-ultraortodossi in Israele. Questo prevede l’arruolamento obbligatorio di tutti i giovani haredi oltre i diciassette anni a partire dal 2017.

La questione è all’ordine del giorno sia per ragioni demografiche che economiche, ma si presenta controversa per le spaccature che ha ingenerato tra i partiti presenti nella coalizione di governo.

Haredim in crescita
Il problema demografico scaturisce dal fatto che da esigua minoranza i giovani ebrei ultraortodossi costituiscono il 14% delle potenziali leve e che, secondo previsioni demografiche dell’Ufficio centrale di statistica (Cbs) e del Taub Centre, nell’arco di trent’anni il 78% (attualmente il 48%) dei bambini iscritti nelle scuole primarie dell’obbligo apparterranno ai due gruppi esonerati dalla leva – gli haredim e gli arabi – ponendo allo Stato ebraico un doppio carico finanziario e di difesa.

Entrambe le minoranze, inoltre, presentano tassi bassissimi di partecipazione alla forza-lavoro, un altro punto critico per il nuovo governo che ha imposto misure d’austerità che prevedono anche tagli agli ingenti sussidi finora devoluti alle famiglie haredi con molti figli in cui entrambi i genitori non lavorano (i padri perché impegnati nello studio della Bibbia e le donne perché casalinghe).

La coscrizione militare avrà carattere semi-universale, perché tra il 5% e il 10% degli haredim rimarranno comunque esentati dal servizio militare in quanto studenti eccellenti delle yeshivot, ovvero delle scuole religiose dove da millenni gli ebrei coltivano e tramandano uno studio approfondito della Torah e del Talmud, cioè degli scritti esegetici che l’accompagnano.

Tale esenzione va incontro non soltanto alle richieste delle varie comunità ultraortodosse e dei tre partiti – non al governo – che le rappresentano (United Torah Judaism, Shas e Agudat Israel), ma anche all’invito alla moderazione, alla condivisione del progetto di legge e alla graduale implementazione della stessa, formulato da vari partiti presenti nell’attuale coalizione di governo, quali ha-Tnuah e il Likud, contrari a una sua attuazione immediata, come, invece, auspicato dai partiti governativi più oltranzisti come Yesh Atid, ha-Bayit ha-yehudi e Israel Beitenu.

Spaccatura politica
La spaccatura politica corre, infatti, tra i partiti “di governo”, tradizionalmente accomodanti con le lobby ultraortodosse, e quelli “emergenti”, entrati alla Knesset nell’ultima tornata elettorale, che rappresentano un elettorato più giovane e combattivo: la stesura della legge è stata infatti possibile grazie all’assenza nell’attuale governo dei partiti ultraortodossi e dalla presenza di Yesh Atid (C’è futuro, sionisti laici) e ha-Bayit ha-Yehudi (La casa ebraica, partito dei sionisti religiosi e dei coloni), che sulla battaglia per la coscrizione universale si erano aggiudicati le elezioni.

I due partiti (sionisti laici e religiosi) si sono infatti presentati compatti su questo tema, senza tuttavia trovare un accordo sulle sanzioni da applicare agli ultra-ortodossi renitenti alla leva. Yesh Atid sosteneva la loro “penalizzazione” e ha-Bayit ha-yehudi propendeva piuttosto per sanzioni economiche, come un taglio drastico dei sussidi.

A trionfare è stata alla fine la posizione più oltranzista di Yesh Atid, che ha stipulato l’entrata in vigore a partire dal 2017 di pene carcerarie fino a due anni di reclusione per i giovani haredi eventualmente inadempienti. La decisione ha già provocato una levata di scudi nella comunità ultraortodossa, che l’ha definita “un’eterna disgrazia” (Mevaser, quotidiano afferente all’Agudat Israel) e una “guerra dichiarata da Nethanyau, Lapid e Bennet agli studenti della Torah” (Mispacha, quotidiano haredi moderato).

Compromesso al ribasso
Che, dunque, Israele sia sull’orlo di una rivoluzione sociologica interna? Molti osservatori israeliani ne dubitano fortemente e, anzi, giudicano l’attuale disegno di legge non all’altezza delle aspettative che ha suscitato nella classe media. Numerose sono, infatti, le voci che si sono levate contro la bozza, tra cui alcune eminenti, come quella di Stern e Ben Bassat, professori dell’Israeli democracy institute e di editorialisti dei principali giornali (Jerusalem Post e Ha’aretz) che hanno ritenuto la proposta insufficiente.

In particolare, è stato sottolineato come l’entrata in vigore a tre anni di distanza possa invalidare il progetto di legge, dal momento che nel frattempo potrebbero essere indette nuove elezioni e si potrebbe venire a creare una nuova maggioranza alla Knesset, inclusiva dei partiti ultraortodossi che ne ribalterebbe lo spirito e il risultato.

Inoltre il fatto che per gli haredim venga previsto un obbligo di leva più breve che per i laici e i cittadini ordinari (due anni invece che tre) e che tutta l’attuale generazione in età da leva ne sia esclusa (la legge non ha carattere retroattivo e entrerà in vigore solo nel 2017) fa pensare a un negoziato politico al ribasso con i partiti religiosi rimasti fuori dalla Knesset, piuttosto che ad una legge veramente volta a promuovere l’uguaglianza.

Infine la riserva principale riguarda la totale assenza di incentivi positivi (ad esempio, economici) affinché i giovani haredim modifichino il loro stile di vita e si preparino ad accogliere il servizio militare e gli obblighi di una vita lavorativa attiva, lasciando presagire che tale disegno di legge, senza alcuna copertura finanziaria e senza nessun ammortizzatore sociale per la riconversione lavorativa di circa 50mila giovani haredi in età di leva, aprirà la strada a una crisi sociale senza precedenti, tale da indebolire ulteriormente, invece che rafforzare, la coesione nazionale.

La non riforma della difesa

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La legge sul personale militare, approvata a gennaio dal Parlamento per attuare la riforma varata nel 2012, non migliora la capacità operativa delle Forze Armate, e quindi la disponibilità dello strumento militare per la politica estera e di difesa dell’Italia.

Fatta la legge…
La legge di riforma dello strumento militare approvata nel 2012 aveva una ratio ben precisa: ridurre le spese in personale e infrastrutture non essenziali per la capacità operativa delle Forze Armate, visti i continui tagli al bilancio della difesa, al fine di concentrare i pochi fondi a disposizione sulle necessità di addestramento e manutenzione – i costi di “esercizio” – di equipaggiamenti, ricerca e sviluppo tecnologico. Insomma, razionalizzare e snellire per essere efficaci ed efficienti.

L’obiettivo era passare da una situazione per cui nel 2013 il 66% del bilancio viene assorbito dagli stipendi, il 25% dagli investimenti, e solo il 9% dall’ esercizio al modello virtuoso di ripartizione dei fondi per la difesa adottato da altri Paesi europei: 50% per il personale, 25% per gli investimenti, 25% per l’esercizio.

A tal fine, la legge del 2012 prevedeva numeri ben precisi: entro il 2024, 33 mila militari e 10mila dipendenti civili del Ministero della Difesa in meno, e una contrazione complessiva del 30% delle strutture territoriali anche tramite soppressioni e accorpamenti.

Non solo, ma il taglio al personale doveva concentrarsi su ufficiali e sotto-ufficiali, per mantenere una base composta da soldati giovani impiegabile in operazioni militari. Infatti, non si tratta solo di efficienza dello strumento militare, ma di sopravvivenza della stessa capacità operativa delle Forze Armate, ovvero della possibilità per l’Italia di condurre o partecipare a missioni funzionali alla propria politica estera e di difesa e, in ultima analisi, alla protezione e promozione degli interessi nazionali.

…manca l’attuazione
Spirito e lettera della legge del 2012 erano chiari, come era chiaro che la legge avrebbe comportato per il personale militare e civile della difesa misure dolorose, ma necessarie per un interesse generale – il mantenimento dell’operatività delle Forze Armate.

L’ultimo decreto legislativo, approvato dal Parlamento il 28 gennaio 2014, doveva dare attuazione concreta alla legge di riforma, indicando dove, come e quando effettuare i tagli al personale del Ministero della Difesa. L’incipit della legge va in questa direzione, indicando il numero di unità che le singole Forze Armate dovranno avere entro il 2024, numero che rispecchia il taglio deciso nel 2012 tramite una riduzione di organico di 13.400 unità per l’Esercito, 8.575 per l’Aeronautica e 4.325 per la Marina, con obiettivi precisi quanto a diminuzione di ufficiali e sotto-ufficiali.

Ma il diavolo è nei dettagli. Il problema infatti è il modo indicato dalla legge per arrivare a questa futura composizione del personale militare. La prima versione del testo prevedeva sostanzialmente due strade: l’estensione del collocamento dell’Aspettativa per Riduzione Quadri (Arq) per il personale non più indispensabile, ed il trasferimento di quadri ad altre pubbliche amministrazioni che potessero impiegarli – quali forze di polizia, ministeri della giustizia e degli interni, enti locali, ecc.

La prima opzione è stata duramente criticata durante l’iter del decreto, sia per la pressione del personale interessato sia per la preoccupazione che questa decisione sembrasse contraddittoria rispetto alla generale spinta ad aumentare l’età pensionabile, ed è stata quindi sostanzialmente cancellata. Ciò comporterà tra l’altro che diversi uffici non potranno essere chiusi o accorpati, e quindi continueranno a costare allo stato in termini di spese di funzionamento (affitto, utenze, manutenzione, ecc).

La seconda opzione, il trasferimento ad altre amministrazioni, è stata di fatto completamente affossata durante l’iter parlamentare, stravolgendo così la ratio dell’intera legge. Infatti, quello che doveva essere un trasferimento imposto d’ufficio – a parità ovviamente di qualifica e trattamento economico – è stato reso impossibile da un semplice cavillo: il “previo consenso dell’interessato” al trasferimento medesimo.

Consenso che ha scarsissime possibilità di essere espresso poiché, a livello individuale, comporta il rimettersi in gioco cambiando ufficio, compiti, superiori e forse anche città dove si lavora. Poiché lo stato non si è assunto la responsabilità di imporre la decisione del trasferimento nel nome dell’interesse generale, e il singolo individuo legittimamente fa il suo interesse particolare, molto probabilmente i trasferimenti saranno, bene che vada, qualche migliaia.

Danno per l’Italia
Se i dipendenti del Ministero della Difesa non possono essere pre-pensionati in maniera significativa – come fatto in altri enti pubblici o aziende partecipate dallo stato – e non possono essere trasferiti in altre pubbliche amministrazioni, rimarranno al loro posto. Ciò vuol dire che si bloccherà sostanzialmente l’intera catena di promozioni fino al volontario in servizio permanente.

A sua volta, ciò rallenterà fortemente – quasi bloccandoli – i reclutamenti di nuovi volontari, penalizzando ulteriormente i giovani. La legge del 2014 non fornisce numeri al riguardo, lasciando ad un decreto annuale del Ministero della Difesa la quantificazione di promozioni e reclutamenti, ma la tendenza è chiara: la piramide del personale del Ministero della Difesa assomiglierà sempre di più ad un trapezio, tendente al quadrato, come in altri enti statali e locali in cui il numero di dirigenti quasi eguaglia quello dei dipendenti.

Se ciò è di per sé costoso, inefficiente e controproducente in qualsiasi pubblica amministrazione, nelle Forze Armate è particolarmente pericoloso. Infatti, oltre una certa età non si può rimanere quindici giorni in trincea a Bala Murghab a rispondere al fuoco dei Talebani, né si può pilotare un jet supersonico come l’Eurofighter.

Ovviamente le Forze Armate già da ora sono organizzate in modo da spostare gradualmente il personale meno giovane da ruoli operativi a compiti di addestramento, logistica, amministrazione, procurement e manutenzione di equipaggiamenti. Tuttavia, tale organizzazione può funzionare solo con una composizione del personale che mantenga un certo equilibrio anagrafico e nel rapporto numerico tra ufficiali, sotto-ufficiali e volontari, affinché il grosso delle forze sia impiegabile sul campo.

Considerando che per dispiegare stabilmente 12.500 militari all’estero – il livello di ambizione mantenuto dall’Italia fino a poco tempo fa – ce ne vogliono tendenzialmente 50mila, perché per ogni brigata dispiegata per sei mesi in teatro operativo ce n’è una in addestramento pre-missione, una a risposo essendo appena tornata dalle operazioni, più le forze tenute pronte all’uso nell’ambito degli impegni Nato (Response Force) e Ue (Battle Groups) e per rispondere ad eventuali emergenze, il danno creato dallo squilibrio anagrafico e gerarchico sarà molto forte.

Ciò costituisce il sovvertimento della ratio della riforma del 2012 e un danno per l’Italia: la perdita di un importante strumento di politica estera e di difesa quale la disponibilità di Forze Armate efficaci e operative – che tra l’altro sono impiegate anche per assistere la popolazione italiana in caso di disastri naturali, come il terremoto dell’Aquila nel 2009 – ma continuando a sostenerne i costi.

Se è vero che il diavolo è nei dettagli, questa legge puzza di zolfo.

La nuova diplomazia economica che passa da Roma

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Da quando è stato firmato l’accordo ad interim sul nucleare, delegazioni diplomatiche e imprenditoriali di tutto il mondo si sono affollate a Teheran. Negli Stati Uniti hanno destato particolare attenzione le missioni provenienti dai tradizionali partner europei della Repubblica Islamica – come Germania e Italia – sullo sfondo della relativa distensione determinata dall’avanzamento del processo negoziale lo scorso novembre.

Italia in prima linea
In un contesto di crescente competizione per le risorse del pianeta, l’Iran, ricco di materie prime, offre potenzialmente numerose opportunità di guadagno e investimento. Il paese dispone di una consistente classe media e di uno dei pochi mercati ancora isolati dall’economia mondiale.

Roma è stata fra le prime in Europa a riallacciare i contatti con Teheran. L’obiettivo è di preparare il campo a una rinnovata cooperazione in settori che vanno dall’industria all’energia, dall’archeologia al turismo.

Dal canto suo, il presidente iraniano Hassan Rohani ha definito l’Italia come “la via di accesso all’Europa”. Più in generale, il vecchio continente è un elemento chiave della offensiva carismatica di Teheran, finalizzata alla normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale.

L’obiettivo dell’attuale dirigenza iraniana è di convincere l’Occidente che lo sviluppo di armi nucleari non rientra nella strategia di sicurezza della Repubblica islamica. Quest’ultima punterebbe invece a un approccio costruttivo con il resto del mondo, attraverso il rafforzamento delle relazioni energetiche, industriali e commerciali. È questo messaggio che Rohani ha portato al World Economic Forum di Davos.

Apertura business-oriented
Con l’intensificarsi delle sanzioni, l’Iran aveva adottato un’economia di “resistenza” di impronta autarchica e finalizzata a ridurre la dipendenza del paese dagli introiti petroliferi. Questa strategia era stata ufficializzata dalla Guida Suprema Ali Khamenei che aveva proclamato il 2011 “anno del jihad economico” e il 2012 “anno della produzione nazionale”.

Malgrado le sofferenze causate dalle sanzioni alla società iraniana (ulteriormente aggravate da alcune scelte errate dell’amministrazione Ahmadinejad), il processo di riconversione economica era stato portato avanti con relativo successo. Lo conferma il fatto che nel 2012 le esportazioni non petrolifere avevano coperto il 60% delle importazioni.

Tuttavia, dopo i problemi evidenziati dalla gestione centralistica di Ahmadinejad, l’elezione di Rohani ha segnato l’ascesa al potere di una classe politica più favorevole all’imprenditoria privata e all’integrazione con l’economia mondiale.

Tale classe ritiene che, in un contesto di globalizzazione economica, la strategia autarchica non sia sufficiente ad assicurare al paese lo sviluppo e la ricchezza necessari a garantirgli un posto di rilievo nel consesso internazionale. È questa convinzione – e non il presunto imminente crollo dell’economia del paese, come molti hanno pensato in Occidente – ad aver contribuito a portare Teheran al tavolo negoziale.

Crescita e affari
Dopo che il Pil iraniano si è contratto dell’1,9% nel 2012, e dell’1,5% nel 2013, il Fondo monetario internazionale prevede nuove espansioni nei prossimi due anni, con un tasso di crescita dell’1,3% nel 2014 e di quasi il 2% nel 2015.

La temporanea sospensione di alcune sanzioni marginali, garantita dall’accordo negoziale di novembre, favorirà solo moderatamente la crescita economica dell’Iran. Tuttavia la definitiva rimozione delle sanzioni americane ed europee darebbe un impulso enorme allo sviluppo del paese, viste le sue considerevoli potenzialità.

La strategia dell’amministrazione Rohani si prefigge perciò di creare le premesse per una generale perdita di consenso nei confronti dell’impianto sanzionatorio promosso dagli Stati Uniti.

Incognite sul negoziato nucleare
I dirigenti iraniani sono consapevoli del fatto che giungere a un accordo definitivo sul nucleare sarà molto difficile, soprattutto qualora gli Stati Uniti insistano per lo smantellamento di una porzione consistente delle installazioni. Un’eventualità del genere è infatti considerata inaccettabile. Inoltre, anche qualora si trovasse un’intesa, il sistema di sanzioni americane è talmente stratificato e complesso che la loro abrogazione richiederà anni.

A giudicare dall’afflusso di uomini d’affari a Teheran, la diplomazia economica iraniana si sta rivelando efficace, ma i suoi frutti sono ancora di là da venire. Allo stato attuale, l’Iran continua a essere tagliato fuori dal sistema finanziario internazionale. L’accordo ad interim fornisce ossigeno all’economia del paese per un valore stimato non superiore ai 7 miliardi di dollari e per appena sei mesi.

Nel caso in cui lo sforzo di giungere a un accordo nucleare definitivo dovesse fallire, a Teheran probabilmente avrebbero di nuovo il sopravvento i sostenitori di un’economia di “resistenza”. Ciò in attesa che il consolidarsi di un mondo multipolare, scalzando gli Usa dal centro economico e finanziario mondiale, renda di fatto ininfluenti le sanzioni americane.

Molti a Teheran sono convinti che questo momento non sia troppo lontano. Nel frattempo però, i rischi regionali di un fallimento dell’accordo nucleare sarebbero estremamente elevati.

LinkedIn lancia una versione (soft) in cinese

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LinkedIn ha lanciato una versione in lingua cinese con l’obiettivo di sedurre la prima popolazione di internauti al mondo. Il gigante del networking, con più di 270 milioni di membri in tutto il mondo, non fa mistero da tempo di voler catturare l’interesse degli utenti cinesi, ma fino a oggi non aveva mai messo a punto una versione in mandarino. D’altra parte, per le reti sociali straniere, la Cina rimane in gran parte inesplorata: la censura piuttosto sofisticata messa a punto dalle autorità locali ha sempre vietato qualsiasi contenuto sensibile sui forum di discussione, e social network come Facebook o Twitter sono bloccati da anni. E così, per riuscire a raggiungere gli utenti cinesi, LinkedIn ha dovuto sottostare ad alcune regole piuttosto rigide: di fatto, ad esempio, la sua versione cinese non permette di creare gruppi di discussione.

Feltri: per il momento quelle di Renzi sono solo parole

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Eccoci al Renzi I. Arriva il governo che suscita grandi speranze e altrettanto grandi livori. Un premier e un esecutivo attesi a molte rotture. Lo schema che potrebbe andare in frantumi è quello destra-sinistra: sembra il primo governo della storia che appare in grado di avere un consenso nel Paese fuori dai recinti ideologici soliti. Guidato da un leader di centrosinistra, financo un segretario di partito, potrebbe infatti piacere anche agli elettori di centrodestra. Sarà così? Vittorio Feltri, che a lungo è stato un campione dell’Italia moderata, dandole voce, a volte strillandola, coi giornali che ha diretto, può essere un test affidabile. Quando ci risponde al telefono, Renzi parla ancora all’emiciclo di Palazzo Madama.
Domanda. Direttore, siamo dunque arrivati a Renzi al governo. Che gliene pare?
Risposta. Questo signore ha molto successo perché usa un linguaggio nuovo rispetto agli stilemi, ai canoni del politico tradizionale. Ignora il politichese classico. Usa un altro lessico, diverso, alla portata, e questo è già motivo di attenzione da parte del pubblico. Induce nelle persone un senso di confidenza maggiore rispetto ai predecessori.
D. Un ribaltamento della comunicazione politica, in effetti.
R. È questa è una grande nota di merito. Però è evidente che non bastano le parole: servono, e sono importanti, a catturare consenso, a far capire gente quel che vuoi fare. Dopo di ché rimane il problema di sempre…
D. Vale a dire?
R. Sarà capace, Renzi, di essere coerente con quello che ha detto? Se no, si ritrova rapidamente nella palude di cui lui stesso ha parlato.
D. Ché le difficoltà non mancano…
R. Certo. Non basta avere un programma, un’idea, perché devi sottostare comunque ai regolamenti, ai riti e alle liturgie di una politica mai svecchiata nella sostanza, dalla fondazione, dall’Unità di Italia.
D. Scontiamo vizi antichi cioè…
R. Massì, se andiamo a rileggere ciò che accadeva prima del fascismo, nell’Italia giolittiana, rimaniamo stupiti di dover trovare le stesse parole, le stesse difficoltà. Perché siamo, da sempre, un Paese di legulei, di adoratori della norma. Non è vero che prima si fa la legge e poi si trova l’inganno: è vero il contrario! Spesso l’inganno è insito nella legge. Mai nessuna riforma, fatta in questo Paese, è stata all’altezza: di solito è stata peggiore del buco da rattoppare.
D. Renzi parrebbe averlo capito, visto che una delle riforme che ha messo in agenda e della quale parla spesso, anche oggi al Senato (ieri per chi legge, ndr), è quello delle burocrazie…
R. Resto convinto che Renzi debba fare i conti innanzitutto col proprio partito, col Pd, che mi pare lo stia osservando. Poi si dovrà misurare con tutti gli altri partiti e col potere ostativo tipico delle coalizioni, dove i veti incrociati sono all’ordine del giorno. Quindi ci sarà la fase esecutiva delle riforme, dove appunto il sistema della dirigenza pubblica sarà decisivo, perché sono i burocrati che scrivono materialmente le leggi e spesso le fanno non applicabili ma interpretabili. Persino Benito Mussolini ha introdotto il sistema dittatoriale per superare le pastoie che frapponevano alla sua volontà riformatrice.
D. Non mi pareva avere una vocazione democratica, peraltro. Un altro cavaliere, Silvio Berlusconi, s’è sempre lamentato del potere dei burocrati. Famosa l’espressione della macchina che «gli remava contro»…
R. Guardi B. aveva un’aggravante…
D. E cioè?
R. Che mentre cercava di fare, delegava. Pensi che delegò a Giulio Tremonti la realizzazione della Rivoluzione liberale. Affidare una cosa del genere a un socialista è una contraddizione in termini.
D. Beh, certo Tremonti fu un dei Reviglio boys (da Franco Reviglio, ministro socialista delle Finanze, ndr).
R. Appunto. No, B. è stato bravissimo nel catturare il consenso, nei discorsi, nella vendita. Un gran venditore. Peccato che non avesse il prodotto. Insomma non ha mai avuto la vocazione del governante e non ha mai governato. Qualche legge ad personam e, nemmeno andata a buon fine…
D. A guardare dai risultati, dice?
R. Dico. No, B. non sapeva manco farsi i cazzi propri, mi scusi, figurarsi se sapeva fare i nostri.
D. Ma torniamo a Renzi, direttore.
R. Torniamoci. Sul punto delle burocrazia sono curioso di vedere come farà. Così come vorrei vedere dove andrà a prendere le risorse per le cose che ha promesso…
D. Oggi ha parlato di un piano straordinario sulla scuola, anche edilizio, da realizzare da giugno a settembre, e per il quale rimuovere il Patto di stabilità. “Partiamo dalla scuola”, ha detto…
R. Sì, sulla scuola ci han provato tutti: ma è dal 1960 che non si fa altro che peggiorare. Da quando introducemmo la scuola media unica. Lo ricordo bene perché allora, facevo parte della commissione che studiò la cosa per il Partito socialista. Eravamo convinti che fosse una riforma necessaria ma è stata una boiata che ha abbassato il livello del sistema. Così ora abbiamo un sistema scolastico gentiliano ma peggiorato. Uguale ma in peggio.
D. Renzi ne ha parlato spesso, in passato. Un tema da Leopolda…
R. È una scuola diventata ricettacolo di gente poco capace, anche perché mal pagata, per cui i migliori fanno altro. Tutta l’istruzione registra uno scollamento con la vita reale e produttiva, col mondo del lavoro.
D. Anche l’università?
R. Beh, certo. Schifata dall’industria perché convinta che l’accademia sia superiore alle banalità della produzione. Lo vediamo dai nostri laureati…
D. Feltri, ma quali sono i nemici veri di Renzi, oggi?
R. Sono quelli che vogliono mantenere lo status quo, che non hanno nessuna voglia di sperimentare e sono tutti impauriti da questo giovanotto che, è vero, si presenta con una punta di bullismo, o che è avvertito come tale, e suscita diffidenza persino nei suoi stessi compagni di partito.
D. Gli diamo un voto?
R. Purtroppo non possono giudicarlo che dalle parole. Almeno il primo trimestre, lo valuteremo solo dalle intenzioni, più che dagli atti, quindi sospendo il voto.
D. Nemmeno sui ministri? Gian Antonio Stella ha scritto che questo incarico «è un impegno che farebbe tremare i polsi anche a un governo di statisti e fuoriclasse». Come dire che l’esecutivo è di tutt’altra pasta…
R. Stella ha ragione, per carità. Però sarebbe stato meglio fare gli esempio, doveva dire: ha scelto Tizio per questo ministero e invece andava meglio Caio. E così del programma, non basta dire non va.
D. B. annuncia un’opposizione ragionevole…
R. Posizione di buon senso. Quasi banale, però. Se uno mi propone di guadagnare un milioni di euro, anche se è di sinistra prima di dire no, sto a vedere.

Marchi, Harmont & Blaine vince la battaglia cinese

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Harmont & Blaine vince la “battaglia cinese”. Il dipartimento di appello dell’Ufficio brevetti cinese ha emesso una decisione favorevole, e ormai inappellabile, per cui entro pochi giorni la concessione dei diritti sul marchio internazionale Harmont & Blaine sarà definitivamente assegnata alla società, che ora potrà nuovamente commercializzare in Cina i propri capi di abbigliamento con lo stesso marchio utilizzato nel resto del mondo. Il celebre bassotto, logo di Harmont & Blaine, era infatti stato oggetto di usurpazione e, nel febbraio 2012, in accordo con il distributore locale, il gruppo si era ritrovato nella condizione di dover chiudere le proprie 12 boutique presenti in Cina, da Shanghai a Beijing, da Shenzhen a Guangzhou, da Hangzhou a Tianjin. Presente in Cina dal 2004, con la prima boutique inaugurata presso il mall La Perle di Canton, dopo otto anni di investimenti per consolidare la posizione del brand e guadagnare quote di mercato, a Harmont & Blaine fu imposto di ritirarsi dal mercato con le conseguenti ripercussioni sul volume d’affari e sulla revisione dei progetti di espansione nel Far East. Il dipartimento di appello dell’Ufficio brevetti ha accolto integralmente il ricorso di Harmont & Blaine, garantendo la totale copertura del marchio per le classi merceologiche 3, 9, 14, 18 e 25 oggetto del ricorso da parte della società. “Tale sentenza”, ha commentato l’a.d. di Harmont & Blaine Domenico Menniti, “mette la parola fine a dieci anni di liti giudiziarie, ci ripaga delle sofferenze patite e ci induce a riprendere un percorso interessante nell’area della Great China. Abbiamo già ripreso i contatti con il nostro partner ed entro la fine del 2015 contiamo di ritornare almeno al livello del 2012, con l’apertura di 12 nuove boutique. L’area della Grande Cina potrà arrivare a rappresentare il 12-15% del fatturato del gruppo”, ha concluso Menniti.

Le imprese familiari (medio-grandi) continuano a dare lavoro

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La medio-grande impresa familiare resiste meglio alla crisi e continua a dare lavoro. E’ quanto emerge dalla quinta edizione dell’Osservatorio Aub su tutte le aziende familiari italiane con ricavi superiori a 50 milioni, promosso da AIdAF, UniCredit, Cattedra AIdAF-Alberto Falck di strategia delle aziende familiari dell’Università Bocconi e Camera di commercio di Milano. Alla fine del 2012 il 58% delle aziende medio-grandi era a controllo familiare, una percentuale in leggera crescita rispetto al 57,4% dell’anno precedente. I dati hanno confermato che le aziende familiari hanno incrementato il numero dei dipendenti nel corso della lunga crisi: dal 2007 al 2012 l’occupazione è aumentata del 5,7%. A confermare la resilienza della forma proprietaria familiare, solo l’8,3% delle imprese familiari, nel lungo periodo di crisi, è stato interessato da discontinuità quali cessione del controllo, fusioni e liquidazioni. Dopo aver risposto meglio delle altre aziende ai primi segnali di ripresa nel biennio 2010-2011, le aziende familiari hanno registrato una contrazione dei ricavi superiore alla media nel difficilissimo 2012: -2,8% contro -1,3% ma il dato delle altre imprese è influenzato dalla crescita (+4,7%) delle aziende statali, che sembrano godere di una certa protezione dalla crisi. Non tutte le altre tipologie fanno meglio delle familiari: le multinazionali registrano infatti un -2,9% e le aziende controllate dal private equity -4,2%.

Parmalat, si dimette la maggiornaza dei membri del cda

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Si è dimessa la maggioranza dei consiglieri di amministrazione della Parmalat. L’intero cda cesserà quindi dalla carica alla prossima assemblea di bilancio che dovrà pertanto procedere alla nomina del nuovo board. In apertura della odierna riunione, Gabriella Chersicla, Francesco Gatti, Yvon Guerin, Marco Jesi, Daniel Jaouen, Marco Reboa, Antonio Sala, Franco Tatò e Riccardo Zingales hanno comunicato le proprie dimissioni dal consiglio con effetto dall’approvazione del bilancio 2013. “Diamo le dimissioni”, si legge nella lettera da loro firmata, “dopo che il decreto del Tribunale di Parma ha respinto la richiesta della Procura della Repubblica di revoca dell’intero cda. Convinti di aver agito sempre correttamente, assumiamo questa difficile decisione nell’esclusivo interesse della società al fine di consentirle di operare nuovamente in un clima sereno e costruttivo. Lasciamo un’azienda che nell’ultimo biennio, pur nel difficile frangente attraversato, ha realizzato, sotto la nostra gestione, i migliori risultati della sua storia (grazie anche al contributo più che positivo fornito da Lag in termini di risultato economico) con beneficio per tutti gli azionisti, che hanno visto il titolo apprezzarsi di circa il 39% nel corso del 2013”.

Giorgio Gori: io di sinistra da sempre. Di Berlusconi non condivido nulla

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“Sono della sinistra che sgobba e di Berlusconi non condivido nulla”. E’ questo in estrema sintesi il pensiero di Giorgio Gori, 53 anni, giornalista e imprenditore, fondatore, tra l’altro della casa di produzione televisiva Magnolia, ex direttore di Canale 5 e  e vincitore delle primarie del Pd per la corsa a sindaco di Bergamo, riportato in un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera.  Gori ha dichiarato che quelli di sinistra “sono i miei valori da sempre» e ha rivendicato con orgoglio l’importanza della sua vittoria in una competizione che non aveva “un esito scontato”. «No, non mi sembra che il risultato fosse proprio scontato all’inizio”, ha detto all’intervistatore che gli ricordava come fosse “facile vincere le primarie con solamente 2.765 votanti e senza veri avversari interni nel Pd.  “Nadia Ghisalberti e l’esperienza di Roberto Bruni sono una realtà consolidata, lo conferma un risultato più che onorevole. Il punto era verificare che il Partito democratico fosse motivato e compatto dietro la mia candidatura. E questo è avvenuto», ha risposto Gori. Che ha negato di avere mai accusato il segretario del Pd e ora presidente del consiglio incaricato e quasi (da questa sera, dopo il voto della camera) ) in carica Matteo Renzi di essere responsabile della sua sconfitta nelle parlamentarie del dicembre 2012.  «Io non ho attaccato Renzi, ero chiaramente poco soddisfatto di quel risultato e me ne assunsi la responsabilità”, ha replicato Gori: “ Dissi solo che se Matteo, un mese dopo le sue primarie, avesse detto qualcosa a sostegno dei suoi candidati sarebbe stato utile». Gori ha anche escluso di essere stato depennato da capolista all’assemblea nazionale del Pd dfallo stesso Renzi: «A me non risulta che Matteo mi abbia depennato. Io so di aver scelto di togliermi da quella lista per fare questa partita in città. Con Matteo ci sono tante affinità, c’è anche affetto e amicizia, quello che ho detto in quel momento può avere al limite destato qualche disappunto”. Il vincitore delle primarie a Bergamo ha poi rivelato di essere stato chiamato da Renzi, domenica”a tarda ora per le congratulazioni”. “Mi ha detto bravo, ma non do dettagli di una cosa privata. Punto”. Alle accuse di vivere in una villa da dieci milioni di euro e di essere espressione della sinistra chic mosse dalla Lega Nord bergamasca Gori ha risposto: «Ho fatto la tessera del Pd nel novembre 2011 e da subito mi sono messo a lavorare sulle cose della città. La decisione poi di fare questo passo è più recente, frutto di una riflessione lunga e complicata. E poi la la mia casa ha una rendita, un valore catastale di 273 mila euro, punto. E ho cominciato a lavorare a 17 anni. Non sono nato ricco. Sono della sinistra che si fa il mazzo, non della sinistra chic». Sui propri rapporti con Silvio Berluscon, che ha sostenuto di avere combinato il matroimonio dell’ex direttore di Canale 5, Gori ha detto:  “Non è vero. Si sa che Berlusconi le spara grosse. Me lo sono combinato da solo questo matrimonio, lui era il proprietario dell’azienda per la quale lavoravamo sia io che mia moglie. Non credo che questo gli dia la responsabilità oggettiva del mio matrimonio”. E ha aggiunto. Ho un debito di  riconoscenza con lui per la fiducia che ha avuto in me quando ho lavorato nella sua azienda. È uno che ha messo in mano a un ragazzo di 29 anni la responsabilità di tre reti televisive, ha fatto una cosa coraggiosa. Con la stessa chiarezza dico che non ho mai condiviso un grammo delle sue idee politiche».

Samsung-PayPal, via agli acquisti con le impronte digitali

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Gli utenti Samsung Galaxy S5 saranno i primi in grado di loggarsi e fare acquisti presso qualsiasi venditore accetti PayPal, tramite cellulare e nei negozi solo con la propria impronta digitale. E’ il frutto della collaborazione avviata da PayPal e Samsung. Grazie alla nuova tecnologia biometrica, gli utenti Galaxy S5 non avranno più bisogno di ricordare password o dati d’accesso per acquistare dai milioni di venditori che accettano PayPal. A partire dal mese di aprile, l’autenticazione delle impronte digitali PayPal sul Samsung Galaxy S5 sarà disponibile in 26 mercati a livello globale, tra cui Australia, Brasile, Hong Kong, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. PayPal è a oggi la prima società globale di pagamenti a supportare la su smartphone Samsung.