28 Settembre 2024, sabato
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Tornado Tsipras su Bruxelles

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Il Parlamento europeo dell’VIII legislatura sarà più polarizzato dell’attuale: i gruppi delle tre tradizionali maggiori famiglie politiche europee, liberali, popolari e socialisti, dovrebbero occupare i due terzi dei 751 seggi, mentre quasi tutto il terzo restante andrà a formazioni portatrici di visioni euro-critiche o euro-scettiche.

La corsa alla presidenza della Commissione europea, che vede in lizza candidati di ogni tendenza, personalizza il confronto e potrebbe contribuire a incoraggiare la partecipazione. E, in Italia, cresce il sostegno al leader greco di Syriza, Alexis Tsipras, sul cui nome convergono europeisti delusi ed euro-scettici responsabili.

In questi giorni, la campagna per le Europee del 22 e 25 maggio ha epicentro a Roma. Il congresso del Partito socialista europeo formalizza la candidatura alla presidenza della Commissione del presidente uscente del Parlamento europeo Martin Schulz, tedesco, e l’adesione del Pd al Pse. E c’è l’atto di nascita di Green Italia, costola italiana dei Verdi europei, che devono ancora designare il loro campione tra gli eurodeputati José Bové, francese, e Ska Keller, tedesca, selezionati con primarie online.

Il prossimo fine settimana, il Partito popolare europeo sceglierà il proprio candidato: quattro gli aspiranti alla ‘nomination’, il commissario europeo al Mercato interno Michel Barnier, francese, il premier lettone Valdis Dombrovskis, l’ex premier lussemburghese ed ex presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker e il premier finlandese Jyrki Katainen.

A quel punto, lo schieramento ai nastri di partenza sarà completo, perché i liberali hanno già scelto l’ex premier belga e leader federalista Guy Verhofstadt, mentre gli euro-scettici di destra, conservatori britannici o l’Alleanza coagulata intorno al Front National di Marine Le Pen, cui partecipa la Lega, non intendono presentare candidati.

La sorpresa del sorpasso socialista
Poll Watch 2014, un sondaggio voluto dal sito VoteWatch, in collaborazione con Burson-Marsteller e Europe Decides, vede i socialisti in testa (217 seggi contro i 208 attuali), seguiti dai popolari (200 seggi dai 265 attuali) nel nuovo Parlamento. A seguire, i non iscritti (92 seggi, in grandissima parte euro-scettici ), i liberali (70), la sinistra di Tsipras (56), i Verdi (44), i conservatori (42), gli attuali autonomisti (30).

L’Alleanza per la libertà otterrebbe 38 seggi: la soglia per formare un gruppo politico a Strasburgo è di almeno 25 eurodeputati provenienti da almeno sette Stati.

In Italia, il sondaggio indica il prevalere degli eletti S&D su quelli che fanno riferimento al Ppe: 22 contro 20 su 73 seggi. Ma, secondo Poll Watch 2014, ben 24 eurodeputati italiani vanno nella casella ‘non iscritti’: quelli del M5S, attualmente non rappresentato a Strasburgo. I sette restanti vengono dalla Lega e dalle altre formazioni politiche.

Ricetta contro il calo dell’affluenza
La corsa alla presidenza della Commissione e i dubbi sui rapporti di forza nel nuovo Parlamento sono potenziali antidoti contro un ennesimo calo dell’affluenza alle urne, che sarebbe per l’Unione una sconfitta peggiore di una larga affermazione di euro-critici ed euro-scettici.

Secondo una ricerca ufficiale, dal 1979 la partecipazione alle Europee nell’insieme degli Stati membri è diminuita di quasi 19 punti percentuali, passando dal 62% del 1979 al 43% del 2009. Escludendo i Paesi in cui vige l’obbligo di voto, nel 2009 le affluenze più elevate si sono registrate a Malta (78,8%), in Italia (65%) e in Danimarca (59,5%).

Ma l’Italia, che partiva da affluenze alle urne altissime, è anche fra i quattro Paesi che hanno visto il maggiore decremento della partecipazione, con Grecia, Cipro e Lituania. C’è da sperare che competizione e polemiche riportino pure un briciolo di passione.

L’‘altra Europa’ di Tsipras
‘L’altra Europa con Tsipras’ è il nome scelto online da oltre 7mila elettori italiani per la lista civica che sostiene la candidatura del leader di Syriza alla presidenza della Commissione europea. Portato alla ribalta dalle ultime contrastate elezioni politiche greche, che hanno fatto del suo partito Syriza la seconda forza politica del Paese, Alexis Tsipras è un volto nuovo sulla scena europea: 40 anni, una militanza comunista, è stato scelto come candidato della Sinistra unita al congresso di Madrid, nel dicembre scorso, con oltre l’84% dei consensi.

In Italia,‘L’altra Europa con Tsipras’ nasce da un appello lanciato da Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli e Guido Viale. Ora, la lista vaglia candidati e cerca firme per potersi presentare.

Con Tsipras, c’è pure Sinistra ecologia e libertà, sia pure con qualche distinguo: il congresso del partito punta su di lui, con una maggioranza dei due terzi, ma il presidente Nichi Vendola traccia una linea poco netta, ‘Con Tsipras, ma non contro Schulz’. E, nel partito, c’è chi preferisce il candidato socialista, forse perché c’è la consapevolezza che il leader greco può essere una bandiera, ma non può spuntarla.

L’incognita dei dibattiti televisivi
A dare una spinta alla campagna, potrebbe essere lo svolgimento di dibattiti televisivi fra i candidati alla presidenza della Commissione. Ma nessuno dei progetti finora abbozzati s’è per il momento concretizzato. Se il liberale Verhofstadt ha già accettato l’invito del Cime per un dibattito a Roma, in Campidoglio, il 25 marzo, nell’anniversario della firma nel 1957 dei Trattati istitutivi delle allora Comunità europee, i suoi antagonisti devono pronunciarsi.

Altre potenziali sedi di dibattiti fra i candidati dei maggiori partiti sono Atene e Maastricht. Ma l’ipotesi più forte è quella di un confronto a Bruxelles il 9 maggio, giorno della Festa dell’Europa. Con la speranza che le televisioni dei 28 non snobbino poi l’appuntamento. 

A Roma per uscire dal pantano libico

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A circa due anni e mezzo dalla Dichiarazione di Liberazione della Libia (23 ottobre 2011) questo paese appare sempre più nell’impasse: la tensione fra le varie forze rivoluzionarie e l’elite conservatrice – che si è rigenerata nel partito dell’Alleanza delle forze nazionali e ha preso le redini del governo con Ali Zeidan – si traduce in scontri e conflitti che impediscono alla Libia di andare verso una qualsiasi normalizzazione.

D’altra parte, sia le forze rivoluzionarie sia quelle conservatrici sono estremamente frammentate e diversificate, per cui la tensione centrale che attraversa il paese difficilmente può tradursi in uno scontro risolutivo come pure in un compromesso fra i due schieramenti a livello nazionale.

Assemblea costituente
La cronaca degli ultimi dieci giorni testimonia un acuirsi delle tensioni in Libia. Da una parte, quasi inosservate a livello internazionale, si sono svolte le elezioni della Commissione per la redazione della Costituzione che si sono palesate un fiasco: vi hanno partecipato circa 500 mila elettori su 3,4 milioni di aventi diritto. Dall’altra, le milizie della città di Zintan, vicine all’Alleanza delle forze nazionali, hanno intimato al Congresso nazionale generale di sciogliersi, accusandolo di inettitudine e di essere dominato dal partito del Fratelli Musulmani.

A fronte di questi sviluppi, le milizie di Misurata hanno annunciato un loro intervento in appoggio ai Fratelli e al Congresso. Mentre scriviamo, le milizie di Zintan sono accampate nei pressi dell’edificio del Congresso a Tripoli e con una sparatoria hanno persuaso i deputati a svuotare il Congresso.

La Commissione elettorale nazionale ha espresso l’intenzione di tenere un secondo round per l’elezione della Commissione costituzionale, ma si tratterebbe di una mossa che potrebbe aggravare la situazione, poiché né la Commissione né il governo sono in grado di porre rimedio ai fattori che hanno portato al risultato elettorale che si è avuto. Questi fattori, d’altra parte, sono gli stessi che oggi portano a sviluppi come quello dell’ultimatum di Zintan al Congresso.

Il risultato delle elezioni per la Commissione destinata a redigere il progetto della Costituzione dice che, nel quadro della profonda evoluzione degli ultimi due anni, le forze politiche rivoluzionarie (l’autonomismo cirenaico, le città rivoluzionarie con le loro milizie, gli islamisti, ecc.) hanno boicottato le elezioni o commesso violenze onde impedirne lo svolgimento (gli islamisti radicali e le minoranze berbere, tabù e tuareg) perché hanno ormai cambiato agenda rispetto al percorso espresso dalla Dichiarazione costituzionale del lontano agosto 2011 e all’emendamento apportatole nell’aprile 2013.

Queste varie forze non credono più che il percorso costituzionale originario possa includere le loro rivendicazioni o renderle compatibili con quelle di altre forze , in particolare delle forze conservatrici oggi al governo. Di qui anche la richiesta, che viene ormai da più parti, di sciogliere le istituzioni che l’originario percorso costituzionale aveva configurato, a cominciare dal Congresso nazionale generale.

Frammentazione pericolosa
Si va verso uno scontro civile più largo? La frammentazione che perdura alla base di tanti tumultuosi rivolgimenti non sembra consentirlo. Ci troviamo di fronte a una turbolenza che potrebbe stabilizzarsi come tale e installare in mezzo al Nord Africa e fra l’Europa e l’Africa a sud del Sahara un complesso di micro conflitti e di instabilità permanente con relative tracimazioni.

Le diverse azioni intraprese sul piano bilaterale, multinazionale e internazionale nel tentativo di fare uscire la Libia dall’impasse in cui si trova non sembrano adatte alla bisogna oppure hanno tempi troppo lunghi per poter aver un impatto sul processo in corso.

Le politiche esterne sembrano seguire due criteri opposti: da un lato, appoggiano l’attuale governo centrale (per esempio, Usa, Francia, Regno Unito e Italia hanno iniziato ad addestrare fuori del territorio libico una forza militare di circa 15-20 mila uomini da porre al servizio del governo e metterlo in grado di mantenere l’ordine nel paese); dall’altro, puntano sulla razionalizzazione del confuso decentramento che di fatto regna nel paese onde risalire da questa razionalizzazione a una nuova seppur diversa unità nazionale (l’appoggio al – debolissimo – dialogo nazionale da parte della United Nations Support Mission in Libya, Unsimil, sostenuto in vario modo e misura da alcuni paesi).

In questo quadro non è chiaro a chi si rivolgano o possano concretamente rivolgersi i programmi di assistenza in tema di giustizia della transizione (la giurisdizione corrente; la soddisfazione e la conciliazione per le ingiustizie del passato; la legge nazionale sull’epurazione) che molti paesi stanno cercando di sostenere: occorre sostenere il governo centrale oppure lavorare a livello delle variegate comunità che oggi di fatto esistono in Libia?

Sostegno internazionale
Non è semplice decidere che cosa fare. Un modo di facilitare le cose potrebbe essere una maggiore strutturazione e coesione del sostegno internazionale, cioè un’organizzazione che vada ben oltre l’attuale gruppo degli Amici della Libia, forse una sorta di Gruppo di contatto permanente.

La conferenza degli Amici della Libia che si terrà a Roma il 6 marzo prossimo potrebbe essere un’occasione. Il punto centrale sta nel governo Zeidan, che tutti i paesi occidentali appoggiano senza considerare che esso è un governo conservatore che non è politicamente in grado di presentare al paese un programma di mediazione e compromesso e che, come che sia, non ha neppure provato a farlo: si esercita in inutili mediazioni spot senza avere un disegno strategico. Una maggiore e informata pressione sul questo governo da parte di un forte Gruppo di contatto internazionale potrebbe essere utile.

Russia in Crimea contro il diritto internazionale

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Di fronte alle titubanze dell’Occidente e alle reazioni per ora solo verbali, il presidente russo Vladimir Putin è prontamente passato all’azione occupando la Crimea, dopo essersi fatto autorizzare dal parlamento russo l’azione militare.

Autorizzazione di ampia portata, poiché non è limitata alla sola Crimea, ma all’intera Ucraina, il cui nuovo governo non è riconosciuto dal Cremlino che continua invece a ritenere il deposto Viktor Yanukovich il legittimo governante. Il che complica ancora di più la questione e la possibilità di arrivare in tempi brevi a una soluzione negoziata.

Sotto il profilo giuridico, l’invasione russa è una chiara violazione del diritto internazionale, della Carta delle Nazioni Unite e dei principi di base dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa che vietano la minaccia e l’uso della forza.

Rischio secessione
Le motivazioni accampate dalla Russia non reggono. È stato invocato il diritto d’intervenire a difesa dei propri connazionali che si trovano nelle basi russe in Crimea. Ma tale diritto, che un tempo era rivendicato solo dagli stati occidentali, non è stato esercitato nel caso concreto o è stato perseguito in modo abnorme. La dottrina dell’intervento a protezione dei cittadini all’estero prevede che si possa intervenire in territorio altrui quando i propri cittadini siano realmente in pericolo di vita e il sovrano territoriale non voglia o non possa difenderli. Una situazione non ricorrente in Crimea.

Inoltre, in tale tipo d’intervento si salvano i propri cittadini e si riportano in patria e l’azione militare non produce un’occupazione del territorio straniero. L’azione dei militari armati senza mostrine che hanno circondato le basi ucraine in Crimea era chiaramente imputabile alla Federazione russa e non dovuta a forze ribelli locali.

Né potrebbe essere invocata l’esimente del consenso delle autorità locali all’intervento. La Crimea non è uno stato, ma solo una provincia ucraina, sia pure dotata di ampia autonomia. Fu trasferita all’Ucraina nel 1954, un atto interno all’Unione Sovietica.

Quando l’Ucraina è diventata indipendente nel 1991, il suo territorio, come stato sovrano, comprendeva anche la Crimea, tanto è vero che la Russia ha negoziato e concluso, nel 1997, un accordo per lo stazionamento della flotta russa del Mar Nero. Quindi non si potrebbe neppure parlare di riappropriazione di un territorio appartenente alla Federazione russa, tesi che peraltro non è stata invocata.

Probabilmente si andrà verso la secessione della provincia e la costituzione di un nuovo stato, ma questo difficilmente otterrà il riconoscimento da parte della comunità internazionale, essendo la secessione fomentata dall’esterno e ottenuta con l’intervento di una potenza straniera in violazione delle più elementari regole del diritto internazionale. In questi casi il principio dell’integrità territoriale prevale.

Legittima difesa collettiva
L’Ucraina ha mobilitato le proprie forze armate. Essa ha diritto di esercitare la legittima difesa, come consentito dalla Carta delle Nazioni Unite, diritto che è connaturato all’esistenza stessa dello stato e che non richiede, per il suo esercizio, di essere autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Ben vengano le parole di moderazione come quelle espresse dal governo italiano, ma è assurdo non ricordare i diritti della vittima dell’aggressione e in particolare che questa può reagire con la forza armata, quantunque le forze in campo siano incommensurabili.

Alla vittima dell’attacco armato spetta non solo il diritto di legittima difesa individuale, ma anche quella collettiva: terzi stati possono intervenire a suo favore.

La Nato dispone di un meccanismo di legittima difesa collettiva a tutela dei propri membri, nel senso che se uno stato dell’alleanza è attaccato gli altri debbono intervenire a suo favore. Questo non è il caso dell’Ucraina, che non è membro della Nato.

Teoricamente però, la Nato, pur non essendovi obbligata, potrebbe intervenire a favore dell’Ucraina, con una missione decisa dal Consiglio atlantico. Teoricamente, poiché nessuno vuole morire per Kiev e infatti la Nato non è andata oltre la deplorazione dell’intervento russo e la sua stigmatizzazione come violazione del diritto internazionale.

Il Consiglio di sicurezza Onu (Cds) ha già tenuto, a porte chiuse, una riunione e il Segretario generale si è mobilitato. Le capacità d’intervento sono però limitate. La Russia è membro permanente del Consiglio e qualsiasi azione incisiva sarebbe paralizzata dal veto. Per questo motivo il Cds non potrebbe decretare delle sanzioni neppure nella forma blanda di una raccomandazione.

Quanto all’Unione Europea, non vale neppure la pena parlarne. Come dimostrano gli esempi passati, quando si tratta di passare all’azione militare i suoi membri procedono in ordine sparso. Almeno dovrebbe ribadire il diritto alla legittima difesa dell’aggredito!

Memorandum di Budapest
Il Memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994 è stato invocato con riferimento alla situazione ucraina, ma in termini errati. Il Memorandum fu concluso da Federazione Russa, Regno Unito, Stati Uniti e Ucraina quando l’Ucraina aderì al Trattato di non-proliferazione nucleare come stato non nucleare, dopo che l’arsenale atomico che stazionava nel suo territorio, ai tempi dell’Unione Sovietica, fu traferito alla Russia.

Il Memorandum di Budapest riguarda le garanzie di sicurezza negative e positive. I tre stati nucleari s’impegnano a non usare le armi nucleari nei confronti dell’Ucraina e, in caso di aggressione o minaccia di aggressione con armi nucleari, a portare immediatamente la questione dinanzi al Cds per ricevere adeguata assistenza. Vi è anche un obbligo di consultazione tra gli stati parti del memorandum, ma solo in caso di minaccia nucleare.

Non è il nostro caso. Però il Memorandum una rilevanza indiretta ce l’ha. Si pronuncia infatti per la conservazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina nell’ambito delle “frontiere esistenti”. Quindi viene riconosciuta, anche dalla Federazione Russa, l’appartenenza della Crimea all’Ucraina, di cui faceva parte nel 1994.

Non occorre una risoluzione del Cds per raccomandare o decidere sanzioni obbligatorie, quando uno stato si sia reso responsabile di violazioni gravi del diritto internazionale. Le sanzioni possono comprendere il congelamento delle risorse finanziarie, il divieto di import/export ed anche sanzioni individuali che includono il congelamento di beni e la limitazione dell’ingresso nei territori degli stati partecipanti.

Gli Stati Uniti si sono già mossi. Per l’Italia e l’Unione europea in genere una politica sanzionatoria solleva problemi politici ed economici di non poco momento. C’è da giurare che saranno avanzati dubbi sulla loro efficacia.

Eutanasia per i minori, il re del Belgio ha firmato la legge

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Il re Filippo del Belgio ha firmato la legge che autorizza l’eutanasia, in determinate condizioni (pazienti in fase terminale con sofferenze fisiche insopportabili, e con l’accordo dei genitori), anche ai minori ai quali uno psicologo abbia riconosciuto la capacità di discernimento. Il Belgio diventa così il primo paese ad autorizzare l’eutanasia senza limiti di età. In Olanda l’eutanasia è consentita ai minori dai 12 anni in su. Una petizione con 200 mila firme di cittadini europei era stata consegnata giovedì scorso al palazzo reale belga per chiedere a re Filippo di non firmare la legge.

I neonazisti al Parlamento Ue

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Mi raccomando, un’idea per volta, ma cucinata bene». Il direttore Pierluigi Magnaschi non si stanca di ripeterlo a chi scrive su ItaliaOggi. Un consiglio saggio, da giornalista esperto. Ma oggi ho tre idee di pezzo in testa, e vorrei cucinarle subito. Questo giornale, per fortuna, è una palestra di libertà, e, a differenza dei grillini, non mi aspetto alcun cartellino rosso. La prima idea è suggerita dalla sentenza con cui la Suprema corte tedesca (con cinque voti contro tre) ha bocciato lo sbarramento del 3% previsto finora dalla legge tedesca per le elezioni europee. Il risultato è che in Germania le consultazioni del 24-25 maggio si faranno con il proporzionale puro, dunque con una regola completamente diversa da quella che vige per le elezioni politiche, dove i partiti che non superano il 5% non possono entrare in Parlamento. L’anno scorso ne hanno fatto le spese i liberali, che, nella scorsa legislatura, erano alleati della signora Angela Merkel:  il loro flop (4,8%) ha obbligato la cancelliera a formare un governo di larghe intese con i socialdemocratici. Il primo effetto della sentenza è un via libera per l’ingresso nel Parlamento europeo non solo per i liberali, ma anche per altri partiti minori, come il partito euro-scettico Alternativa per la Germania (che alle politiche si era fermato poco al di sotto del 5%), il partito neonazista Npd e i Pirati. «La clausola di sbarramento viola il principio dell’eguaglianza del voto e della pari possibilità per i partiti» ha spiegato il presidente della Corte costituzionale tedesca dopo la sentenza. E non vi è chi non veda che si tratta di una motivazione a dir poco dirompente sul piano politico. Ora in Germania vige un doppio standard elettorale: soglia del 5 per cento per le politiche, e proporzionale puro le per le europee. Con una ricaduta duplice sull’Europa. Il prossimo Parlamento europeo, proprio a seguito di questa sentenza, potrebbe ospitare un maggior numero di piccoli partiti (quelli che da noi sono chiamati «cespugli»), vedere ridotto il peso dei due partiti maggiori (i popolari e i socialisti), con una inevitabile instabilità politica. Davvero qualcuno può pensare che la Germania accetterà di dare ascolto a chi chiede di conferire più poteri al Parlamento europeo, se questo sarà dominato dalla instabilità? Semmai, un Parlamento europeo instabile non farà altro che favorire, ancora di più, l’egemonia tedesca nella Ue. Non solo. A seguito della sentenza della Suprema corte tedesca avremo un Parlamento europeo eletto con lo stile di Arlecchino. Nei 28 Paesi dell’Unione europea, la soglia del 5 per cento vige in otto, in Italia è del 4 per cento dal 2009, mentre in tutti gli altri c’è il proporzionale puro. Se si applicasse all’intera Europa il principio illustrato dal presidente della Suprema corte tedesca, che si è improvvisamente scoperta contraria alle soglie di sbarramento, il Parlamento europeo sarebbe dichiarato illegittimo. La stessa sorte, ovviamente, toccherebbe all’Italicum, la nuova legge elettorale concordata da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi per fare fuori i piccoli partiti. Conclusione? Quanto alle norme elettorali, l’Europa unita non esiste, è solo un casino. La seconda idea di pezzo prende spunto dal discorso della signora Merkel al Parlamento inglese. In sintesi: «Vogliamo la Gran Bretagna in Europa, ma non a qualsiasi prezzo». In soldoni: il premier David Cameron si scordi la modifica dei Trattati europei, che ha chiesto per contrastare gli euroscettici inglesi, in forte crescita. Visto che gli inglesi sono fuori dell’euro, è evidente che la Merkel ha parlato così agli inglesi perché altri intendano. E gli altri sono i Paesi dell’eurozona che (Italia in testa) chiedono di rivedere il Fiscal Compact e altri trattati, compresi i due che ancora devono essere sottoscritti dal Parlamento europeo: quello sull’Unione bancaria e gli interventi nei casi di fallimento, più il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti. Prima di recarsi a Berlino per il rituale bacio della pantofola e tentare di rinegoziare il 3 per cento, Renzi si legga con attenzione il discorso della Merkel a Westminster. La risposta tedesca che lo aspetta è già lì dentro. La terza idea di pezzo si collega alla manovra monetaria della Cina, che sta pilotando una svalutazione della propria moneta, lo yuan, con il chiaro intento di compiere una classica svalutazione competitiva. L’economia cinese, dopo una lunga corsa, sta rallentando il ritmo di crescita, e la Banca centrale cinese ha deciso di correre ai ripari. La mossa ha colto di sorpresa un buon numero di Fondi d’investimento americani che puntavano su una rivalutazione dello yuan. Solo l’anno scorso le grandi banche Usa hanno emesso 350 miliardi di dollari di derivati che puntavano sulla rivalutazione della moneta cinese. L’inversione di rotta potrebbe costare cara a Wall Street, ma nessuno può rimproverare la Cina di condurre una svalutazione competitiva, perché le autorità monetarie cinesi stanno solo ripetendo ciò che hanno già fatto sia gli Usa che il Giappone quando hanno inondato il mercato di dollari e di yen. Quanto all’euro, quella cinese è un’altra lezione da mettere in conto: lo yuan viene svalutato in modo pilotato perché ha dietro di sé una vera Banca centrale, con pieni poteri, che adegua il cambio all’andamento dell’economia reale; l’euro invece continua ad essere una moneta forte contro natura, dannosamente forte mentre l’economia europea è in  crisi, e ciò si deve al fatto che dietro la moneta unica europea vi è una Banca centrale con  poteri dimezzati rispetto alle sue consorelle nel mondo, tanto che non può neppure tentare di pilotare un ribasso del cambio. In conclusione: comunque la si guardi (leggi elettorali, trattati, moneta unica), l’Europa si presenta come un’orchestra di suonatori anarchici, simile a quella di «Prova d’orchestra»,  un film profetico di Federico Fellini. Alcuni solisti saranno anche bravi, ma la musica è pessima.

Una patrimoniale dietro l’angolo

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I segnali sono inequivocavoli: dietro le quinte si sta lavorando ad un’imposta sui patrimoni. Gli italiani pagano già almeno due patrimoniali: l’Imu che colpisce gli immobili; l’imposta di bollo che si applica a conti correnti, titoli e assicurazioni. Le imposte sugli immobili sono la più importante fonte di entrate degli enti locali, quindi nei prossimi anni potranno solo aumentare. Ma è facile prevedere che alla prima emergenza finanziaria o appena ci sarà bisogno di risorse per qualche nobile causa, come la riduzione del cuneo fiscale, l’aliquota dell’imposta di bollo, attualmente allo 0,20%, sarà alzata, oppure si inventerà un prelievo straordinario sfruttando lo stesso meccanismo. Già portando l’aliquota allo 0,50% si incrementerebbe il gettito di più di 5 miliardi l’anno. Con un’imposta straordinaria del 2% l’erario incasserebbe poco meno di 40 miliardi. Mica male. Anche perchè si tratta di un’imposta semplice da applicare, impossibile da sfuggire (specie ora che sta per essere attivato lo scambio automatico di informazioni tra le amministrazioni finanziarie e creditizie di tutto il mondo) e politicamente molto gradita a sinistra. In questa direzione si sta facendo sempre più forte il pressing delle istituzioni finanziarie internazionali, che hanno grande influenza sulle scelte del nostro ministro dell’economia, Pier Carlo Padovan. Non è un caso se qualche settimana fa,  Jens Weidmann, capo della Bundesbank,  ha dichiarato che: “una tassa sui capitali corrisponderebbe al principio della responsabilità nazionale, in base al quale i contribuenti sono responsabili delle obbligazioni del proprio Paese prima che venga richiesta la solidarietà internazionale”.

Le reti di imprese: finalità economiche, evoluzione della normativa, rappresentanza, nuova fisionomia del contratto

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Le finalità economiche delle reti di imprese
Le reti di imprese sono forme di aggregazione di imprenditori attorno ad un progetto condiviso. Con il contratto di rete due o più imprese si obbligano ad esercitare in comune una o più attività economiche rientranti nei rispettivi oggetti sociali allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato (art. 3, co. 4-ter, DL n. 5/2009, conv. con L. n. 33/2009 e s.m.i.).
Il fine perseguito e la durata del contratto sono elementi chiave per distinguere le reti di imprese da altre forme aggregative quali i consorzi e le ATI (associazioni temporanee di imprese). Il consorzio è infatti il contratto con il quale due o più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese (art. 2602 c.c.), le associazioni temporanee di imprese sono invece aggregazioni cui le imprese ricorrono per partecipare a gare d’appalto e si caratterizzano per il conferimento collettivo di un mandato con rappresentanza all’impresa capogruppo. La differenza fondamentale tra queste forme di cooperazione imprenditoriale risiede nell’assenza, nell’associazione temporanea di imprese come nel consorzio, di un programma comune duraturo, non limitato al compimento di un affare specifico o alla disciplina comune di alcune determinate fasi della rispettiva attività di impresa.
Le reti di imprese permettono da un lato il mantenimento dell’indipendenza e dell’identità delle singole imprese partecipanti alla rete, dall’altro il miglioramento della dimensione necessaria per competere sui mercati globali. Si tratta, pertanto, di uno strumento adatto al tessuto imprenditoriale italiano, composto da micro, piccole e medie imprese molto efficaci ma spesso incapaci di competere in termini di innovazione ed internazionalizzazione con imprese più strutturate e di maggiori dimensioni. La vera caratteristica innovativa delle reti di impresa, la peculiarità che le differenzia in modo sostanziale dai consorzi, è tuttavia l’approccio graduale e scalabile che esse offrono alla controversa problematica dell’aggregazione tra imprese. Le reti di imprese, infatti, possono essere viste sia come una forma di aggregazione attorno ad un progetto, sia come uno strumento per avviare un processo di aggregazione che può sfociare in forme più strutturate quali contratti di rete più vincolanti e garantiti, nuove società dotate di personalità giuridica, oppure veri e propri processi di fusione aziendale. L’aggregazione classica attraverso fusioni e acquisizioni si è rivelata sino ad oggi difficoltosa, in quanto rimane forte la resistenza a cedere o condividere il controllo dell’impresa: la maggior parte degli imprenditori italiani propende per detenere l’intero capitale di una media impresa piuttosto che una percentuale del capitale di una grande impresa, pur sapendo che nel contesto competitivo attuale corre un grave rischio di “nanismo imprenditoriale”. Le reti di imprese propongono quindi un approccio graduale ad un inevitabile processo di concentrazione, nella speranza che la gradualità permetta di limare le differenze tra le visioni imprenditoriali, diminuire le distanze, superare le paure personali.
Questo approccio graduale può essere suddiviso in tre fasi distinte:
•in una prima fase viene creata una rete di imprese di tipo “leggero” che svolge un’attività probabilmente solo interna, ossia senza coinvolgere nell’operatività soggetti diversi dai retisti, non dispone di fondo comune e l’organo comune (se istituito) è composto dai retisti che periodicamente si ritrovano per prendere decisioni. In questa prima fase l’impegno dei retisti è limitato, è stato firmato un contratto con regole di comportamento specifiche davanti a un notaio, si è investito un capitale limitato, si è partecipato a delle riunioni e si sono svolte delle attività in comune sfruttando le rispettive strutture aziendali: un modo per perseguire un progetto comune e testarsi reciprocamente, senza compromettere la propria autonomia o investire ingenti capitali. Il rischio connesso alla responsabilità patrimoniale illimitata e solidale dei retisti è basso, dato che si svolgono solo attività interne alla rete;
•in una seconda fase, visto il successo dell’iniziativa, gli imprenditori aderenti possono decidere di espandere l’attività della rete, che da “leggera” diventa “pesante”, creando un fondo patrimoniale comune per sostenere maggiori investimenti, dotandosi di una struttura dedicata alla gestione del programma di rete. Se l’organo comune viene costituito e la rete svolge un’attività, anche commerciale, nei confronti di soggetti terzi, assumendo obbligazioni verso gli stessi per l’esecuzione del programma, la rete viene assoggettata ad un regime speciale che limita la responsabilità patrimoniale dei retisti;
•in una terza fase la rete aspira a siglare contratti ed assumere obbligazioni in proprio, ossia a diventare un autonomo centro di attribuzione di diritti e di obblighi, e richiede la soggettività giuridica iscrivendosi nella sezione ordinaria del Registro delle Imprese del luogo ove ha sede; l’organo comune non è più mandatario dei partecipanti alla rete bensì della rete stessa. Gli imprenditori ora sono nelle condizioni di svolgere attività esterna comune in modo efficiente e stabile, per esempio vendendo i prodotti progettati o realizzati insieme o svolgendo delle azioni commerciali o di marketing coordinate sui mercati esteri. Questa attività sarà svolta direttamente dalla rete a seguito della richiesta di soggettività giuridica e conseguente attribuzione di partita IVA.
Il risultato finale è comunque un’aggregazione stretta tra imprenditori, nata con un semplice contratto di rete finalizzato al miglioramento della reciproca capacità innovativa e della competitività sul mercato.
Evoluzione dei provvedimenti normativi sulle reti di imprese
La prima nozione di “rete” è stata introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 6-bis, co. 1 e 2, DL n. 112/2008 (conv. con L. n. 133/2008) ed era funzionale all’applicazione delle disposizioni in materia di “tassazione consolidata distrettuale” e di “tassazione concordata” di cui all’art. 1, commi da 366 a 371-ter, L. n. 266/2005.
Secondo questa originaria definizione, le reti erano “libere aggregazioni di singoli centri produttivi coesi nello sviluppo unitario di politiche industriali, anche al fine di migliorare la presenza nei mercati internazionali” finalizzate allo sviluppo del sistema industriale rafforzando “le misure organizzative, l’integrazione per filiera, lo scambio e la diffusione delle migliori tecnologie, lo sviluppo di servizi di sostegno e forme di collaborazione tra realtà produttive”.
Il successivo art. 3, commi 4-ter e 4-quater DL n. 5/2009 (conv. con L. n. 33/2009), modificato dall’art. 42, DL n. 78/2010 (conv. con L. n. 122/2010), ha introdotto nel nostro ordinamento la nozione di “contratto di rete”, ossia un contratto tra imprenditori stipulato allo scopo di “accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato”. La dottrina maggioritaria considerava il contratto di rete un nuovo tipo contrattuale, dotato di elevata flessibilità, rientrante nel novero dei “contratti plurilaterali con comunione di scopo” ma non in grado di dare origine a un ente ulteriore e diverso rispetto alle imprese partecipanti.
Tale tesi interpretativa deve essere rivista a seguito delle modifiche introdotte dai Decreti Sviluppo (DL n. 83/2012, convertito con L. n. 134/2012) e Sviluppo-bis (DL n. 179/2012, convertito con L. n. 221/2012) i quali, oltre a confermare la centralità del contratto di rete quale strumento di politica industriale per aumentare la competitività e la produttività delle PMI favorendo la ricerca, l’innovazione, l’internazionalizzazione e la crescita del sistema economico nazionale, hanno delineato con maggiore precisione il quadro complessivo della normativa sul “contratto di rete”, introducendo delle modifiche anche radicali.
I principali elementi di novità riguardano, da un lato, l’identificazione di reti “a regime speciale”, dall’altro il riconoscimento (a particolari condizioni) della soggettività giuridica.
Con l’individuazione di “reti a regime speciale” il legislatore dimostra la volontà di aumentare la già rilevante flessibilità dello strumento. Indipendentemente dall’acquisizione (facoltativa) di soggettività giuridica, infatti, si dispone un particolare regime per il contratto di rete che preveda:
1.l’istituzione di un fondo patrimoniale comune;
2.una sede e una denominazione;
3.l’istituzione di un organo comune;
4.lo svolgimento, da parte dell’organo comune, di un’attività, anche commerciale, con i terzi.
In presenza di tutti i predetti requisiti si prevede:
•un regime di autonomia patrimoniale: per le obbligazioni contratte dall’organo comune in relazione al programma di rete i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo comune “in ogni caso”;
•l’obbligo di redazione e deposito, entro due mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale, di un vero e proprio bilancio di esercizio, con riferimento al quale trovano applicazione le disposizioni relative al bilancio di S.p.A. (ove compatibili).
L’aspetto che merita tuttavia maggiore attenzione per le sue ricadute sull’istituto delle reti d’impresa è l’attribuzione (facoltativa e condizionata) di soggettività giuridica, funzionale:
•al definitivo superamento della qualificazione del contratto di rete quale contratto di scambio, consacrandone la natura associativa ( );
•alla maggiore riconoscibilità della rete soggetto, da parte dei terzi, quale autonomo soggetto di imputazione di diritti e obblighi;
•alla maggiore finanziabilità dei programmi sviluppati attraverso lo strumento del contratto di rete, non solo mediante il miglioramento del rating riconosciuto alle singole imprese partecipanti, ma anche aprendo alla possibilità giuridica di finanziare la rete in quanto tale.
Il riconoscimento di soggettività giuridica alla rete è, secondo la norma oggi vigente, facoltativa e condizionata all’iscrizione nella sezione ordinaria del Registro delle Imprese in cui ha sede. Ai fini di tale iscrizione sono necessarie:
•la costituzione di un fondo patrimoniale comune;
•la stipulazione del contratto per atto pubblico, scrittura privata autenticata o atto firmato digitalmente ai sensi dell’art. 25 D.Lgs. n. 82/2005 ( ).
Per meglio focalizzare cosa differenzia la rete priva di soggettività giuridica dalla rete dotata di soggettività giuridica può essere opportuno richiamare preliminarmente i concetti di personalità e soggettività giuridica.
La personalità giuridica è il più intenso e completo meccanismo di imputazione unitaria al gruppo degli effetti giuridici dell’attività comune e si applica solo alle associazioni riconosciute, alle fondazioni, alle società di capitali e alle cooperative.
Vi sono poi altre forme di soggettività dei gruppi, che possono essere definite intermedie perché da un lato non si riducono alla soggettività delle persone fisiche e dall’altro non assumono l’intensità e la completezza delle caratteristiche tipiche della personalità giuridica. Trattasi delle forme di soggettività collettiva che si applicano alle associazioni non riconosciute, alle società di persone, ai consorzi con attività esterna, ai GEIE (gruppi europei di interesse economico).
All’ente che sorge per effetto della stipulazione di un contratto di rete è in ogni caso da escludere che sia riconosciuta personalità giuridica. Lo stesso Governo italiano, come confermato dalla decisione della Commissione Europea del 26 gennaio 2011, relativa alla causa n. C(2010)8939 (in tema di riconoscimento della sospensione d’imposta per i fondi destinati al fondo patrimoniale comune), ha infatti affermato che la rete di imprese non avrebbe assunto “personalità giuridica autonoma”.
Il legislatore nazionale ha comunque ritenuto di attribuire alle reti di imprese la possibilità di acquisire soggettività giuridica, al fine di estendere la già ampia flessibilità dello strumento.
In questa sede può essere opportuno evidenziare che:
•non tutte le reti dotate di soggettività giuridica (reti soggetto) godono anche di autonoma responsabilità patrimoniale: questa caratteristica è infatti appannaggio delle “reti a regime speciale”; in altri termini, il regime di autonomia patrimoniale non è conseguenza diretta e necessaria della scelta di attribuzione della soggettività giuridica;
•solamente nelle reti soggetto, tuttavia, l’organo comune “agisce in rappresentanza” della rete in quanto tale: gli effetti giuridici degli atti compiuti dall’organo comune ricadono in capo alla rete e non in capo ai singoli retisti.
La rappresentanza della rete
Considerata la recente introduzione dello strumento e le numerose modifiche di cui è stato oggetto, emerge la necessità di definire con chiarezza il tema della rappresentanza della rete.
Come stabilito dal legislatore lo strumento rete è per sua natura molto flessibile; fin dall’introduzione dell’istituto, infatti, sono stati individuati due tipi di reti, le cosiddette reti leggere e le reti pesanti.
Per “reti leggere” si intendono quelle non dotate di fondo comune, mentre per “reti pesanti” si devono invece intendere quelle al contrario provviste di dotazione patrimoniale.
Secondo quanto stabilito dalla norma, le reti leggere non possono mai assumere soggettività giuridica mentre quelle pesanti possono facoltativamente assumerla qualora provvedano all’iscrizione nella sezione ordinaria del Registro delle Imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede dell’ente. Tale precisazione è stata ritenuta rilevante dal legislatore, considerato che ha rappresentato una riformulazione dell’art. 3, co. 4-quater, DL n. 5/2009 (conv. con L. n. 33/2009) e s.m.i., ad opera dell’art. 36, co. 4-bis, DL n. 179/2012 (conv. con L. n. 221/2012).
Il DL n. 179/2012 (conv. con L. n. 221/2012) prevede altresì che l’organo comune ( ) agisca “in rappresentanza della rete quando essa acquisti soggettività giuridica e, in assenza della soggettività, degli imprenditori, anche individuali, partecipanti al contratto, salvo che sia diversamente disposto nello stesso, nelle procedure di programmazione negoziata con le pubbliche Amministrazioni, nelle procedure inerenti ad interventi di garanzia per l’accesso al credito e in quelle inerenti allo sviluppo del sistema imprenditoriale nei processi di internazionalizzazione e di innovazione previsti dall’ordinamento, nonché nell’utilizzazione di strumenti di promozione e tutela dei prodotti e marchi di qualità o di cui sia adeguatamente garantita la genuinità della provenienza”.
L’organo comune, come elemento facoltativo nelle reti leggere o obbligatorio negli altri casi prima citati, agisce quindi come catalizzatore dei rapporti verso l’esterno, come unico interlocutore e soggetto aggregatore di riferimento; in tema di responsabilità verso i terzi si esprimerà diversamente a seconda che agisca in forza di un mandato con rappresentanza o senza rappresentanza.
Sono, a questo punto, opportune alcune considerazioni legate alla corretta imputazione delle obbligazioni contratte dalla rete e, di conseguenza, alla responsabilità che da queste scaturisce.
Nella rete dotata di soggettività giuridica, infatti, l’organo comune agisce nei confronti dei terzi spendendo il nome della rete, intesa come soggetto distinto dalle singole imprese partecipanti, impegnandone in tal modo la responsabilità. In tema di garanzia patrimoniale offerta ai terzi si avrà in primo luogo quella rappresentata dal fondo comune.
Nell’ambito invece delle reti contratto, i rapporti tra l’organo comune e le imprese partecipanti sono riconducibili, in prima istanza, alla figura del mandato con rappresentanza; di conseguenza gli atti posti in essere da parte del rappresentante della rete producono effetti giuridici direttamente in capo alle singole imprese rappresentate, con la conseguenza che delle obbligazioni così assunte rispondono tutti i singoli partecipanti alla rete, anche con i loro patrimoni personali, oltre che con il fondo comune. L’inciso normativo “salvo che sia diversamente disposto nello stesso” (contratto) consente di non conferire la rappresentanza all’organo comune, il quale quindi agirà senza spendere il nome dei mandanti, assumendo in nome proprio i diritti e gli obblighi derivanti dagli atti compiuti, con la possibilità di imputarli ai singoli retisti.
Solo le reti a regime speciale potranno godere della limitazione per le obbligazioni assunte dall’organo comune in relazione al programma di rete, con una conseguente necessità di esplicare, nei rapporti con i terzi, in modo chiaro e trasparente, la situazione contrattuale che si viene a creare; diversamente, nel caso in cui l’organo comune stia agendo nell’interesse di uno dei retisti, sarà applicabile quanto disposto dall’art. 2615, co. 2, c.c., ampliandosi quindi l’argine della responsabilità fino a comprendere quella solidale del singolo retista.
Una nuova fisionomia del contratto di rete: l’attribuzione della soggettività giuridica e della soggettività tributaria.
Per comprendere se una rete di imprese goda o meno di autonoma soggettività tributaria è preliminarmente opportuno chiarire la relazione che lega soggettività tributaria passiva e soggettività di diritto privato; è necessario domandarsi, in particolare, se l’attribuzione di soggettività fiscale presupponga la ricorrenza della soggettività giuridica “civilistica”. La dottrina, sul punto, ha proposto due tesi divergenti:
1)teoria “monistica”: può esserci soggetto passivo di imposta solo in presenza di persona fisica o di ente dotato di soggettività giuridica di diritto privato;
2)teoria “dualistica”: il legislatore definisce la soggettività di diritto tributario secondo le proprie esigenze, indipendentemente dalla personalità o dalla soggettività civilistica.
La teoria dualistica (o teoria della soggettività tributaria) ha il pregio di tenere in considerazione la previsione di autonoma soggettività passiva ai fini tributari di entità quali eredità giacenti e trust e, prima dell’emanazione della circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 20/E/2013, era coerente con l’assunto secondo cui l’attribuzione di soggettività giuridica alla rete non determinava automaticamente la sussistenza di soggettività tributaria autonoma (ai fini dell’IVA o ai fini delle II.DD.) in capo alla stessa.
Con la sopraccitata circolare, l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto gli effetti fiscali della distinzione tra rete contratto e rete soggetto introdotta dai DD.LL. n. 83/2012 (conv. con L. n. 134/2012) e n. 179/2012 (conv. con L. n. 221/2012), confermando la propria adesione alla sopraccitata teoria “monistica”.
La rete contratto rimane un modello contrattuale “puro” di rete di imprese, la cui adesione “non comporta l’estinzione, né la modificazione della soggettività tributaria delle imprese che aderiscono all’accordo, né l’attribuzione di soggettività tributaria alla rete risultante dal contratto stesso”.
La rete soggetto invece, in quanto autonomo centro di imputazione di interessi e rapporti giuridici in grado di esprimere una propria capacità contributiva, acquista rilevanza anche dal punto di vista tributario, a condizione che si verifichino gli altri specifici presupposti d’imposta. Tale interpretazione è coerente con la soggettività tributaria attribuita ad altri enti collettivi non personificati (associazioni non riconosciute, società semplice, consorzi con attività esterna, GEIE).
Rete d’imprese come soggetto passivo IVA.
Una rete di imprese dotata di soggettività giuridica (rete soggetto) può essere considerata soggetto passivo IVA (e, di conseguenza, soggetto tenuto a dichiarare ai competenti uffici dell’Agenzia delle entrate l’inizio dell’esercizio di un’impresa o professione nel territorio dello Stato ai sensi dell’art. 35, co. 1, DPR n. 633/1972) qualora ricorrano le condizioni previste dalla normativa IVA comunitaria e nazionale.
Come segnalato dalla dottrina ( ), la disciplina nazionale dell’IVA non definisce un presupposto di imposta in senso tecnico, ma identifica delle operazioni imponibili caratterizzate da profili soggettivi, oggettivi, territoriali e temporali; l’art. 1 DPR n. 633/1972, infatti, si esprime nei seguenti termini: “L’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate.”.
Il profilo oggettivo dell’IVA è definito agli artt. 2, 14, 24, Direttiva n. 2006/112/CE, recepiti negli artt. 2 e 3 DPR n. 633/1972; trattasi delle cessioni di beni e delle operazioni a queste assimilate, delle prestazioni di servizi e delle operazioni a queste equiparate (tra cui rientrano le prestazioni “verso corrispettivo dipendenti da […]obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte […]”), le importazioni e gli acquisti intracomunitari.
La nozione di “soggetto passivo IVA” trova invece la sua definizione nell’art. 9, Direttiva n. 2006/112/CE, recepito e specificato nell’ordinamento nazionale negli artt. 1, 4 e 5, DPR n. 633/1972. L’art. 9, Direttiva n. 2006/112/CE propone una nozione amplissima di soggetto passivo, che comprende chiunque eserciti ( ):
•un’attività economica (ossia “ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi” e, in particolare, lo “sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità.[…]”);
•in modo indipendente (è esclusa pertanto la soggettività di chiunque sia vincolato da rapporti giuridici che determinino vincoli di subordinazione relativamente a condizioni di lavoro, retribuzione, responsabilità del datore di lavoro, etc.).
La norma nazionale distingue l’esercizio abituale di arti e professioni (di cui all’art. 5 DPR n. 633/1972) dall’esercizio di imprese (di cui all’art. 4, co. 1, DPR n. 633/1972), che comprende:
•lo svolgimento per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività agricole ai sensi dell’art. 2135 c.c. o commerciali ai sensi dell’art 2195 c.c.;
•lo svolgimento di prestazioni di servizi non compresi nell’art. 2195 c.c. se “organizzate in forma di impresa”.
È importante inoltre richiamare la presunzione legale assoluta di cui all’art. 4, co. 2, n. 2, DPR n. 633/1972: sono sempre considerate effettuate nell’esercizio delle imprese le operazioni rilevanti ai fini IVA effettuate da “[…] altre organizzazioni senza personalità giuridica […]che abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole.” ( ).
Le reti soggetto rientrano tra queste “organizzazioni senza personalità giuridica” ( ) e, qualora esercitino un’attività commerciale per oggetto esclusivo o principale in modo indipendente, rientrano tra i soggetti passivi IVA. La rete di imprese dotata di soggettività giuridica, in quanto “organizzazione senza personalità giuridica avente per oggetto l’esercizio di attività commerciali”, è caratterizzata anche da autonoma soggettività tributaria passiva ai fini IVA ( ).
In passato l’Agenzia delle Entrate negava questa possibilità in quanto la rete non era considerato un centro autonomo di imputazione di diritti e obblighi. La circolare n. 20/E/2013, recependo il rinnovato quadro normativo, ha riconosciuto la soggettività IVA delle reti soggetto, superando così l’iniziale interpretazione fornita con la circolare n. 4/E/2011.
Rete d’imprese come soggetto passivo ai fini delle II.DD..
L’iniziale introduzione della rete nel nostro ordinamento ad opera dell’art. 6-bis, co. 1 e 2, DL n. 112/2008 era funzionale, come accennato, all’applicazione delle norme previste in materia di distretti, di cui all’art. 1, commi da 366 a 371-ter, L. n. 266/2005, ossia al godimento di semplificazioni fiscali (tra cui gli istituti della “tassazione consolidata distrettuale” e della “tassazione concordata”), amministrative, finanziarie e di incentivo alle attività di ricerca e sviluppo.
L’introduzione del contratto di rete di cui al successivo art. 3, co. 4-ter, DL n. 5/2009 ha escluso le reti dall’ambito di applicazione della “tassazione consolidata distrettuale” e della “tassazione concordata” tuttavia il riconoscimento di autonoma soggettività giuridica rende la rete soggetto un’entità distinta dalle imprese partecipanti, in grado di realizzare autonomamente il presupposto IRES e IRAP ( ).
Il presupposto oggettivo dell’imposta è, ai sensi dell’art. 72 TUIR, “il possesso dei redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6” ossia redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, d’impresa, diversi.
I soggetti passivi IRES sono individuati al successivo art. 73, co. 1, TUIR e comprendono anche gli enti diversi dalle società residenti nel territorio dello Stato di cui all’art. 73, co. 1, lett. b e c, TUIR, con riferimento ai quali il successivo comma 2 precisa che: “Tra gli enti diversi dalle società, di cui alle lettere b) e c) del comma 1, si comprendono, oltre alle persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, i consorzi e le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario e autonomo. […]”.
La norma ha una funzione di chiusura del sistema, al fine di evitare che siano create figure soggettive atipiche al solo scopo di sottrarsi all’applicazione dell’imposta; sono soggetti all’imposta anche gli enti atipici esercenti un’attività commerciale, purché presentino congiuntamente le seguenti caratteristiche ( ):
1.organizzazione: deve trattarsi di un “complesso di persone e/o beni stabilmente strutturato per il raggiungimento di uno scopo”;
2.non appartenenza ad altri soggetti passivi: l’organizzazione non deve essere un segmento, un’articolazione, una divisione di una più ampia organizzazione sottoposta al tributo, ma essere riconoscibile come una struttura distinta;
3.unitarietà del presupposto: gli effetti giuridici degli atti compiuti dall’organizzazione sono imputati alla stessa e non in capo ai singoli partecipanti;
4.autonomia del presupposto: l’organizzazione deve esprimere una volontà (e una capacità contributiva) distinta da quella dei partecipanti, derivante dalla capacità di autodeterminarsi in vista del raggiungimento del proprio scopo; in altri termini, l’organizzazione non deve essere un mero strumento asservito agli interessi dei partecipanti ma esprimere un proprio interesse, una propria volontà, una propria capacità contributiva.
Tutto ciò considerato, la rete di imprese priva di autonoma soggettività giuridica non rientra tra i soggetti passivi IRES per mancanza del requisito di unitarietà del presupposto, in quanto tutti gli effetti giuridici degli atti compiuti (compresi quelli fiscali) si realizzano in capo alle imprese aderenti e non in capo alla rete in quanto tale.
Come confermato dalla circolare n. 20/E/2013, invece, la rete dotata di soggettività giuridica è una organizzazione non appartenente ad altri soggetti, nei confronti della quale il presupposto di imposta si verifica in maniera unitaria e autonoma; poiché sono congiuntamente riscontrate tutte le caratteristiche sopra esposte, la rete soggetto assume autonoma soggettività passiva IRES.
Qualora la rete soggetto:
•eserciti l’attività commerciale in via principale o esclusiva, la stessa rientra tra gli enti commerciali dell’art. 73, co. 1, lett. b), TUIR e si applicano le regole di determinazione del reddito imponibile di cui agli artt. 81 e ss. TUIR;
•non eserciti l’attività commerciale in via principale o esclusiva, la stessa rientra tra gli enti non commerciali del successivo art. 73, co. 1, lett. c), TUIR e trovano applicazione gli artt. 143 e ss. TUIR.
Rete contratto
Alle reti di imprese prive di soggettività giuridica continuano ad essere applicabili le indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate fino alle modifiche normative di cui agli artt. 45, DL n. 83/2012 (conv. con L. n. 134/2012) e 36, DL n. 179/2012 (conv. con L. n. 221/2012).
La rete contratto, non assumendo soggettività giuridica civilistica, non assume neppure autonoma soggettività passiva ai fini delle imposte dirette ed indirette: l’organizzazione creata attraverso il contratto di rete rappresenta un mero strumento, a disposizione dei retisti, per lo svolgimento della loro attività.
Gli atti compiuti in esecuzione del programma di rete producono i loro effetti direttamente nella sfera giuridica (e quindi fiscale) dei partecipanti alla rete.
La titolarità di beni, diritti, obblighi rimane individuale dei singoli retisti ed è imputabile, pro-quota, agli stessi; laddove presente, l’organo comune incaricato dell’esecuzione del contratto agisce come mandatario con rappresentanza dei retisti e, pertanto, gli atti che pone in essere producono i propri effetti giuridici direttamente nelle sfere individuali dei singoli partecipanti alla rete contratto.
Come confermato dalla circolare n. 20/E/2013, per semplificare le procedure contrattuali e contabili, resta sempre possibile individuare un mandatario senza rappresentanza nell’impresa capofila, in una delle partecipanti, in un soggetto terzo, i cui atti avranno effetto solamente in capo al mandatario con la possibilità, per quest’ultimo di imputarli ai retisti.
Ai fini fiscali, pertanto, i costi e i ricavi derivanti dall’attività svolta per mezzo della rete contratto si realizzano in capo ai singoli retisti, e sono deducibili o imponibili secondo le ordinarie regole fiscali. A titolo di esempio, gli interessi attivi maturati sul conto corrente della rete contratto e le relative ritenute, vanno attribuiti ai retisti proporzionalmente e figureranno nelle singole dichiarazioni fiscali.
Per beneficiare della deducibilità dei costi sostenuti per l’esecuzione del programma di rete, l’impresa retista deve dare dimostrazione della sussistenza del requisito di inerenza ai sensi ed ai fini dell’art. 109, co. 5, TUIR e, pertanto, il riferimento ad attività o beni propri, da cui siano derivati ricavi o altri proventi che abbiano concorso a formarne il reddito. Qualora l’Agenzia delle Entrate contesti la deducibilità di un costo imputato direttamente al retista (nel caso in cui l’organo comune agisca in veste di mandatario con rappresentanza dei contraenti) o ad esso ribaltato dal mandatario senza rappresentanza, potrebbe non essere sufficiente fornire la prova che il suo sostenimento era previsto dal programma di rete, rendendosi invece necessario dimostrare anche l’effettivo sostenimento di tale costo e, soprattutto, la sua riferibilità all’attività economica svolta dall’impresa retista.
Considerata la dicotomia tra reti contratto e reti soggetto è necessario che gli imprenditori e i professionisti consulenti prestino una particolare attenzione agli effetti fiscali che derivano dalle diverse tipologie di rete e ai comportamenti concreti che saranno messi in atto dai retisti e dall’organo comune, al fine di individuare il modello che consenta di realizzare al meglio il programma comune.
È probabile che nella prima fase sia opportuno che il contratto preveda la costituzione di una rete leggera al fine di verificare la compatibilità dei comportamenti imprenditoriali, la fattibilità e l’utilità economica del progetto; a seguito dell’incremento dell’attività comune e del consolidamento dei rapporti con clienti e fornitori, il contratto stesso può essere modificato facendo evolvere il modello originario verso una rete pesante o addirittura verso una rete soggetto.

Assegnazione di immobili ai soci: trattamento ai fini delle imposte indirette

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D: Una s.a.s. inattiva possiede un capannone industriale totalmente ammortizzato e con un valore di mercato di € 200.000,00. La s.a.s. è mantenuta in vita unicamente per la presenza del cespite. Sfruttando la disciplina prevista dal d.l. 83/2012 sarebbe possibile non applicare l’iva in caso di scioglimento della s.a.s. con assegnazione dell’immobile ai soci (tutti persone fisiche non svolgenti attività di impresa). Adottando questa soluzione, si chiede a quanto ammonterebbero le imposte di registro, ipotecaria e catastale e se esiste in questo caso qualche agevolazione.

R: L’assegnazione è normalmente rilevante ai fini Iva. Fanno eccezione le assegnazioni di beni per i quali in origine non fu detratta l’Iva, sia per motivi oggettivi che per motivi soggettivi (circolare 40/E/2002). Se l’Iva è applicabile perché detratta a monte, quando si tratta di un immobile, bisogna rilevare che l’articolo 10, punti 8-bis e 8-ter del Dpr 633/72 dispone come trattamento di base l’esenzione. Nell’attuale versione, applicabile fino al 2013, l’esenzione Iva comporta l’applicazione dell’imposta di registro proporzionale del 9% per immobili abitativi e delle ipocatastali applicate in misura fissa pari a 50 euro se collegate a un atto nel quale è corrisposta l’imposta di registro in misura proporzionale, e 200 euro se l’imposta di registro è a sua volta applicata in misura fissa. Se l’immobile è commerciale, l’imposta di registro è applicata in misura fissa, anche in presenza dell’esenzione Iva, mentre le ipocatastali sono applicabili al 4 per cento.

Quale trattamento pensionistico per chi ha maturato il diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011

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Con parere del 31 gennaio 2014, il dipartimento della Funzione pubblica ha risposto al quesito proposto da un Comune in merito all’interpretazione dell’art. 2, comma 4, del Dl n. 101 /2013, convertito dalla legge n. 125/2013.

La suddetta norma prevede che “l’art. 24, comma 3 primo periodo del Dl n. 201/2011, convertito in legge n. 214/2011, si interpreta nel senso che il conseguimento da parte di un lavoratore dipendente delle pubbliche amministrazioni di un qualsiasi diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011 comporta obbligatoriamente l’applicazione del regime di accesso e delle decorrenze previgente rispetto all’entrata in vigore del predetto art. 24”. In altre parole, secondo la norma richiamata, il dipendente con un diritto a pensione maturato entro il 31 dicembre 2011 non può esercitare un’opzione per il nuovo regime, ma soggiace, comunque, obbligatoriamente, al regime previgente.

Resta pertanto escluso, a questi dipendenti, l’accesso al regime previsto dalla c.d. riforma Monti che ha introdotto il meccanismo del sistema contributivo ‘pro rata’ (per le anzianità maturate dopo il 1° gennaio 2012) e abolito il meccanismo delle “finestre” e che esplicano i propri effetti solo nei confronti dei dipendenti che “a decorrere dal 1° gennaio 2012 maturano i requisiti per il pensionamento”. La riforma ha previsto infatti il riconoscimento della pensione di vecchiaia per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, sia uomini che donne, con il requisito anagrafico, nell’anno 2014, al compimento di 66 anni e tre mesi, e una pensione di anzianità (ora pensione anticipata) per gli uomini che abbiano maturato 42 anni e 6 mesi di contribuzione e per le donne che abbiano maturato 41 anni e 6 mesi.

Ciò posto, il dipendente che invece ha maturato un diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011, raggiungendo la quota 96 oppure, per le donne, i requisiti previgenti per la pensione di vecchiaia (61 anni di età e almeno 20 anni di contributi), ma che non ha ancora raggiunto l’età limite ordinamentale per la permanenza in servizio di cui all’art. 4 del Dpr n. 1092 del 1973 (65 anni), è titolare di un diritto che può o meno decidere di esercitare.

Ne deriva che l’amministrazione, in questo caso, deve accogliere l’istanza del dipendente che faccia richiesta di essere collocato a riposo in virtù del diritto conseguito prima dei 65 anni di età, salva la concessione del trattenimento di servizio per un biennio di cui all’art. 16 del Dlgs n. 503/1992, che consente all’amministrazione, presentata la disponibilità del dipendente, di trattenerlo in servizio in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell’efficiente andamento dei servizi.

Palazzo Vidoni, infine, precisa che per i dipendenti che hanno maturato i requisiti nell’anno 2011, essendo soggetti al regime vigente prima dell’entrata in vigore dell’art. 24 del citato Dl n. 201/2011, resta in vigore il regime della decorrenze del trattamento pensionistico di cui all’art. 12 del Dl n. 78/2010.

La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino conquista anche l’Oscar

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Sono le 3,45 ora italiana quando dal Dolby Theatre di Los Angeles Ewan McGregor e Viola Davis annunciano l’Oscar a “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino. E lui, visibilmente emozionato – con al fianco un compiaciuto Toni Servillo e il produttore Nicola Giuliano -risponde con un “grazie alle mie fonti di ispirazione Federico Fellini, Martin Scorsese, i Talking Heads ( autori del brano che ha dato il titolo ad uno dei suoi film, “This must be the place”) Diego Armando Maradona, a Roma, a Napoli e alla mia più grande bellezza personale, Daniela, Anna e Carlo.”

E così dopo 15 anni dalla statuetta conquistata da Roberto Benigni con “La vita è bella” torna in Italia il premio per il miglior film straniero.

Si è così conclusa al top la marcia trionfale de “La Grande Bellezza” di Sorrentino. Il film aveva già conquistato prima il premio europeo Efa, a gennaio il Golden Globe, poi il Bafta, l’Oscar britannico. Sorrentino ha battuto “Albama Monroe-Una storia d’amore” del belga Felix Van Groeningen, “Il sospetto” del danese Thomas Vinterberg, “The Missing Picture” del cambogiano Rithy Panh e “Omar” del palestinese Hany Abu-Hassad.

“12 anni schiavo” di Steve McQueen è invece il premio Oscar come miglior film del 2014. Il film, ispirato ad una storia vera, ha battuto “American Hustle” di David O. Russell, “Captain Phillips” di Paul Greengrass, “Dallas Buyers Club” di Jean-Marc Vallée, “Gravity” di Alfonso Cuaron, “Her” di Spike Jonze, “Nebraska” di Alexander Payne, “Philomena” di Stephen Frears e “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese.

L’Oscar come miglior attrice protagonista è andato all’australiana Cate Blanchett (il suo secondo dopo quello come non protagonista in “The Aviator” di Martin Scorsese) per il ruolo di una donna nevrotica dell’upper class di New York caduta in disgrazia dopo la bancarotta del marito in “Blue Jasmine” di Woody Allen.

Blanchett ha sconfitto Amy Adams in “American Hustle”, Sandra Bullock in “Gravity”, Judi Dench in “Philomena” e Meryl Streep ne “I segreti di Osage County”. Matthew McConaughey ha vinto l’Oscar quale migliore attore per “Dallas Buyers Club” in cui intepreta un omofobo che si ammala di Aids per la sua vita sessuale promiscua e fa della sua malattia una ragione prima di business e poi di vita. McConaughey ha sconfitto Christian Bale (“American Hustle”), Bruce Dern (“Nebraska”), Leonardo DiCaprio (“The Wolf of Wall Street”), per l’ennesima volta rimasto a bocca asciutta, and Chiwetel Ejiofor (“12 anni schiavo”). Alfonso Cuaron ha vinto il premio Oscar come miglior regista, portando a sette il totale delle statuette conquistate dal suo film. Oltre alla regia Gravity ha vinto l’Oscar per: effetti speciali, mixaggio sonoro, montaggio sonoro, colonna sonora, fotografia e montaggio.