28 Settembre 2024, sabato
Home Blog Page 2001

Cruscotto con la Mela

0

L’annuncio di Apple, che porterà il suo sistema operativo mobile sulle auto entro la fine dell’anno, ha le potenzialità per cambiare il mercato. Il nuovo sistema CarPlay collega l’iPhone con il display del veicolo, così da permettere a chi guida di accedere alle mappe del telefono, alla musica e ai messaggi.
La società ha confermato che Ferrari, Mercedes-Benz e Volvo daranno una dimostrazione della nuova tecnologia durante il Salone dell’auto di Ginevra di questa settimana, e si aspetta che molte altre grandi case automobilistiche la utilizzino sulle proprie auto in futuro. Apple ha annunciato che CarPlay sarà disponile nel corso del 2014 su alcuni modelli di auto dei suoi tre partner europei, oltre a Honda, Hyundai e Jaguar.

CarPlay, che richiederà un aggiornamento del sistema operativo attuale iOS 7 e funzionerà su iPhone 5S, 5C, e 5, può essere attivato schiacciando e tenendo premuto un pulsante sul volante. CarPlay utilizza Siri, l’assistente vocale digitale dell’iPhone, che risponde alle richieste attraverso comandi vocali, leggendo ad alta voce i messaggi dell’automobilista e permettendo a chi guida di dettare le risposte o fare una telefonata. L’annuncio è l’ultimo segno di una lotta sempre più intensa tra Apple e il sistema operativo di Google, Android, per controllare le auto connesse, una rivalità che ha già trovato come terreno di scontro centinaia di milioni di smartphone e tablet. Con 80 milioni di nuove auto vendute ogni anno, le automobili rappresentano una nuova significativa opportunità per i software basati su Internet e i servizi, dove Apple e Google sono già in concorrenza.

A gennaio Google ha annunciato la nascita dell’Open Automotive Alliance, un gruppo di case automobilistiche che hanno in progetto di portare Android sulle auto. Le prime auto del gruppo dovrebbero uscire alla fine di quest’anno. Finora, le case automobilistiche stanno collaborando sia con Google sia con Apple per le loro rispettive iniziative.

La spinta di Apple verso le auto è stata in gran parte limitata all’utilizzo di iPhone e iPod attraverso il sistema audio di un’auto. Honda ha introdotto nuovi modelli che permettono all’automobilista di attivare Siri, l’assistente vocale digitale dell’iPhone, grazie a un pulsante sul volante e di poterci parlare usando il sistema audio hands-free dell’auto. Questo permette al conducente di usare l’assistente digitale per leggere e-mail e messaggi in arrivo, controllare il meteo, attivare il sistema di navigazione o inserire gli appuntamenti nel calendario dell’iPhone, tutto tenendo entrambe le mani sul volante.

Lo scorso giugno, Apple ha svelato la sua mossa successiva con l’iniziativa «iOS nell’Auto». L’obiettivo era quello di trasformare l’Phone in una sorta di cervello per il funzionamento dell’elettronica del cruscotto, usando il display integrato dell’auto per interagire con i servizi come le mappe e le informazioni sul traffico. CarPlay è la realizzazione di quella visione attraverso l’uso dei comandi interni dell’auto, ovvero tasti, pulsanti e monitor touch-screen. «CarPlay è stato progettato da zero per fornire a che guida un’esperienza incredibile utilizzando il proprio iPhone in auto», ha affermato Greg Joswiak, vicepresidente di Apple e iOS product marketing.

Apple ha iniziato a muoversi nel mondo delle auto con iPod. Quando il lettore di musica digitale ha cominciato a sostituire i lettori di compact disc, diventando il primo strumento utilizzato per ascoltare la musica, gli automobilisti si sono attrezzati con accessori di fortuna per portare l’iPod nella macchina. Nel 2004 Apple si è unita a Bmw per introdurre auto dotate di un cavo per collegare l’iPod al sistema audio della vettura. Oggi Apple dichiara che il 95% delle nuove auto hanno già incorporato un supporto base per riprodurre e regolare la musica da un dispositivo iOS, ovvero qualsiasi iPod, iPhone o iPad che utilizza il sistema operativo mobile della società fondata da Steve Jobs.

Facebook-WhatsApp, lezioni di politica economica

0

Pagare 19 miliardi una giovane azienda con una cinquantina di dipendenti è oggettivamente un’operazione che merita qualche riflessione in più di quelle riservate alle operazioni tradizionali. Il problema non è tanto capire se Facebook abbia pagato troppo la società di messaggistica per terminali mobili di nuova generazione, ma quello di individuare le nuove dinamiche del capitalismo contemporaneo. Primo, per fare grandi aziende in termini di fatturato e di valorizzazione dell’impresa oggi serve un piccolo gruppo di professionisti ben guidati. Le grandi organizzazioni di un tempo, con migliaia di dipendenti chiamati a trasformare materia per farne fatturato, non appartengono più al contesto digitale. Secondo, i canali di commercializzazione e di marketing di questi servizi sono altrettanto originali, visto che un nuovo brand riesce a imporsi su di uno smartphone o un tablet rapidamente e riesce anche a resistere ai ritorni di fiamma dei big (Facebook ha inutilmente tentato di replicare la piattaforma di WhatsApp). Terzo, il canone annuo che queste imprese possono richiedere ai loro clienti, grazie ai volumi globali di cui beneficiano, è da micro pagamento, cioè uno o pochi dollari all’anno. Quarto, una volta che si ha una piattaforma con mezzo milione di clienti attivi ogni mese si opera nel business dei servizi a valore aggiunto, e il fatturato che l’impresa può realizzare rientra nell’ambito delle probabilità tanto è ampia la volatilità. Significa che, almeno sulla carta, WhatsApp potrebbe sbancare in termini di fatturato con alcune potenziali decisioni future.

Siamo quindi in una situazione nella quale Facebook non aveva molte opzioni strategiche percorribili: poteva comprare pagando un premio importante per acquisire la possibilità di sfruttare le opzioni reali di WhatsApp, oppure poteva far comprare ad altri e rischiare l’erosione della sua customer base. Ha scelto la prima opzione e il mercato valuterà nei prossimi mesi e anni quanto la decisione di Facebook sia stata giusta. Rimane il fatto che questa importante dinamica industriale del capitalismo digitale è ancora una volta tutta giocata negli Usa e in California mentre tutto il resto del mondo è quasi un semplice osservatore del contesto competitivo statunitense, con l’unica eccezione almeno parziale della Cina. Così il divario tra gli Usa e l’Europa inevitabilmente si allarga, e il problema non è la crisi dell’euro o le politiche di Berlino. Tutto è terribilmente più semplice: quando sarà possibile creare in Europa aziende di 55 persone che dopo tre o quattro anni dalla loro costituzione valgono 19 miliardi di dollari? Fino a quando questo interrogativo non troverà risposta dobbiamo accettare di commentare decisioni altrui.

AGRICOLTURA: PREGIUDICARE LA BIODIVERSITÀ AGRARIA DIVIENE REATO CONTRO L’AMBIENTE

0

labbate-giuseppe_0Un significativo successo per le peculiarità dell’agricoltura italiana nella legge Micillo-Pellegrino-Realacci ma l’obiettivo, per i deputati M5S, è arrivare al reato di contaminazione da OGM

Nella legge “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”, approvata finalmente alla Camera e che giunge ora al Senato in seconda lettura, è stato inserito un nuovo traguardo per la tipicità dell’agricoltura italiana. L’estensione del reato di inquinamento ambientale per chi compromette la biodiversità agraria rappresenta, infatti, un piccolo ma significativo passo avanti nella battaglia a favore di un’agricoltura tradizionale, biologica e di qualità, ma soprattutto priva di qualsiasi contaminazione genetica. Un risultato ottenuto con il lavoro condiviso della Commissione Agricoltura e che, per i deputati del MoVimento 5 Stelle, poteva essere ancora più stringente contenendo, ad esempio, uno specifico riferimento all’immissione in ambiente di organismi geneticamente modificati.

Al momento non possiamo che ringraziare il nostro gruppo parlamentare ed in particolare il collega Salvatore Micillo che si è battuto per questo riconoscimento all’interno di un provvedimento che porta il suo nome e che introdurrà finalmente nel codice penale i delitti contro l’ambiente – dichiara il deputato pugliese Giuseppe L’Abbate (M5S), componente della Commissione Agricoltura alla Camera – Noi, comunque, continueremo la nostra azione volta ad introdurre in maniera esplicita il reato da ‘contaminazione OGM’ nel codice penale, così da riuscire a tamponare quel vulnus normativo che ancora ruota intorno al tema a livello europeo”.

Ufficio Stampa

on. Giuseppe L’Abbate

M5S BARI: TORRE A MARE DIMENTICATA

0
logobhaTorre a Mare è un quartiere di Bari appartenente alla V circoscrizione ed è situato all’estrema periferia sud-est della città di Bari. Dista dal centro cittadino appena 10 minuti se si raggiunge con la macchina; comodissima, ma con pochi orari, la linea dei treni metropolitani; mentre, del tutto impraticabile, è la linea urbana n°12. Forse pochi sanno che, nel territorio dell’attuale, a Torre a Mare sono state rinvenute tracce della presenza umana risalenti al IV millennio a.C. nelle grotte di Cala Colombro sulla costa sud e nella grotta della Tartaruga in prossimità dello sbocco a mare di lama Giotta. In epoca romana, la località era posta lungo la via Appia-Traiana che congiungeva Barium (l’antica Bari) ed Egnatia. 
 
Oggi i cittadini di questo quartiere fanno i conti con la gestione fallimentare dell’Amministrazione comunale che, negli ultimi anni, ha dimenticato i residenti, i quali, dal 2008, stanno raccogliendo le firme per una petizione popolare indirizzata al Sindaco e all’Assessore alla mobilità per istituire un bus navetta di collegamento tra il centro di Torre a Mare e la sua stazione ferroviaria. Ricordiamo che nel 2008 c’era un Torremarese DOC alla mobilità di Bari, Antonio Decaro. Ci chiediamo se lui li abbia mai presi i mezzi pubblici per arrivare in orario sul posto di lavoro.
 
Un altro annoso problema dei cittadini è quello della sicurezza, sapete come l’Amministrazione l’ha risolto? Nel periodo estivo con un vigile di quartiere che svolge soprattutto la funzione di disciplinare la fiumana di gente che si riversa in estate in questa piccola frazione. Com’è possibile che un Vigile possa limitare eventi delittuosi nella zona centro e le altre zone come quella del porto e più giù in periferia, da chi deve essere controllata?
 

Andiamo avanti nei problemi irrisolti di Torre a Mare e, guardando il litorale, è palese notare il disfacimento della costa erosa dal mare e qui la noncuranza dell’Amministrazione Emiliano e company cosa ha fatto? Che fine hanno fatto i finanziamenti della Regione per un importo pari a 1milione e 700mila euro, finalizzati alla rimozione dei sedimenti presenti nell’area portuale che hanno provocato l’interrimento del fondale? Come sono stati spesi e siamo proprio sicuri che siano stati spesi tutti? Dal risultato del degrado in cui versa la costa, non si direbbe. Neppure le spiagge sono sicure per portare i nostri figli a fare il bagno.

Rapida, invece, la realizzazione nel 2012 dei lavori di riqualificazione di piazza Vittorio Veneto, ripavimentata e donata ai cittadini come ulteriore spazio aggregativo, per questo sono stati spesi 250mila euro per un’isola pedonale che limita il transito delle autovetture agevolando il passeggio a piedi. Ci chiediamo se era proprio necessario mettere altro cemento su Torre a Mare? Che fine ha fatto la delibera del 2003 che approvava i lavori di riqualificazione e valorizzazione ambientale dell’area archeologica di Punta Penna e Cala Scizzo che prevedeva un primo finanziamento di 50mila euro volti alla pulizia di scogliera, con la ricostruzione dell’antico paesaggio? Nonostante tutti gli sforzi degli abitanti di Torre a Mare che hanno ottenuto il vigile di quartiere, la raccolta differenziata dell’umido per gli esercizi commerciali, che si prendono cura della pulizia della loro costa, rimane un posto senza alcun luogo di aggregazione sociale, senza asili nido, senza un vero parco, senza un pediatra. E’ possibile avere un quartiere nella “Città Metropolitana” di Bari dove si va a far visita solo per degustare il gelato nel pomeriggio del sabato e della domenica?

NARDÒ: L’INTERVENTO DEL NOE È UN ATTO DOVUTO PER LA SENATRICE DONNO

0

labbate-giuseppe_0Sulla discarica di Castellino la senatrice salentina del M5S aveva presentato sia richiesta di accesso agli atti, lo scorso settembre, sia una interrogazione parlamentare ai Ministri dell’Ambiente e della Salute datata 15 gennaio

Non mi stupisce ciò che è accaduto riguardo l’emergenza ambientale che ha coinvolto il territorio neretino, a proposito della discarica di Castellino. Oggi – dichiara la senatrice salentina Daniela Donno (M5S) – grazie all’intervento del Nucleo Operativo Ecologico dell’arma dei Carabinieri presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Nardò, viene confermata la fondatezza delle numerose segnalazioni dei cittadini e degli attivisti del MoVimento Cinque Stelle del gruppo di Nardò”. Lo scorso settembre la senatrice Donno aveva avanzato un’istanza di accesso agli atti indirizzata ad ARPA Puglia, Arpa Lecce, ASL Bari e ASL Lecce chiedendo di fare chiarezza sull’intera vicenda ed ha presentato, il 15 gennaio, un’interrogazione a risposta scritta rivolta al Ministero dell’Ambiente e della Salute per avere riscontri anche dal Governo e su cui si attende ancora risposta.

Auspico ci sia una veloce risoluzione di questa vicenda che continua a mettere a repentaglio la qualità della vita e la salute dei cittadini – continua Daniela Donno (M5S) – In particolare, si chiede un pronto e costante controllo sanitario e ambientale, uno studio epidemiologico e idrogeologico della zona interessata ed un’analisi accurata dei pozzi di monitoraggio delle falde presenti. Il mio impegno sul territorio come portavoce dei cittadini, il nostro impegno come Movimento 5 Stelle, soprattutto in ambito territoriale, è volto a dare voce ai bisogni che arrivano dalle aree svantaggiate – conclude la senatrice Donno – Continueremo in questa direzione, con determinazione e fermezza”.

Ufficio Stampa

on. Giuseppe L’Abbate

M5S BARI: GAZEBO 5 STELLE

0

logobhaQuattro appuntamenti con il MoVimento 5 Stelle Bari nel weekend:

Gazebo informativo sabato 1 Marzo, dalle ore 16:00 alle ore 20:00 in via Sparano angolo via Abate Gimma.


Triplo gazebo informativo in contemporanea Domenica 2 Marzo,
dalle ore 9:30 alle ore 12:45

– San Paolo: Via G. de Ribera, fronte chiesa San Gabriele.

– San Girolamo: Via Van Westerhouth, in prossimità di via N. Rota.

 

– Torre a Mare: Piazza Vittorio Veneto I.

M5S BARI: MEZZA TONNELLATA DI MENZOGNE

0
L’amministrazione comunale di Bari continua a interessarsi della raccolta differenziata solo per fare propaganda elettorale.
Partiamo dai dati di fatto:
A Bari solo il 23% dei rifiuti prodotti nel 2013 è stato differenziato e ai cittadini toccherà quindi pagare l’aumento dell’ecotassa inerente lo sversamento in discarica dei rifiuti solidi urbani, come da legge regionale.
Dal 1 Gennaio 2014 la Regione ha rimodulato l’ecotassa penalizzando giustamente i Comuni meno virtuosi: la tariffa massima è di 25,82 euro per ogni tonnellata di rifiuti indifferenziata ed è applicata a tutti quei Comuni che non riescono a varcare la soglia del 40%, con piccoli incentivi per quelli che superano il 30%.
Bari continua ad essere ferma ad una illegale quota del 26% contro un 65% richiesto dalla legge nazionale entro il 31.12.13, dimostrando nei fatti che questa amministrazione non è per la strategia rifiuti zero ma è all’anno zero dei rifiuti.
Cosa sono stati in grado di inventarsi l’Assessora Comunale all’ambiente e il Presidente dell’AMIU, per cercare di aumentare la Raccolta Differenziata di quel misero 5% e che farà pagare ai cittadini SOLO 7,5 euro la tonnellata di ecotassa per altri 6 mesi? Le isole ecologiche!
Spieghiamo bene quest’ennesimo tentativo di far passare per vera una raccolta differenziata finta: ogni utente deve portare, presso le 5 strutture indicate, più di mezza tonnellata di rifiuti l’anno, che gli consentiranno di avere buoni da spendere presso gli Ipercoop (i negozi di prossimità no?) o avere una riduzione TARSU…
Non si sono accorti questi signori che tale operazione non rispetta criteri di equità?
I cittadini infatti vorrebbero sapere come gli anziani o chi è sprovvisto di autovettura possano trasportare nei centri di raccolta tale quantità di rifiuti. Chi ha la macchina o altro mezzo, quindi economicamente più protetto, potrà usufruire del contributo, contrariamente ai più svantaggiati.
E’ ormai palese, che questa amministrazione non ha ben chiaro un concetto: bisogna dare l’opportunità ai cittadini di risparmiare, pagando soltanto in base alla quantità di rifiuti effettivamente prodotti, grazie alla raccolta porta a porta a tariffazione puntuale (cioè più ricicli e meno paghi), che dà risultati importanti sulla prevenzione, sull’avvio a riciclaggio e sulla riduzione delle quantità avviate a smaltimento.
I cittadini inoltre aspettano che il Presidente AMIU ci dia notizie: sulle caratteristiche tecniche del biodigestore anaerobico (impianto per il trattamento dell’umido) finanziato dalla Regione Puglia e messo in gara d’appalto, ma probabilmente ancora privo della VIA (valutazione di impatto ambientale); sulla possibile costruzione dell’impianto di produzione di CSS (combustibile solido secondario) che consentirà di bruciare rifiuti nelle cementerie, come dal MoVimento 5 Stelle richiesto, sin dal luglio 2013.
Ci vediamo in Comune, dentro o fuori, sarà un piacere.

Arrestare l’ex-presidente cinese? No, grazie

0

Fa discutere in Spagna il tentativo del Congresso dei deputati di bloccare il mandato di arresto emanato dalla magistratura spagnola contro l’ex presidente cinese Jiang Zemin per crimini contro l’umanità e genocidio, al fine di evitare un’incipiente crisi diplomatica con Pechino.

La tensione tra Cina a Spagna aveva in effetti raggiunto livelli di allarme dopo l’emanazione da parte del giudice Ismael Moreno di un mandato d’arresto internazionale nei confronti di Jiang Zemin, dell’ex primo ministro cinese Li Peng e di altri tre ex membri dell’establishment di Pechino. Così, l’11 febbraio, ad appena ventiquattro ore dal mandato, il Congresso dei deputati ha approvato un progetto di legge di riforma della giurisdizione universale presentato dal partito popolare, oggi al governo.

Legge da riformare
Il progetto di legge, ora al vaglio del Senato, modifica l’art. 23 della legge organica n. 6 del 1985 sul potere giudiziario, che recepisce nell’ordinamento spagnolo il principio dell’universalità della giurisdizione penale. Secondo questo principio, tutti gli Stati possono processare i responsabili di crimini internazionali, indipendentemente dal luogo in cui i crimini sono stati commessi, dalla nazionalità dei responsabili, da quella delle vittime e più in generale dall’esistenza di qualsiasi collegamento tra lo Stato in cui si celebra il processo e i crimini.

Fu sulla base dell’art. 23 della legge suddetta che nel 1998 il giudice Baltasar Garzon emise un mandato d’arresto internazionale nei confronti dell’ex dittatore cileno Augusto Pinochet, eseguito dalla polizia di Londra dove questi si trovava per cure mediche. Pinochet non fu tuttavia mai estradato in Spagna, perché ritenuto dalle autorità britanniche non in grado di sostenere il processo a causa delle sue condizioni di salute.

Secondo l’art. 23, già riformato in senso restrittivo nel 2009, i tribunali spagnoli hanno giurisdizione su crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio commessi all’estero da spagnoli o stranieri, nel caso in cui i presunti responsabili si trovino sul territorio spagnolo oppure vi siano vittime di nazionalità spagnola o comunque sussista un “collegamento rilevante” con la Spagna e sempre che non sia stato avviato un procedimento per gli stessi crimini in un altro Stato avente giurisdizione o davanti ad un tribunale internazionale.

Secondo i promotori della riforma, questi limiti alla giurisdizione dei tribunali spagnoli sui crimini internazionali non sarebbero più sufficienti. Il progetto di legge richiede che i presunti responsabili dei crimini siano cittadini spagnoli, stranieri abitualmente residenti in Spagna oppure stranieri presenti in Spagna la cui estradizione sia stata negata dalle autorità spagnole.

È inoltre prevista la sospensione dei procedimenti già iniziati contro individui che non soddisfino nessuna di queste condizioni finché almeno una di esse non si realizzi. Il che significherebbe blocco immediato del procedimento contro Jiang Zemin, Li Peng e gli altri tre ex dirigenti cinesi.

Pressioni cinesi
L’ex presidente cinese è accusato, insieme agli altri, di genocidio e crimini contro l’umanità nei confronti della popolazione della Regione Autonoma del Tibet. Il procedimento, avviato sulla base di una querela presentata nel 2008 da un’organizzazione non governativa pro Tibet e da un lama tibetano di nazionalità spagnola, ha fatto salire la tensione tra Pechino e Madrid quando a novembre scorso l’Audiencia Nacional ha ordinato al giudice Moreno di emettere un mandato d’arresto nei confronti di Jiang Zemin, Li Peng e degli altri tre.

La reazione cinese non si è fatta attendere. Le autorità cinesi sono giunte a minacciare rappresaglie economiche in caso di prosecuzione del procedimento. La Cina detiene il 20% del debito pubblico spagnolo ed è un importante partner commerciale di Madrid. Di qui la presentazione del progetto di riforma.

Corte penale internazionale
A sostegno della riforma è stata richiamata l’esistenza della Corte penale internazionale (Cpi), del cui Statuto la Spagna è parte, che renderebbe non necessaria la giurisdizione universale dei tribunali spagnoli sui crimini internazionali.

In realtà la Cpi non ha giurisdizione universale: può processare i responsabili di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio solo ove questi siano cittadini di uno Stato parte dello Statuto o di uno Stato non parte che ha accettato la sua giurisdizione oppure abbiano commesso i crimini su uno di detti Stati, tranne che vi sia un deferimento della situazione al Procuratore della Corte da parte del Consiglio di Sicurezza.

L’esistenza della Cpi quindi non rende superflua l’applicazione da parte degli Stati del principio dell’universalità della giurisdizione penale.

Se approvata definitivamente, la riforma rappresenterà un arretramento per un Paese che negli ultimi decenni si era fatto promotore di questo principio a livello mondiale.

La Spagna non è tuttavia il primo Stato a sacrificare l’interesse alla repressione dei crimini internazionali da chiunque commessi sull’altare della Realpolitik. Nel 2003 il Belgio ha abrogato la legge sulla giurisdizione universale adottata nel 1993, sostituendola con un’altra depotenziata, in seguito alle pressioni degli Stati Uniti, irritati dal procedimento aperto contro l’ex Presidente George Bush e l’ex Generale Colin Powell per presunti crimini commessi nella guerra del Golfo del 1991.

Il caso spagnolo, come quello belga, sollecita una riflessione su come assicurare l’applicazione del principio dell’universalità della giurisdizione penale a livello globale. Una convenzione internazionale in materia potrebbe essere uno strumento utile. Ma è da chiedersi quanti Stati la ratificherebbero.

Tutti pronti per il risiko su Kabul

0

La fine della missione Nato apre nuovi spazi di confronto geopolitico tra le potenze regionali in Afghanistan. In attesa di scoprire se Kabul, dopo le elezioni presidenziali previste per il 5 aprile, saprà riappropriarsi di una politica estera autonoma, lo snodo afghano è oggetto delle attenzioni del Golfo e dell’asse russo-cinese.

L’Arabia Saudita (tramite il Pakistan) e l’Iran cercano di condizionare gli assetti etno-confessionali del futuro governo, mentre Russia e Cina tentano – in seno alla Shanghai Cooperation Organization (Sco) – di arginare l’islamismo militante e la criminalità transnazionale. A sorpresa, il dossier Afghanistan potrebbe diventare, per Washington e Teheran, un terreno di riavvicinamento politico.

Arabia-Pakistan vs Iran
Riyadh ha due obiettivi: la nascita di un governo afghano ancorato all’Islam sunnita (e all’etnia pashtun) e il contenimento dell’influenza iraniana nel paese. I forti legami economici fra il regno degli Al-Sa‘ud e i servizi di intelligence militare del Pakistan forniscono ai sauditi un canale di accesso privilegiato all’arena politica di Kabul. È stata proprio la “saudizzazione” dell’Islam pakistano – iniziata negli anni settanta – ad accentuare l’estremismo religioso nell’area Af-Pak, fino a generare il movimento dei talebani.

Per l’Iran, influenzare l’Afghanistan significa poter giocare un’ulteriore carta al tavolo della comunità internazionale, rimarcando quanto la risoluzione dei conflitti regionali passi per Teheran.

Inoltre, la repubblica islamica teme, lungo il suo confine, la proliferazione di narcotraffico, jihadismo e conflitti tribali per l’acqua. Oltre che sulla crescente interdipendenza commerciale, gli iraniani possono fare leva sui legami religiosi e linguistico-culturali con le due minoranze afghane, gli hazara (sciiti, forse di discendenza mongola) e i tagiki, in prevalenza sunniti che parlano un dialetto persiano, il dari; non è casuale che l’Iran spinga affinché il governo di Kabul sia rappresentativo delle diversità etno-confessionali.

Russia e Cina
Vi sono almeno tre ragioni per cui Russia e Cina perseguono una politica assertiva sull’Afghanistan. Esse condividono, nella macroregione euroasiatica, la lotta all’Islam militante e alle pulsioni separatiste, due fattori-minaccia che si intrecciano in Nord Caucaso e nella regione dello Xinjiang (dove vivono gli uiguri, i musulmani cinesi turcofoni). In più, il territorio afghano rappresenta il naturale viatico verso le coste commerciali del mar Arabico; da qui, si prosegue per l’Africa orientale, dove la Cina investe in materie prime.

La Sco – organismo multilaterale che comprende Russia, Cina e repubbliche centroasiatiche – ha attivato un “gruppo di contatto” sull’Afghanistan. Nel 2012, Kabul è divenuta membro osservatore della Sco (dopo Pakistan, India e Iran).

La sicurezza delle frontiere e il contrasto alla criminalità sono al centro di questo esperimento di regionalismo che ora si propone però di intervenire nella riconciliazione afghana: dopo il dialogo Af-Pak-Cina del dicembre scorso, sarà Shanghai a ospitare il prossimo incontro dell’Istanbul Process, inaugurato in Turchia tre anni fa come occasione di confidence-building tra le comunità dell’Afghanistan.

Alleanze multiple di Teheran
Sull’Afghanistan, l’Iran dispone di un set di alleanze multiple che lo pongono al centro delle reti negoziali. Nella Sco (che non produce però decisioni vincolanti per i membri), Teheran gioca di sponda con Russia e Cina, le potenze con diritto di veto in Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Nonostante la diffidenza reciproca, gli iraniani e i pakistani cooperano sull’Afghanistan (per esempio costruendo infrastrutture) anche perché condividono un problema: la sicurezza in Baluchistan. La regione, ricca di idrocarburi, si estende in entrambi i paesi: la metà dei baluci è di etnia pashtun e l’assemblea tribale (shura) di Quetta è il cuore ideologico dell’insorgenza talebana.

Tuttavia, Islamabad guarda ancora con sospetto all’Iran: il rivale dell’alleato saudita è anche un grande fornitore di petrolio all’India, primo competitor regionale del Pakistan. Vi è poi la Turchia, unico membro Nato e partner Sco, che importa gas dall’Iran; la guerra civile siriana e l’Iraq hanno però deteriorato i rapporti fra Ankara e Teheran, schierate sui due versanti contrapposti di Damasco e oggi riluttanti a collaborare per il futuro dell’Afghanistan.

Usa e Iran vicini su Kabul?
Gli investimenti in infrastrutture energetiche sul territorio afghano necessitano di una precondizione: la sicurezza. L’energia rischia pertanto di trasformarsi in un’occasione di interdipendenza regionale perduta. Con il ritiro della Nato dal paese sarà interessante osservare quale ruolo giocherà il forum a trazione russo-cinese, soprattutto se vi sarà una presenza militare Usa dopo il 2014, come prevede l’accordo bilaterale di sicurezza approvato dalla loya jirga ma che il presidente Karzai non ha firmato.

In questo quadro, le alleanze multiple intessute dall’Iran potrebbero allora rivelarsi cruciali: in più, la Casa Bianca ha un’idea del futuro governo afghano più somigliante ai desideri di Teheran (esecutivo rappresentativo delle minoranze) che a quelli dell’alleato saudita (governo a forte connotazione islamico sunnita). Dunque, a complicare la visita che a fine marzo il presidente statunitense compirà in Arabia Saudita c’è anche il nodo di Kabul.

L’Odissea della guerra alla tratta

0

“Reclutare, trasferire, custodire o accogliere persone, per sfruttarle lavorativamente o sessualmente, ricorrendo ad azioni illecite quali inganno, minacce o coercizione”. A mettere nero su bianco, per la prima volta, gli elementi distintivi della tratta di esseri umani è stato il Protocollo di Palermo, il documento addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale. Correva l’anno 2000. Quattordici anni dopo, la guerra alla tratta non è stata ancora vinta.

Mappa delle criticità
“Malgrado tutti i progressi economici e politici, non siamo riusciti a contenere questa nuova forma di schiavitù”. Parola di Thorbjørn Jagland, Segretario generale del Consiglio d’Europa, istituzione che insieme all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) ha di recente promosso una conferenza volta a mappare criticità e prospettive della lotta alla tratta di esseri umani. Difficile dissentire: secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, a livello mondiale, sono almeno 20,9 milioni gli uomini, le donne e i bambini vittime di lavoro forzato o sottomessi all’arbitrio di datori di lavoro o di intermediari che procacciano i contratti.

Sebbene nella gran parte dei casi il percorso migratorio inizi volontariamente, è il debito contratto con i trafficanti a trasformare i migranti in lavoratori forzati e a ridurli in schiavitù. Di questi, 4,5 milioni subiscono forme di sfruttamento sessuale. Mentre i restanti 16,4 milioni sono costretti a lavorare in settori come agricoltura, pastorizia, edilizia o lavoro di cura, dove e più alta la domanda di lavoro a basso costo e sono più radicati i processi di informalizzazione.

Il profilo sociale ed economico dell’umanità che finisce nella spirale della tratta restituisce fedelmente la geopolitica della disuguaglianza globale: l’81% dei trafficati è rappresentato da donne e minori reclutati in paesi gravati da disoccupazione, povertà, fragilità dei sistemi di welfare, transizioni istituzionali e debolezza dello stato di diritto. Europa orientale e sud-orientale, Africa, Asia, America latina. Da qui parte il grosso dei lavoratori forzati che finiscono nei cicli produttivi e nelle economie illecite dei paesi a sviluppo avanzato.

Flussi di persone che si differenziano in base alla tipologia di sfruttamento, alla provenienza delle vittime e alle esigenze logistiche dei gruppi criminali coinvolti. C’è l’est europeo, bacino di reclutamento di donne e minori trafficati per sfruttamento sessuale e accattonaggio organizzato. E ci sono l’Asia e l’Africa da cui partono i migranti cooptati nel lavoro forzato.

Giro d’affari
Il giro d’affari, ovvio a dirsi, è enorme. Secondo la Commissione europea, la tratta, con i suoi 32 miliardi di dollari di fatturato annuo, è la seconda fonte di utili per le organizzazioni criminali dopo il traffico di stupefacenti. Cifra, ovviamente al ribasso, perché l’unico dato certo ad oggi, è che della struttura criminale del traffico di esseri umani e dei suoi attori chiave se ne sa ancora troppo poco.

La difficile mappatura del fenomeno non è data soltanto dalla sua natura sommersa, ma dall’assenza di informazioni relative al pulviscolo di organizzazioni di piccola e media taglia, passeur, intermediari e datori di lavoro conniventi che operano nel settore: una combinazione di soggetti disparati che tratteggiano una geografia criminale fluida, flessibile e ad alta capacità di infiltrazione e mimetismo, difficile da identificare per gran parte delle polizie internazionali.

In questo contesto, non stupisce che il numero di arresti, processi e condanne ai trafficanti sia da anni, drasticamente al di sotto di quello delle vittime accertate. La Commissione europea ha calcolato che all’interno dell’Unione tra il 2008 e il 2010, le condanne dei trafficanti sono diminuite del 13%, a fronte di un aumento del 18% delle persone trafficate. Un cortocircuito ascrivibile anche all’applicazione disomogenea e parziale della “protezione sociale” accordata alle vittime in tutta l’area comunitaria dalla direttiva anti-tratta del 2011.

Nonostante Bruxelles abbia più volte richiamato la centralità della loro tutela, in molti stati membri, le vittime solo di rado sono riconosciute come tali. Condannate o espulse per le attività illecite commesse durante il periodo di lavoro forzato, queste si ritrovano a dover fronteggiare un processo di criminalizzazione che scoraggia la collaborazione giudiziaria e mina alle radici le strategie di contrasto.

Intanto, questa economia criminale continua a espandersi. L’ultimo rapporto Europol parla chiaro: il traffico transnazionale di esseri umani non risparmia nessuno. Tantomeno l’Ue, dove il Parlamento europeo ha stimato nel 2013, 880 mila lavoratori forzati. Un contesto in cui l’Italia primeggia per numero di vittime: 2.381 i casi accertati nel 2010 rispetto ai 1.624 del 2008.