28 Settembre 2024, sabato
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Tagliato telefono gratis ai parlamentari: rimborsi calano da 4.000 a 1.200 euro

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Una buona notizia, piccola ma buona: sono state tagliate di due terzi le telefonate gratis ai parlamentari. Fino a ieri i parlamentari avevano un rimborso forfettario pari a 3.974 euro annui. Era di fatto cellulare gratis e, quel che è peggio, gratis e senza regole. Ora, d’ora in poi i parlamentari avranno un rimborso di 1.200 euro annui. E, quel che è meglio, i 1.200 euro spesi dovranno essere documentati prima che siano versati al parlamentare.
Quella che sia alla Camera che al Senato viene definita dagli eletti “una bella rottura di scatole” è stata decisa e varata dal governo durante l’ultimo Consiglio dei ministri. Farà anche parte della sceneggiatura renziana, ma è un fatto. Un fatto minimo eppur di buon segno. Scrive Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera: “Rimborso forfettario di circa 4.000 euro…se poi a chiamare fosse il figlio, la moglie, la sorella, la madre, il padre, la nonna o il nonno, l’amico o l’amica del parlamentare in questione, poco importava. E se la conversazione fosse privata, interessava ancora meno…Ora dovrà essere dimostrato che a fare quelle telefonate sono stati i deputati nell’esercizio del loro mandato parlamentare”.

Il Corriere della Sera scrive anche di una per ora fantomatica “prossima mossa” del governo Renzi: “Non fidandosi della celerità con cui il Senato farà harakiri e temendo che chi siede sugli scranni di Palazzo Madama farà di tutto per allontanare quella data, il presidente del Consiglio, che vuole ottenere dei tagli ai costi della politica prima delle europee, medita un’altra mossa a sorpresa: decurtare di duemila euro lo stipendio dei parlamentari”. Forse il Corriere della Sera si lascia trascinare dall’immaginazione, duemila euro in meno ai parlamentari somiglia tanto a un miraggio. Però quei 2.800 euro all’anno in meno di rimborso telefono per ogni parlamentare sono un sorso d’acqua fresca.
E sia risparmiata, ci sia risparmiata la notazione che…neanche un euro dovrebbero avere! E’ ovvio e giusto che l’uso del telefono per l’attività politica del parlamentare sia, se documentato e controllato, a carico della collettività. Se è vero rimborso spese, allora è ok come ogni rimborso spese. Anche M5S ai rimborsi spese ci sta. Quello dei parlamentari sui telefono non era un rimborso spese, era un regalo. Regalo cancellato, rimborso spese effettivo: due buone notizie, infatti nessuno ci ha fatto lo straccio di un titolo.

Pensione prof, scompaiono all’Inps i contributi dei supplenti tra 1970 e 1987

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Diciassette anni in cui i contributi dei professori in supplenza temporanea potrebbero essere spariti nel nulla. I docenti di Milano che si erano rivolto all’Inps per fare il conto dei propri contributi in vista della pensione si sono ritrovati con un buco contributivo tra il 1970 e il 1987.
Il fenomeno potrebbe non riguardar solo i circa 100 supplenti temporanei di Milano: in quegli anni casi simili potrebbero essersi verificati anche in altre città. Motivo per cui il numero di professori senza contributi versati in quegli anni potrebbero essere molti, ma ignari della propria situazione presso l’Inps.

“Il caso, a Milano, «interessa centinaia di docenti», conferma il direttore scolastico provinciale, Giuseppe Petralia, ma il numero «potrebbe lievitare nei prossimi mesi, quando altri docenti si troveranno a fare i calcoli in vista del pensionamento». In ogni caso, tiene a precisare l’ex provveditore, «il problema va ben oltre la dimensione locale: si tratta di una questione nazionale che dunque può riguardare un numero ben più ampio di docenti»”.
La Cgil di Milano ha parlato di buchi contributivi “anche consistenti” e ha lanciato l’allarme:
“«Abbiamo riscontrato buchi contributivi, anche consistenti, relativi al periodo compreso tra il 1970 e il 1987», spiega Caterina Spina, segretaria generale Flc Cgil di Milano. Il problema «è stato subito segnalato all’Ufficio scolastico regionale, e l’ex provveditorato ha riconosciuto effettive difficoltà a trovare la copertura contributiva. Ora il fenomeno è in crescita, urge una soluzione»”.
E chi sta per andare in pensione dovrà pagare di propria tasca i contributi mancanti:
“Tra i prof che si sono trovati in difficoltà c’è ad esempio chi è già in pensione, e ha riscattato – pagando di tasca sua – più di un anno di contributi che non risultano all’Inps, e insegnanti che hanno presentato la domanda di pensionamento tre o quatto anni fa ma sono ancora in attesa della pensione: nessuna erogazione dall’Inps a causa di “buchi” riscontrati nel ’78 e ’79, non giustificati dall’amministrazione”.
Petralia, tra l’altro prossimo alla pensione, ha spiegato che
“già centinaia di insegnanti si sono recati all’ex Provveditorato per chiedere conto dei loro versamenti Inps attestati dal modello «01 M». «Si tratta, nella maggior parte, di docenti che oggi sono di ruolo, ma che hanno cominciato la loro carriera scolastica facendo supplenze nelle scuole, anche con incarichi annuali». E sono in molti anche gli insegnanti che si rivolgono alle segreterie delle scuole milanesi dove hanno lavorato in passato, per chiedere che vengano loro rilasciati gli attestati di servizio e i modelli “01 M” che attestano i versamenti all’Inps”.
Il consiglio, per i docenti, è quello di controllare la propria situazione e verificare l’esistenza di eventuali buchi contributivi e se dovessero trovarne
“è necessario dotarsi dei certificati di servizio, o dei cedolini che attestano i versamenti delle scuole, prima di andare nuovamente agli sportelli Inps”.
Ora l’Inps di Milano ha sottolineato l’esigenza di una verifica per capire le reali dimensioni di questo fenomeno:
“se la questione dovesse riguardare i contributi versati fino al 1987, per le cosiddette supplenze brevi, si tratterebbe di versamenti che rientrano nella gestione previdenziale privata (Ago, assicurazione generale obbligatoria) dell’Inps. Contributi per i quali – tra l’altro – scatta la precrizione dopo un periodo di dieci anni. Infatti, fino al 1987, i contributi degli insegnanti per le supplenze brevi venivano versati direttamente all’Inps, poi queste pratiche sono divenute di competenza dell’Inpdap. Intanto, l’Inps conferma che è in programma a breve un tavolo con l’Ufficio provinciale scolastico di Milano, nel corso del quale verrà affrontato questo tema”.

Crisi, 2013 anno più duro: 111mila aziende chiuse tra fallimenti e liquidazioni

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Oltre 111mila aziende hanno chiuso nel 2013, segnando l’anno più duro per l’economia italiana dall’inizio dell crisi. Fallimenti, procedure non fallimentari e liquidazioni volontarie hanno superato tutti i record negativi, segnando un aumento del 7,3% in più rispetto al 2012, come riportano i dati Cerved.
Nell’intero 2013 si è registrato un boom dei concordati preventivi (+103% rispetto all’anno precedente) mentre per quel che riguarda i fallimenti anche nell’ultimo trimestre i fallimenti hanno proseguito la loro corsa con tassi a due cifre, portando il totale dell’anno oltre quota 14mila, il 12% in più rispetto al precedente massimo, toccato nel 2012.

Secondo i dati Cerved consultati dall’Ansa, il fenomeno è in forte aumento in tutti i settori e in tutte le aree del Paese, riguardando anche segmenti in cui nel 2012 si erano manifestati timidi segnali di miglioramento come l’industria (fallimenti in calo del 4,5% nel 2012 rispetto al 2011 mentre ora sono in aumento del 12,9%) e il Nord Est (da -3,6% di ‘crack’ tra 2011 e 2012 a una crescita del 19,7%).
Nel 2013 si contano inoltre circa 3mila procedure concorsuali non fallimentari, il massimo da oltre un decennio e il 53,8% in più rispetto all’anno precedente. Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato del Cerved, ha spiegato:
“All’origine di questo boom vi è sicuramente l’introduzione del ‘concordato in bianco’ che ha trovato ampio utilizzo presso le aziende italiane”.
La procedura, che consente alle imprese di bloccare le azioni esecutive dei creditori in attesa di preparare un piano di risanamento, ha visto nell’intero 2013 più di 4.400 domande, ma nel terzo e quarto trimestre il numero di domande si è comunque fortemente ridotto, probabilmente a causa delle correzioni apportate a livello legislativo e, in particolare, all’introduzione della facoltà di nominare un commissario giudiziale che possa controllare la condotta del debitore anche nelle fasi di pre-ammissione.
L’anno scorso è stato ritoccato anche il record negativo delle liquidazioni volontarie: nel 2013 hanno chiuso l’attività in questo modo 94mila aziende, il 5,6% in più rispetto all’anno precedente, con un aumento del 7% tra le ‘vere’ società di capitale, cioè quelle che hanno depositato almeno un bilancio valido nel triennio precedente alla liquidazione.
A livello territoriale i fallimenti mostrano una forte accelerazione in Emilia Romagna (+25%) e in Trentino Alto Adige (+21%) e un incremento a tassi a due cifre in Veneto (+16%) e in Friuli (+14%). Crescono a ritmi sostenuti anche i fallimenti nelle regioni del Centro (+13%) e del Sud (+10%): qui i maggiori aumenti si registrano in Toscana (+18%) e nel Lazio (+13%), mentre nel Mezzogiorno l’aumento registrato in Sicilia (+27%) viene in parte attenuato dal calo delle procedure in Abruzzo (15%) e Basilicata (+3%).
Nel Nord Ovest i fallimenti superano quota 4mila (+8% rispetto al 2012): pesa soprattutto l’aumento della Lombardia (+12%), mentre in Piemonte si registra un incremento molto più modesto (+2%). Fallimenti in calo in Liguria (-8%) e in Valle d’Aosta.

Italicum valido 18 mesi dopo l’approvazione, Renzi: “Sarà una rivoluzione”

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La legge elettorale è “irreversibile. Ce la facciamo, la portiamo a casa. E sarà una vera rivoluzione”. Matteo Renzi vede l’approdo dell’Italicum più vicino, alla portata. La trattativa è ancora in corso, il premier media tra le richieste del Ncd di Alfano e quelle di Forza Italia. Con il primo che vorrebbe una sorta di garanzia che approvata la legge non si corra alle elezioni.
Secondo il Corriere della Sera le telefonate e gli incontri della tarda serata di lunedì hanno portato a un compromesso: approvare la legge elettorale entro questa settimana posticipando l’entrata in vigore di 18 mesi, in modo da poter procedere parallelamente con la riforma (ovvero l’abolizione) del Senato. Qualcuno nei giorni scorsi ha paventato l’incostituzionalità della manovra, ma a quanto pare la mediazione politica per ora regge proprio su questo punto.

Ucraina. Putin: “Ritiro truppe ma userò forza se serve”. Sebastopoli sarà russa

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Ucraina. Putin: “Ritiro truppe ma userò forza se serve”. Sebastopoli sarà russa. Vladimir Putin ha ordinato il ritiro delle truppe ammassate sul confine ucraino: resta il presidio a protezione delle basi navali in Crimea. Al momento “non c’è la necessità” di inviare truppe russe in Ucraina, anche se “la possibilità rimane”. Lo ha detto il presidente russo Vladimir Putin citato dall’agenzia Itar-Tass aggiungendo che “la Russia si riserva il diritto di ricorrere a tutti i mezzi per proteggere i russi in Ucraina”. Sebastopoli voterà il 30 marzo un referendum diverso da quello che sarà sottoposto agli elettori della Crimea: il quesito, a meno di sorprese, sarà per l’adesione alla Russia. Lo dice all’ANSA Ivan Komelov, membro della commissione incaricata di redigere il quesito referendario: l’annuncio, ha detto, tra pochi giorni.
Dal punto di vista diplomatico nessuna soluzione è in vista con la Russia sull’Ucraina: lo ha detto il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier dopo aver incontrato a Ginevra il suo collega russo Serghiei Lavrov. Tuttavia il ritiro dell’ultimatum ha allontanato i rischi immediati di scontro armato. La vittoria dei movimenti anti-Ianukovich in Ucraina è “una grande sconfitta per la Russia“: lo scrive il Wall Street Journal citando una fonte autorevole del Cremlino. “Per noi, la conclusione è che l’Occidente ha vinto nel realizzare un colpo di Stato”, afferma la fonte anonima al quotidiano Usa.

“Abbiamo fatto gli stessi errori” del 2004, con l’avvento della rivoluzione arancione guidata da Iulia Timoshenko. Si spiega anche con questo sentimento di sconfitta l’azzardo di Vladimir Putin che prima ha lanciato un drammatico ultimatum, poi lo ha ritirato. O con la minaccia di stamattina, subito smentita, di spostare il confronto con gli Usa sul piano della guerra valutaria: se gli Usa introdurranno sanzioni contro la Russia, Mosca sarà costretta a lasciare il dollaro per altre valute e creare il proprio sistema di calcolo e pagamenti, ha annunciato il consigliere economico del Cremlino Serghiei Glaziev, citato da Ria Novosti. “Il tentativo di imporre sanzioni alla Russia si trasformerà in un crollo di tutto il sistema finanziario americano, che porterà alla fine del dominio Usa nel sistema finanziario mondiale”, ha aggiunto.
Il Cremlino ha smentito subito circoscrivendo le frasi di Glaziev al solo ambito accademico. O, più verosimilmente, alla turbolenta fase attraversata dal rublo, in caduta libera fino ai picchi del 10% dall’inizio del 2014, con il costante fenomeno della fuga di capitali verso l’estero a causa dell’instabilità economica, cui la temerarietà di Putin aggiunge il peso dell’instabilità politica: nonostante la volontà di Putin di ottenere un taglio dei tassi d’interesse, la banca centrale proprio ieri è intervenuta in direzione opposta.
La Banca centrale ha così aumentato il proprio tasso di riferimento dell’1,5%, portandolo da 5,5% al 7. Decisione, ha spiegato senza citare l’Ucraina, motivata dall’obiettivo di frenare «i rischi di inflazione e di instabilità finanziaria associati con l’aumento del livello di volatilità sui mercati finanziari». (Antonella Scott, Il Sole 24 Ore)
Se gli Stati Uniti hanno minacciato l’interruzione di ogni collaborazione in essere (militare, strategica inclusi i delicati dossier Iran e Siria) il fronte più caldo è rappresentato dai rapporti commerciali, che riguarda ovviamente anche l’Europa in prima battuta (la Ue è il primo partner della Russia) da cui la distanza di posizioni con gli Stati Uniti a proposito di sanzioni. Sul fronte del gas, si guarda alle decisioni di Gazprom: a partire da aprile la Russia cancellerà lo sconto sul gas concesso a dicembre all’Ucraina e che ha fatto scendere il prezzo del metano da circa 400 a 268,5 dollari per mille metri cubi, ha fatto sapere l’ad di Gazprom Alexiei Miller citato dall’agenzia Itar-Tass.

Tutti pazzi per i bond dell’Eurozona. Ma la classifica del debito estero premia l’Italia e boccia la Spagna

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Va tutto a gonfie vele per il debito pubblico dei Paesi europei. A giudicare dai tassi nominali decennali che stanno toccando Italia (3,39%, minimo da ottobre 2005), Spagna (3,42% minimo dal 2006), Portogallo (4,8%) e Grecia (6,9%, minimo da gennaio 2010 e sotto la “fatidica” soglia del 7%) i fondamentali di questi Paesi sembrano tornati di nuovo solidi.

Ma il discorso merita di scendere più in profondità. È vero che i tassi nominali sono tornati abbondantemente sotto i livelli pre-crisi. Non può così però dirsi (se si esclude la Grecia e il Portogallo) per i rendimenti reali, ovvero quelli depurati per il tasso di inflazione. Dato che l’inflazione vola basso (complice un rallentamento della domanda interna) il costo reale del debito non è molto distante da quello nominale. In Italia, ad esempio, bisogna sottrarre lo 0,7% (inflazione di gennaio) al 3,39% dei BTp, da cui si ricava un costo reale a 10 anni del 2,7%, superiore a quello dei livelli pre-crisi quando l’inflazione era oltre il 2%. Ovviamente, sul lungo periodo le nuove emissioni a questi tassi nominali così bassi potranno offrire un indubbio vantaggio qualora l’inflazione dovesse riportarsi intorno al 2% (che poi è l’obiettivo della Bce) e quindi decurtare il debito pubblico in termini reali.

Tuttavia la risalita dell’inflazione rappresenta una sfida ancora da combattere e molto incerta. Lo dimostra il fatto che domani l’istituto di Francoforte potrebbe attuare una nuova misura di allentamento quantitativo (riducendo il costo del denaro, annunciando un nuovo piano di prestito agevolato alle banche oppure interrompendo la sterilizzazione sugli acquisti di titoli di Stato). Ulteriore testimonianza che l’economia reale non è ancora in grado di camminare con le proprie gambe.

Detto questo, in termini reali per quel che riguarda l’«oggi» le condizioni non consentono improvvisi salti di gioia. E l’altro motivo per cui è presto per poter cantar vittoria lo si deduce osservando i fondamentali di alcuni dei Paesi (ex) periferici. Tra questi possiamo dare uno sguardo all’andamento del debito estero netto che sintetizza in pratica quanto un Paese è indebitato (sia a livello pubblico che a livello privato) con il resto del mondo. È una misura utile per calcolare una posizione di forza o di debolezza di un Paese. Ovviamente più è alto il debito, più soldi ci sono da restituire (anche in termini di interessi e cedole) agli investitori stranieri e questo indica debolezza.

Bene, i dati di oggi sul debito estero netto (come documenta anche questa tabella che comprende anche la posizione netta degli investimenti internazionali che aggiunge al dato sul debito estero anche i flussi derivanti da attività finanziarie e derivati) sono peggiori rispetto ai livelli pre-crisi.

Grecia e Portogallo hanno oggi un debito estero superiore al Pil (rispettivamente 120% e 101%) quando nel 2007 (in tempi non sospetti e prima della scoppio della bolla del debito privato che ha dato il là alla crisi dell’Eurozona) il debito netto estero della Grecia era del 70% e quello del Portogallo del 64%. Ma sulla base di questo parametro di vulnerabilità di un Paese anche la Spagna non se la passa bene. Viaggia oggi con un debito estero del 91% (praticamente quanto il prodotto interno lordo) in netto aumento rispetto al 60% del 2007. E l’Italia? C’è stato un aumento dal 41% del Pil al 58% (dal 2007 al 2013) ma si tratta di livelli decisamente più contenuti rispetto a Spagna e compagnia bella. Se poi si considerano anche i flussi finanziari, il rosso dell’Italia verso l’estero è del 27%, vicinissimo al dato della Francia (-21%) che però paga sul debito pubblico oltre 100 punti base in meno.

tatistiche che per certi versi confortano l’Italia. Quando gli investitori internazionali (quelli che stanno comprando in questi mesi i bond europei perché affamati di cedole in un contesto di discesa globale dei tassi e in virtù del rischio abbattuto di deflagrazione dell’euro dopo il «whatever it takes» di Draghi del luglio 2012) dovessero tornare a guardare i fondamentali (e quindi anche il debito estero) lo spread tra Italia e gli altri Paesi della (ex)periferia sarebbe destinato ad ampliarsi a favore di Roma.

 

Affitto unica azienda e leasing immobiliare

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D: Un imprenditore individuale è titolare di un’unica azienda ristorante. L’immobile in cui è esercitata l’attività è detenuto in leasing. E’intenzione dello stesso concedere in affitto di azienda l’attività con canone onnicomprensivo anche della componente immobiliare. ll concedente perderebbe la qualifica di imprenditore ed i redditi si configurerebbero quali redditi diversi. Si ritiene possibile considerare i costi dei canoni del leasing immobiliare, quali spese deducibili dai redditi diversi conseguiti? L’iva sui canoni di leasing sarebbe indetraibile e quindi tutto il canone (iva compresa) diverrebbe costo deducibile? Le interpretazioni sono corrette o vi sono soluzioni alternative?

R: In caso di affitto dell’unica azienda posseduta dall’imprenditore individuale, il locatore perde, anche se temporaneamente, la soggettività passiva IVA, con la conseguente sospensione degli obblighi strumentali (es. dichiarazione). Come precisato dalla C.M. 4.11.1986 n. 72/14552 la perdita della soggettività passiva è soltanto “temporanea”; essa, infatti, resta sospesa, in quanto il locatore conserva, ai soli fini anagrafici, il numero di partita IVA, restando esonerato da tutti gli obblighi IVA; pertanto, non si dovrà procedere, a seguito dell’affitto dell’unica azienda, alla dichiarazione di cessazione dell’attività. Per quanto concerne l’imposizione sui canoni di locazione dell’azienda, essendo omnicomprensivi anche della componente immobiliare, si presume che con riferimento ai canoni di leasing, ai sensi di quanto previsto dall’art. 71, co. 2, del TUIR non potrebbero essere portati in deduzione, in quanto non riguardano le spese di manutenzione dell’immobile ed inoltre il leasing è stato contratto su un immobile strumentale all’esercizio dell’impresa, non al fine di conservare la struttura aziendale.

Crisi Ucraina, la Nato annuncia una «revisione» dei rapporti con la Russia

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La Nato ha deciso di rafforzare la propria cooperazione con l’Ucraina e di rivedere quella con la Russia, sospendendo anche iniziative congiunte con Mosca. Lo ha annunciato il segretario generale Anders Fogh Rasmussen, sottolineando come tali misure puntino a «inviare un messaggio chiaro alla Russia perchè collabori alla de-escalation» della situazione in Ucraina. L’annuncio è stato fatto al termine della riunione Nato-Russia a Bruxelles.

«Abbiamo deciso di rivedere tutta la cooperazione Nato-Russia» e di sospendere la missione congiunta per la distruzione delle armi chimiche siriane, ha precisato Rasmussen. Allo stesso tempo, l’Alleanza atlantica «rafforzerà la propria partnership con l’Ucraina e la cooperazione a sostegno delle riforme democratiche», ha aggiunto. Il segretario generale della Nato ha sottolineato come la situazione in Ucraina «presenti serie implicazioni per la sicurezza e la stabilità» della regione e come la Russia «continui a violare» la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina.

Per questo motivo, l’Alleanza ha deciso di sospendere la sua prima missione congiunta con la Russia, la scorta alla nave americana Cape Ray, incaricata di distruggere le armi chimiche siriane. Tuttavia, la sospensione non avrà alcuna ripercussione sullo smantellamento dell’arsenale di Damasco. «Allo stesso tempo, vogliamo lasciare la porta aperta al dialogo”, mantenendo le riunioni del Consiglio Nato-Russia a livello di ambasciatori. Rasmussen riceverà domani il nuovo premier ucraino Arsenyi Yatseniuk, durante la sua visita a Bruxelles.

Immediata la replica di Mosca: la Russia si dice «molto delusa» per la decisone «preoconfezionata» della Nato presa «in violazione degli accordi» secondo i quali Russia e Alleanza Atlantica dovrebbero discutere preventivamente ogni decisione. Lo ha detto l’ambasciatore russo alla Nato, Grushko, affermando che è stato usato un «doppio standard».

Gli Usa: nessun accordo sulla crisi in Ucraina

Da parte loro, gli Stati Uniti fanno sapere che non hanno trovato alcun accordo con la Russia su un’uscita dalla crisi in Ucraina, come aveva affermato in precedenza il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov. Lo ha indicato una fonte diplomatica americana. «Non c’è stato accordo a questa riunione e non ci sarà mai senza un coinvolgimento diretto del governo ucraino», ha affermato questo responsabile del Dipartimento di Stato, dopo i colloqui di Lavrov con il suo omologo americano John Kerry.

Telefonata tra Merkel e Putin

Il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente russo Vladimir Putin hanno discusso dei possibili «scenari» per arrivare a una «normalizzazione» della situazione in Ucraina. Ne ha dato notizia il Cremlino sottolineando come la conversazione tra i due leader si sia svolta su iniziativa di Angela Merkel. I due leader, ha reso noto il Cremlino, hanno «discusso di scenari di cooperazione internazionale in vista di una normalizzazione politica della situazione in Ucraina».

Reputazione delle università, la classifica delle migliori: top 10 in mano a Usa e Inghilterra. Italia fuori

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Metodo diverso, stesso risultato. Il World Reputation Rankings di Times Higher Education, variante “d’opinione” della più nota classifica sulle migliori università mondiali, riconsegna a Usa e Regno Unito il primato nella qualità accademica: la top 10 è dominata dai supercollege nordamericani (Harvard, Mit, Stanford, Berkeley, Princeton, Yale, California Institute of Technology, Ucla) e inglesi (Oxford e Cambridge). Nessuna traccia dei poli italiani nelle 100 posizioni totali: i nostri atenei, già condannati da altri ranking per finanziamenti e outlook internazionale, perdono terreno anche tra i più di 10.500 giudizi accademici raccolti tra studiosi di tutto il mondo nel 2013. Harvard si conferma al primissimo gradino del podio. Rispetto al suo risultato, preso a modello con base 100, seguono Mit di Boston (90,4), Stanford University (74,9), Cambridge (74,3), Oxford (67,8), Berkeley (63,1), Princeton (35,7), Yale (30,9), California Insitute of Technology (29,2), Ucla (28,8). “Solo” 11esima Tokyo (27,7), nell’edizione dello scorso anno unica istituzione non nordamericana o britannica tra le prime 10. L’università italiana resta fuori dalla classifica, in una graduatoria che confina Humbdolt-Universitat di  Berlino e Sorbona di Parigi tra la 71esima e l’80esima posizione. I punteggi esatti dalla 50esima posizione in giù non sono disponibile, perché – a detta di Reuteurs – lo scarto è “troppo ristretto” per essere evidenziato.

La classifica sarà lanciata su scala mondiale domattina, a Tokyo, come primo step di una due giorni sul «management reputation» nell’istruzione superiore. A differenza del World University Ranking, l’indice sull’eccellenza accademica redatto con la consulenza di Thompson Reuteurs, la graduatoria si basa esclusivamente su «opinioni soggettive – anche se opinioni di riconosciuti e apprezzati accademici». Quindi pesanti quanto basta per influenzare gli stakeholder, tra i target principali delle griglie di valutazione del Times e degli altri ranking di categoria più influenti. La top 100 emersa nel 2014 è il frutto di 10.536 responsi ad altrettanti questionari, somministrati in un totale di 133 paesi. Gli intervistati devono indicare i 15 atenei che giudicano migliori, in base alla propria esperienza, nei macrosettori di scienze sociali, ingegneria e tecnologie, discipline umanistiche, discipline cliniche e sanitarie e scienze della terra. I risultati, comunque, restano soggettivi. Nella definizione fornita dal Times Higher Education, nella tipologia di domande avanzate («Dove manderesti i tuoi laureati più brillanti?») e, soprattutto, nella distribuzione geografica di chi ha risposto.

Il Social Network come Social Human Resource: luci ed ombre del mondo del Social Recruiting

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La ricerca di un posto di lavoro, per i giovani e per tutti coloro che lo hanno perso e che non fanno più parti della categoria “juniores”, sta assumendo la connotazione di un problema insormontabile. Quasi nessun Governo al mondo, può vantarsi di non annoverare tra le molteplici difficoltà da affrontare, quello della crescente disoccupazione. In un’epoca in cui Il Cyberspazio si propone come “stanza di compensazione” in cui riversare tutte le proprie esigenze, rimostranze, pulsioni, emozioni, ma a cui affidarsi anche per intercettare possibili soluzioni a problemi quotidiani, appare oltremodo naturale che ci si possa affidare ad esso per tentare l’ingresso nel mondo del lavoro. Quindi, ancora una volta, lo sterminato oceano di Internet, con le sue innumerevoli applicazioni e possibilità, assume la veste di elemento risolutore anche la costruzione di un futuro lavorativo. Naturalmente, anche in questo caso, non scarseggiano i portali da cui è possibile scaricare informazioni riconducibili ad offerte di lavoro, così come non difettano di presenze quei portali che si propongono come reti sociali in grado di sviluppare contatti professionali.

Tra questi, Linkedin è certamente il più noto, con suoi oltre 200 milioni di iscritti, censiti a gennaio 2013. Ma la sua numerosità impressiona anche da un punto di vista geografico, essendo presente, con i suoi servizi, in oltre 200 paesi al mondo. Anche per quanto concerne i ritmi di incremento dei membri, i numeri parlano chiaro: un milioni di iscritti a settimana. Con la maggioranza dei servizi offerti gratuitamente (ad esclusione di alcuni a pagamento), Linkedin è sostanzialmente un “social” pensato e sviluppato per accrescere i propri contatti professionali. Dalla sua sede di Palo Alto, in California, Linkedin controlla circa 150 comparti economici oltre a 400 “contesti territoriali economici”. Un aspetto interessante risiede nelle percentuali degli iscritti: ben il 56% risiede al di fuori degli Stati Uniti. Gli utenti europei ammontano ad oltre 22 milioni, e le nazioni che si annoverano tra le maggiori utilizzatrici, sono l’Olanda, la Francia e l’Italia. Anche se Linkedin è soprattutto un portale che mira all’incremento di contatti professionali, molti dei suoi estimatori hanno intravisto in esso un formidabile strumento di collocamento nel mondo del lavoro, dalle ineguagliabili potenzialità. Per certo, la possibilità di inserire in un portale professionale mondiale il proprio curriculum, che rappresenta per ognuno di noi una vera e propria carta di identità professionale per aziende e professionisti di ogni tipo, alimenta nella mente dell’uomo spazi di interpretazione che possono condurre a superficiali e facili considerazioni.

Con queste premesse, appare abbastanza chiaro lo schema psicologico di colui che decide registrarsi su Linkedin, per “costruire” un profilo professionale che gli possa consentire di accedere rapidamente nel mondo del lavoro, grazie all’utilizzo di uno strumento munito di straordinarie potenzialità . Ma la realtà alle volte supera la fantasia, ed è esattamente ciò sta accadendo nel mondo dei Social Human Resource (SHR). Innanzitutto, la prima domanda che ci si dovrebbe porre è la seguente: in tempi di crisi del lavoro, come quello che l’intero pianeta sta vivendo, ha ancora senso preparare un curriculum? Qualcuno potrebbe rispondere che di questi tempi sarebbe meglio ricercare un lavoro per il quale non siano richieste specifiche competenze o particolari professionalità, ma forse la domanda migliore potrebbe essere la seguente: ciò che inseriamo nei curricula online può effettivamente influenzare le nostre candidature per un posto di lavoro?

Una risposta la possiamo ricercare all’interno dell’indagine “Il lavoro ai tempi del social recruiting e della digital reputation” condotta nel 2013 da Adecco Italia, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Sfogliando i risultati dell’indagine, si evince che le relazioni sociali di tipo online, da sole, consentono unicamente di entrare in contatto con persone munite di uno status professionale (o lavorativo) superiore, e ciò permette solo di arricchire il proprio “profilo” in termini di qualità e considerazione. Ma secondo alcuni intervistati, che però sono in possesso di un posto di lavoro, la strada migliore da intraprendere per la ricerca di una collocazione lavorativa, è quella che si basa su un mix di molteplici strumenti: gli annunci online (40%), le agenzie per il lavoro (34%) e la rete di parenti e amici (32%). In altri termini, sempre secondo l’indagine, le sole relazioni social online non offrirebbero migliori prospettive di lavoro rispetto a quelle a cui canonicamente abbiamo fatto riscorso per decenni.

Tuttavia, tra i social online più utilizzati dai responsabili delle risorse umane, Linkedin primeggia con un 42% di preferenze, seguito da Facebook (29%) e da Twitter (9%). Ma per quanto concerne la “massa critica” dei disoccupati, essi si affidano prevalentemente a siti di offerte di lavoro (94%), le App (39%), Facebook (30%) e a Twitter (26%). Per quanto riguarda l’influenza dei diversi canali utilizzati, le valutazioni sono molto differenti: i valutatori gradiscono Linkedin (78%), e i siti di matching (72%). Coloro che sono alla ricerca di un lavoro, ripongono la loro fiducia principalmente sui siti di collocamento (70%), su Linkedin (29%) e dal “sempre verde” Facebook (20%).

Ma ciò che assume un particolare interesse, è la questione della digital reputation, cioè la verifica dell’effettiva consistenza e attendibilità del profilo professionale del candidato. Come asseriva Haruki Mukurami , si potrebbe sostenere che “La barriera tra una sana fiducia in sé stessi e un malsano orgoglio è molto sottile”, e forse è proprio su questo aspetto che la diffidenza sull’affidabilità delle “identità online”, assume una rilevanza sostanziale per i recruiter. Secondo l’indagine, il 77% dei selezionatori, verifica le informazioni personali di ogni singolo personal skill, attraverso ricerche approfondite e condotte principalmente con i motori di ricerca. Obiettivo: raccogliere il maggior numero di elementi che possano consentire una valutazione approfondita e completa dei candidati. E non è certamente un caso che i responsabili delle risorse umane, hanno dichiarato che nel 12% dei casi, hanno escluso aspiranti che avevano fornito informazioni incomplete o non veritiere. Un altro aspetto da non sottovalutare è quello della richiesta di accesso, da parte dei reclutatori, ai profili Facebook dei candidati, una pratica testimoniata dall’1% dei candidati e dal 5% dei reclutatori.

Ciò che traspare da questa indagine, è uno spaccato di una società in bilico tra l’utilizzo delle più moderne tecnologie di comunicazione online e la diffidenza verso le stesse. Se è innegabile che il mondo dei social media ha offerto ai datori di lavoro un terreno fertile da cui prelevare i frutti, è altresì vero che esso assume, nel contempo, la connotazione di un campo minato colmo di pericoli. Le PMI, nonostante gli indicatori dimostraino il loro crescente livello di interesse verso l’utilizzo di strumenti di ricerca online delle professionalità di cui necessitano, non sono ancora convinte della loro attendibilità. Di questo, la massa critica dei “cercatori di lavoro” ne è consapevole al punto tale da confidare ancora nelle agenzie di collocamento, nelle richieste fatte ad amici e parenti e nel tradizionale “porta a porta” effettuato solitamente tra le aziende del territorio in cui vivono. Anche il mito della raccomandazione resiste e continua a diffondersi nelle nuove generazioni. Secondo un sondaggio condotto nel 2013 dal settimanale cattolico Famiglia Cristiana, in Italia, su 800 maturandi delle scuole medie superiori, ben il 76% ha asserito che per trovare lavoro occorre “conoscere le persone che contano” e solo per il 48% è fondamentale essere preparati e competenti. Quasi sette maturandi su dieci (67%) non hanno la benché minima idea di quali siano i settori produttivi nel Paese in grado di offrire possibilità lavorative. Il 53% ritiene di non essere capace di comprendere come compiere le proprie scelte lavorative nella vita e il 60% è convinto che il futuro che li attende sarà sicuramente peggiore di quello dei propri genitori. Circa la metà (51%) ritiene che nella vita sia fondamentale avere fortuna.

In un paese come l’Italia, in cui si guarda ai “giovani” come elemento su cui fondare le basi per un rinnovamento globale, sarebbe opportuno ripristinare la cultura dell’onesta, della responsabilità, della meritocrazia e della legalità. È un compito che spetta inesorabilmente alle “vecchie” generazioni.
Saranno in grado di farlo?