29 Settembre 2024, domenica
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Il grande azzardo di Putin

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Il parlamento regionale della Crimea ha deciso di complicare la vita a tutti, e di aggravare la crisi, votando a favore dell’integrazione della penisola nella Russia, e annunciando un referendum confermativo per metà marzo, a condizione naturalmente che Vladimir Putin e la Russia dichiarino il loro accordo.

Ciò mette Putin in difficoltà perché pone indirettamente il problema delle altre regioni dell’Ucraina a maggioranza russofona, obbliga il governo di Kiev a reagire e rende più difficile la soluzione della crisi che sembrava delinearsi con il “soffice” ultimatum europeo alla Russia, che offriva a Mosca la foglia di fico di un “gruppo di contatto” per decidere assieme del futuro dell’Ucraina.

Guerra fredda
Molte cose possono quindi ancora andare male e obbligarci ad una sorta di nuova “guerra fredda”. I nazionalismi contrapposti dei militanti russi ed ucraini non sono facili da gestire e possono sempre provocare un pasticcio insanabile. D’altro canto anche Putin potrebbe decidere che il compromesso offertogli è insufficiente, o il Consiglio europeo potrebbe veder dissolversi quell’unione apparente di intenti che si è sinora coagulata attorno all’iniziativa tedesca.

E infine, tanto per completare il quadro del “caso peggiore”, una grossa crisi potrebbe scoppiare in qualsiasi momento nel Golfo o nel mar della Cina, rimescolando tutte le carte.

Tuttavia, in questo momento, a bocce ferme, e malgrado la grave provocazione della Crimea, la possibilità che la crisi ucraina possa cominciare a rientrare nei binari della normalità sembra ancora forte. Le cose ancora da decidere – quale status dare alla Crimea, come formalizzare i rapporti tra Ue e Ucraina, come regolare il triangolo Ue-Ucraina-Russia – occuperanno a lungo il tempo e l’ingegno di numerosi negoziatori, ma il rischio di uno scontro aperto al centro dell’Europa sembrerebbe recedere.

Russia perdente?
Se così fosse, ancora una volta, il perdente sarebbe la Russia, anche se dovesse assicurarsi un qualche controllo sulla Crimea e un qualche “droit de regard” sull’Ucraina. Comunque si rigiri la situazione, infatti, il “grande disegno” attribuito a Putin di ricostituire un grande spazio strategico, politico ed economico sulle terre dell’ex-Urss, con al centro Mosca, sarebbe fallito, perché non riuscirebbe ad includere l’Ucraina oltre a buona parte del Caucaso, alla Moldova e, ovviamente, alle tre repubbliche baltiche che già sono parte dell’Ue e della Nato.

In altri termini la Russia non avrebbe “clientes” europei, a parte la Transnistria, l’Armenia e forse la Biellorussia (ma per quanto ancora? Persino Lukaschenko, il padre padrone di Minsk, deve essere rimasto scosso e preoccupato per il trattamento sprezzante riservato da Putin all’ex-presidente ucraino Viktor Ianukovich).

Le ragioni di questa possibile sconfitta non sono ancora chiare, ma si possono fare alcune ipotesi. In primo luogo la crisi finanziaria ucraina, che minaccia soprattutto le banche e l’economia russa: a salvare il salvabile è dovuto intervenire con una sua dichiarazione il Fondo monetario internazionale (Fmi), ed ora potrebbero arrivare, se approvati, gli aiuti dell’Ue, ma questo significa che Mosca, oltre ad aver perso uno strumento di pressione, deve anche stare attenta a non aggravare una crisi che le farebbe molto male.

In secondo luogo, l’ipotesi di annettersi la Crimea ha lo svantaggio di aprire il vaso di Pandora delle altre regioni russofone dell’Ucraina: come dire loro di no? E se invece la Russia si imbarcasse in questo smembramento dell’Ucraina, malgrado i solenni impegni internazionali presi nella opposta direzione, come potrebbe evitare l’isolamento, la ghettizzazione e le inevitabili sanzioni?

Non basterebbe certo Gazprom a salvarla e la sua ambizione di ridiventare una grande potenza si allontanerebbe. Addio Europa, il futuro incerto di Mosca si giocherebbe solo in Asia, in un rapporto certo non facile né evidente con la Cina, vera grande potenza globale emergente.

In terzo luogo una simile operazione di smembramento e annessione porterebbe in Russia anche molti problemi economici e politici, incluse nuove minoranze agguerrite e ferocemente contrarie al governo di Mosca. Un cavallo di Troia?

Se la crisi rientra
Mettiamo dunque che la crisi finisca come vorrebbe l’Ue. Cosa accadrà poi? Sul fronte russo, un Putin insoddisfatto e frustrato sarebbe sempre più convinto della esistenza di un grande complotto occidentale per favorire in ogni occasione i mutamenti di regime; una strategia che, agli occhi di Putin, non può che mirare, a breve o lungo termine, a Mosca. Sarà possibile instaurare con il Cremlino un rapporto più equilibrato e comprensivo? Sinora l’Occidente non ha compiuto grandi sforzi in questa direzione, ed è un peccato.

Sul fronte europeo, l’Ue è oggi più tedesca di ieri, anche in senso politico, e non solo finanziario, e questo non piace molto alla Francia, che però non ha alternative, soprattutto perché il Regno Unito è divenuto sostanzialmente un “non-attore” europeo, privo di idee e di politiche.

Ciò potrebbe aprire qualche spazio per paesi come l’Italia, la Spagna, la Svezia o la Polonia, ammesso che abbiano qualcosa di proporre.

Certamente un’Europa che riuscisse a risolvere la crisi ucraina utilizzando l’appoggio americano, ma di fatto prendendo l’iniziativa, deve poi riuscire a restare all’altezza delle aspettative che suscita, sia ad Est che a Sud, ma per far questo ha bisogno di mobilitare grandi risorse e di uscire dallo schema riduttivo in cui si è rinchiusa durante la crisi economica.

È una grande sfida cui non sembriamo molto preparati, ma che difficilmente potremo evitare, specie se, in questa occasione, avremo successo.

Alla canna del gas?

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Le tensioni tra Russia e Ucraina fanno riemergere nel dibattito europeo e nazionale la questione della sicurezza degli approvvigionamenti energetici russi verso il vecchio continente.

Sebbene il rischio che Mosca decida di usare deliberatamente l’arma energetica, sospendendo le forniture di gas all’Ucraina o irrigidendo la propria posizione sulla questione dei debiti del governo ucraino sui pagamenti delle forniture di gas, sia concreto, l’impatto sull’Italia potrebbe essere meno drammatico del previsto. Almeno nel medio periodo.

Infatti, il mercato europeo del gas è attualmente caratterizzato da un eccesso di offerta, causata dal crollo dei consumi – risultato dell’attuale congiuntura economica e di una stagione invernale particolarmente mite. Anche in vista dell’avvicinarsi della bella stagione, la disponibilità di volumi sul mercato permetterebbe di attutire eventuali ritorsioni da parte del Cremlino.

Gazprom e il legame con Mosca
La possibilità che Mosca decida si sospendere le esportazioni di gas verso l’Ucraina è tutt’altro che remota, come dimostrato dall’esperienza del decennio passato.

Di fronte a una sospensione delle forniture, Kiev – che dipende per oltre il 50% dei propri consumi dalle forniture di Gazprom – potrebbe tentare di sottrarre parte dei volumi di gas destinati all’Europa, per utilizzarli sul mercato interno. Inoltre – conseguenza ben più grave – questo potrebbe indurre il Cremlino a ridurre anche le esportazioni destinate ai mercati europei, come accaduto durante la crisi energetica del 2009.

Non è poi da sottovalutare la possibilità che – a causa di un’escalation della violenza militare nel paese – alcune delle infrastrutture destinate al trasporto del gas vengano attaccate, determinando la sospensione forzata delle forniture attraverso il territorio ucraino.

Attraverso l’Ucraina transita infatti circa il 60% delle esportazioni di gas russo destinato all’Unione europea, pari al 20% dei consumi totali europei. Proprio nel 2013, anche a causa dell’apertura di Mosca alla rinegoziazione dei contratti, le forniture russe verso l’Europa hanno toccato il picco di 135 miliardi di metri cubi, facendo registrare una crescita del 16% rispetto all’anno precedente.

L’Italia, insieme alla Germania, è tra i grandi clienti di Gazprom, il cui gas contribuisce a soddisfare il 43% dei consumi interni ed è un elemento fondamentale per la capacità di generazione di energia elettrica nazionale.

Alternativa algerina
La situazione appare meno drammatica del previsto non solo per l’inverno mite che ci lasciamo alle spalle andando verso la primavera, ma anche perché la crisi economica che affligge l’Italia e l’Europa ha determinato una sostanziale riduzione dei consumi.

Nel 2013 i consumi italiani sono scesi a 70 Bcm – minimo storico dal 2002 – facendo registrare una contrazione del 7% rispetto all’anno precedente. Le importazioni si sono fermate a 62 Bcm, a fronte di una capacità totale di importazione e stoccaggio che si aggira attorno ai 110 Bcm.

Nel 2013, ad esempio, per divergenze con la compagnia algerina Sonatrach sul prezzo del gas, l’Italia ha ridotto significativamente (-40%) le proprie importazioni dal suo storico partner nordafricano. In caso di esigenza – magari pagando un premio sui prezzi data la situazione d’emergenza – le forniture dall’Algeria potrebbero essere incrementate per far fronte all’eventuale sospensioni dei flussi da parte di Gazprom.

Anche gli stessi terminal di liquefazione di gas di Panigaglia e Porto Viro, che hanno lavorato a ritmo ridotto durante il 2013 facendo registrare picchi negativi delle importazioni pari – rispettivamente – al 96 e al 13% rispetto al 2012, potrebbero contribuire a soddisfare la domanda.

Tap e diversificazione approvvigionamenti
L’ennesima crisi tra Mosca e Kiev non può che far riflettere i decisori politici sull’importanza di azioni decise verso il rafforzamento della diversificazione energetica.

L’Italia, negli anni, ha portato avanti un’ottima politica di diversificazione degli approvvigionamenti nel settore del gas naturale. L’ultimo importante successo è stata la decisione del consorzio Shah Deniz II di trasportare il gas dell’Azerbaijan in Italia attraverso il gasdotto Trans Adriatic Pipeline.

Purtroppo però, questa scelta di grande valenza strategica per il nostro paese – il gasdotto porterà ulteriori 10 Bcm sul mercato italiano, pari al 15% degli attuali consumi nazionali – è oggi messa a rischio dalla posizione del Comitato tecnico della Regione Puglia che ha espresso il proprio parere negativo sulla realizzazione del progetto.

Spesso, investimenti energetici di natura strategica per il nostro paese vengono messi rallentati o talvolta bloccati da lungaggini burocratiche o da vuoti di potere politico-amministrativi (si veda il caso del rigassificatore di British Gas a Brindisi).

L’attuale situazione in Ucraina, così come in passato le tensioni in Libia, ci devono necessariamente ricordare che un paese dipendente dalle importazioni come il nostro non può permettersi di perdere asset strategici per la propria sicurezza energetica, trovandosi di volta in volta minacciato da eventi geopolitici totalmente al di fuori del controllo nazionale.

Europa in ritardo sui diritti umani in Ucraina

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Come è possibile che uno Stato membro del Consiglio d’Europa sia scivolato sull’orlo di una guerra civile? E com’è possibile che un altro Stato membro del Consiglio d’Europa, ovvero la Federazione russa, abbia manovrato senza scrupolo prima la leva del ricatto economico e poi addirittura quella militare?

Kiev vista dal Consiglio d’Europa
Il Parlamento ucraino, il 14 gennaio, ha varato in condizioni caotiche le cosiddette norme anti-protesta, decisione che secondo l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Risoluzione 1974/2014) ha contribuito all’escalation violenta della crisi a Kiev.

E al di là degli eccessi da parte dei manifestanti più estremisti, moltissime persone sono scese in piazza per opporsi a un regime ormai tendenzialmente autoritario e le forze dell’ordine hanno usato una violenza brutale e spropositata (dai numerosi casi di sparizioni, torture e stupri al “tiro al bersaglio” sui manifestanti di giovedì 19 febbraio).

Gli eventi di Piazza Maidan, la fuga dell’ex presidente Viktor Ianukovich e l’intervento russo appaiono l’esito di un’involuzione annunciata. L’opera di controllo svolta dal Consiglio d’Europa indicava già da tempo che il livello di rispetto dei principi di democrazia, Stato di diritto e diritti umani in Ucraina era andato pericolosamente abbassandosi.

È vero che di fronte ad una repressione brutale, ma anche al coraggio degli oppositori, il Consiglio dell’Unione europea ha infine deciso l’adozione di sanzioni mirate e ha auspicato che i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani siano giudicati in seguito ad un’inchiesta indipendente, condotta sotto la supervisione di un “International Advisory Panel” del Consiglio d’Europa (ma Ianukovich ora è sotto protezione russa e né l’Ucraina né comunque la Federazione russa hanno ratificato lo Statuto della Corte penale internazionale).

È vero anche che l’Ucraina ha disperatamente bisogno di aiuti finanziari (ma non sappiamo se la situazione sarebbe stata diversa qualora l’Unione europea avesse messo in campo i miliardi necessari per tentare di indurre Ianukovich a scegliere l’accordo di associazione).

È pure indubbio che l’Ucraina è una realtà complessa da un punto di vista politico e identitario e che è stato azzardato, specialmente da parte di alcuni Stati, affrontare la questione principalmente nell’ottica strategica di attrarla nell’orbita occidentale. È vero infine che le relazioni con Mosca sono importanti e delicate (anche per via di ben noti interessi economici).

Affinità autoritarie con Mosca
Ciò detto, in un contesto autoritario e caratterizzato da gravi e ripetute violazioni dei diritti fondamentali, cui la presidenza Ianukovich assomigliava sempre più, tutto diventa più difficile anche perché un regime autoritario tenderà ad allinearsi con un regime affine, come quello al potere a Mosca, il quale tenderà a sua volta ad assecondarne altri della stessa fatta, se non peggiori (come in Siria), anche per interessi economico-militari.

E a complicare le cose, nei rapporti con la Federazione russa (e con la Cina), contribuisce anche l’incoerenza, rispetto alla legalità internazionale, di cui alcuni paesi occidentali hanno dato prova in più di un’occasione (in Iraq, in Libia e altrove).

Gli eventi in Ucraina mostrano, in fondo, che in Europa si tende ancora a dimenticare due lezioni duramente apprese alla fine della seconda guerra mondiale: un regime che vìola i diritti umani prima o poi diventa pericoloso per la propria popolazione ed eventualmente per altri paesi, mettendo quindi a rischio pace e sicurezza. Pertanto più si attende a reagire, più sarà difficile influire sugli eventi quando questi saranno precipitati.

Naturalmente, prima della seconda guerra mondiale non avevamo gli strumenti istituzionali di cui disponiamo oggi, il che rende ancora più seria la questione che ci poniamo.

Sanzioni
Gli stati membri del Consiglio d’Europa si affidano essenzialmente alla persuasione e al dialogo e tendono a procrastinare misure più incisive (l’espulsione dall’organizzazione, peraltro, è un’opzione più simbolica che realmente percorribile). D’altra parte l’Unione europea, che dispone invece di leve più efficaci, tende quasi sempre a muoversi tardivamente, non senza esitazioni, quando è costretta a farlo da una situazione che sta precipitando e più spesso in ordine sparso che in modo coeso.

È come se vi fosse una latenza eccessiva tra il lavoro di controllo, monitoraggio e allerta del Consiglio d’Europa e dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea da una parte e l’attivazione degli strumenti di intervento dell’Ue dall’altra. Il che solleva anche un serio problema di coordinamento fra istituzioni.

C’è tuttavia una soglia critica al di là della quale il dialogo ha una presa molto relativa e sembra anzi incoraggiare un potere autoritario ad osare di più. Se in tale evenienza non si reagisce tempestivamente, secondo modalità che ovviamente variano da caso a caso, ma in modo comunque deciso quando è necessario, ci si troverà probabilmente costretti a dover intervenire in uno scenario ben peggiore.

Il dialogo e la pressione politico-morale vanno percorsi per quanto possibile ma affidarsi solo a tali strumenti offre prospettive di successo decrescenti a fronte di strutture di potere che non mostrino più alcuna reale volontà di rispettare gli standard europei fondamentali.

Una volta superata la suddetta soglia critica occorre dunque passare a contromisure serie (escluso ovviamente il ricorso unilaterale alla forza), anche perché rinunciarvi scredita norme – e i valori che le sostengono – su cui (non dimentichiamolo) è stata (ri)costruita l’Europa del secondo dopoguerra.

Questo vale anche con riferimento alla Russia di Putin.

Un avamposto brasiliano a Cuba

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Di ritorno dal World Economic Forum di Davos, il presidente brasiliano Dilma Rousseff ha fatto tappa a Cuba, dove ha inaugurato il mega-porto di Mariel. Un’opera finanziata dalla banca pubblica di sviluppo brasiliana, il Banco Nacional de Desenvolvimento Economico e Social (Bndes), che ha provocato numerose polemiche in Brasile.

Infrastrutture bisognose 
L’intervento del governo brasiliano per la costruzione del porto di Mariel è stato criticato da più parti per il suo costo enorme, per il fatto che sia stata realizzato in una dittatura ancora formalmente comunista, ma soprattutto perché Brasilia ha speso a Cuba una cifra quindici volte superiore a ciò che spende per i porti situati sulla costa brasiliana.

In tre anni, il Bndes ha investito 682 milioni di dollari nel porto cubano, contro una media di 15,5 milioni di dollari spesi dal governo brasiliano per ampliare e ristrutturare gli intasati e poco efficienti terminali portuali nazionali. Se si pensa che il porto avrà una capacità del 30% superiore al porto di Suape, uno dei più importanti del Brasile, si può comprendere perché le critiche sono state così accese.

La parte comica di tutta questa vicenda è che la Rousseff aveva appena tenuto un discorso davanti al ghota della finanza internazionale riunito a Davos, cercando di convincerli a tornare ad investire in Brasile, citando il grande piano per le infrastrutture varato dal suo governo che avrebbe “affrontato i nodi provocati da decenni di sub-investimenti e aggravati dal forte aumento della domanda negli ultimi anni”.

Flussi commerciali
Le ragioni che hanno portato il governo brasiliano ad investire a Cuba non sono soltanto ideologiche, pur essendoci un forte legame tra l’ex-presidente Ignacio Lula, la Rousseff e i fratelli Castro. Secondo Brasilia, il porto di Mariel sarà un avamposto importate per i flussi commerciali brasiliani nei Caraibi, in Centro America, ma soprattutto verso il primo mercato de mondo, gli Stati Uniti. Una previsione che da praticamente per scontato la fine del quasi cinquantennale embargo imposto da Washington all’Havana.

Il porto ha dimensioni sufficienti per ospitare le navi da carico tipo Post-Panamax, super-portacontainer che transiteranno per il Canale di Panama dopo il suo problematico ampliamento, previsto per il 2015. Mariel è considerato avanzato tanto quanto i principali porti dei Caraibi, come Kingston, in Jamaica, e Freeport, alle Bahamas.

Inoltre, nell’entroterra annesso alle banchine verrà realizzata una Zona economica speciale, su modello di quelle create in Cina, anch’essa finanziata dal Brasile con una linea di credito di 290 milioni di dollari. Il progetto prevede che aziende brasiliane possano installarsi e operare a condizioni particolarmente agevolate, usufruendo della manodopera a basso costo e relativamente qualificata offerta da Cuba.

Infine, l’intera infrastruttura portuale è stata realizzata dalla Oderbrecht, gigante brasiliano dell’edilizia, responsabile per la realizzazione di molti stadi della Coppa del Mondo di calcio di quest’anno. Gran parte dei fondi destinati a Mariel sono stati vincolati ad essere spesi in Brasile per l’acquisto di beni e servizi. Secondo i calcoli di Brasilia, questa operazione ha portato alla creazione di oltre 156 mila posti di lavoro diretti e indiretti in territorio brasiliano.

Diplomazia commerciale
Un’operazione di diplomazia commerciale a tutti gli effetti per aumentare l’influenza del Brasile nelle Americhe, in un punto in cui gli Stati Uniti non hanno possibilità di ingresso. Le buone relazioni con Cuba sono una tradizione della politica estera brasiliana. Dopo aver riallacciato i rapporti diplomatici nel 1985, la relazioni tra i due paesi sono migliorate ogni anno.

Brasilia e l’Havana si sostengono spesso a vicenda nelle votazioni per posizioni rilevanti nelle organizzazioni internazionali di cui fanno parte. E dall’arrivo al potere del Partito dei lavoratori (Pt), i rapporti si sono fatti sempre più stretti. Nel 2013 il Brasile ha addirittura “importato” medici cubani per il programma “Mais Medicos” che ha portato assistenza sanitaria nelle regioni più remote.

Tuttavia, l’investimento di risorse pubbliche brasiliane in un paese che non rispetta i diritti umani è stato fonte di imbarazzo per il governo. La risposta di Brasilia è stata pragmatica: il primo partner commerciale del Brasile è la Cina e un altro importante mercato per le merci brasiliane è il Venezuela, entrambi non proprio paladini nella difesa dei diritti dell’uomo.

La critica più velenosa al porto di Mariel supera però qualsiasi questione politica o ideologica. In un anno di elezioni presidenziali come il 2014, molti hanno ricordato come la Oderbrecht sia una delle principali aziende finanziatrici delle campagne elettorali del Pt.

E chiunque volesse dare un’occhiata a come sono stati spesi i fondi del Bndes a Cuba dovrà aspettare a lungo. Brasilia ha infatti classificato come “segreto di Stato” fino al 2027 il contatto di finanziamento del porto di Mariel. Un modus operandi molto più consono ad una piccola dittatura caraibica che alla più grande democrazia latinoamericana.

TRA SANZIONI UE, CRISI UCRAINA E DIVERGENZE MERKEL-OBAMA RENZI HA BEN ALTRO CUI PENSARE CHE LE DIATRIBE CASALINGHE

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Caro Renzi, siamo già alle scarpe piene di sassi e sassolini, da svuotare? E la risposta alle critiche è il presunto merito di “non stare chiuso nei palazzi” perché c’è da togliere l’acqua in cui sguazza Grillo? Cari critici, vecchi e nuovi, del Rottamatore, non avete altre frecce al vostro arco che la polemica sui membri del governo “avvisati” (ma non era di garanzia, l’avviso?) o spendaccioni (in francobolli), le canzoncine degli scolari, la guerra dentro il Pd? Occhio, entrambi, che qui i temi che meritano attenzione sono ben altri. Su cui Renzi deve assumersi la responsabilità di dare risposte chiare, unico vero antidoto alla deriva di dispute prive di senso di cui gli italiani, dopo vent’anni di bipolarismo armato, sono stanchi morti. Possiamo metterci d’accordo per un bel disarmo bilaterale? Tu smetti di fare l’inutile e populista giro delle scuole d’Italia, e voi, suoi avversari e critici, smettete di rompere le scatole con provocazioni e diatribe altrettanto inutili. Anche perché l’ascesa di Renzi a palazzo Chigi coincide con un paio di passaggi cruciali che ben presto si riveleranno storici: il redde rationem dentro l’Euroclub sulla politica economica e monetaria da tenere per imboccare definitivamente la strada della ripresa; il caso Ucraina, che in realtà sta rivelandosi sempre di più il caso Putin e le sue mire espansionistiche. Due temi apparentemente diversi ma in realtà molto più sovrapposti di quanto non si creda. Non fosse altro per la posizione di Obama: contro la linea tedesca che impedisce alla Bce di usare la leva monetaria come la Federal Reserve – con molte conseguenze negative per gli Stati Uniti – e contro Putin, e quindi ancora contro la Germania che verso la Russia e il suo gas ha un occhio di riguardo e fin troppa benevolenza.
Allora, proviamo noi a mettere in fila i problemi. Prima questione: la decisione della Commissione europea di metterci tra i “sorvegliati speciali” è un commissariamento vero e proprio, pur senza uso di troika, e quindi rappresenta un atto di ostilità nei confronti di Renzi e del suo governo, oppure è in realtà un favore fatto al nuovo presidente del Consiglio, cui viene data l’opportunità di opporre alle ritrosie nazionali verso il risanamento e le riforme strutturali il diktat europeo cui non ci si può sottrarre? Seconda questione: che relazione c’è tra questa uscita – la cui tempistica è quantomeno sospetta – e la vicenda russo-ucraina, su cui l’Europa ha mostrato con evidenza palmare una spaccatura tra la linea “filo Putin” della Merkel e quella opposta in sintonia con Obama? Terza questione: perché Renzi, la cui ascesa a palazzo Chigi al posto di Letta è stata apertamente sponsorizzata dagli americani nella speranza di costruire una diga nei confronti della politica estera ed economica della Germania, di fronte allo scontro Putin-Obama si è schierato, pur prudentemente, dalla parte dei tedeschi? Solo per tutelare gli interessi italiani nell’approvvigionamento del gas, o c’è dell’altro? Quarta questione: come mai mentre Renzi, né ex comunista né socialista, porta il Pd dentro il Pse, sposando dunque la candidatura di Martin Schulz alla presidenza della Commissione Ue, invece Romano Prodi benedice pubblicamente il liberaldemocratico Guy Verhofstadt?
Si tratta di quesiti che possono sembrare disgiunti l’uno dall’altro, ma che in realtà sono una sola questione, che investe pienamente la tenuta dei vecchi equilibri geopolitici e geoeconomici venutisi a delineare dal 1989 in poi, quelli post caduta del muro di Berlino e fine del comunismo organizzato su scala imperiale, che hanno messo la parola alla lunga stagione apertasi con Yalta. Domande a cui è complicato dare una risposta secca. Per esempio, è difficile negare che quello del solito Olli Rehn e soci sia stato un intervento a gamba tesa, visto che il debito al 133% del pil è dato noto così come il nostro deficit di competitività. Senza contare che il surplus commerciale della Germania è cosa non meno grave dei nostri squilibri, i quali andrebbero analizzati tenendo anche conto che negli ultimi 22 anni solo una volta non abbiamo prodotto avanzo primario (saldo tra entrate e uscite al netto dei costi del debito). Ma nello stesso tempo, è vero che le nuove regole di governance dell’Eurogruppo prevedono che Bruxelles possa dettare le misure da prendere se un paese da solo non lo fa, ed è palese che noi i nostri compiti a casa non li abbiamo fatti. Inoltre, fin qui non siamo stati capaci, per ignavia e mancanza di credibilità, di imporre una linea alternativa a quella tedesca, e in politica chi soccombe ha sempre torto. Tuttavia, queste considerazioni non aiutano a sciogliere il dubbio: era un brutto fallo intenzionale, o un finto intervento cattivo che Renzi, al di là delle parole usate ieri per respingere al mittente il diktat, può usare come scudo? Il fatto è che per rispondere a questo dilemma bisognerebbe rispondere all’altra domanda: su Ucraina e Crimea, Renzi ha dovuto tener conto della nostre forte dipendenza da Mosca in campo energetico ma il suo cuore batte comunque per Obama, oppure ha scelto di stare deliberatamente con la Merkel? E intorno a lui, uomini dalle relazioni ben più consolidate e ramificate, che partita giocano? Padoan, l’unico ministro che non fa parte del “monocolore Renzi” e detentore di solidi legami con Draghi, che a sua volta è certo più vicino agli americani che ai tedeschi, che gioco gioca? E Prodi, che molti sensori avevano intercettato vicino all’astro nascente Renzi, come mai imbocca una strada opposta nelle sponsorship in vista delle prossime elezioni europee? Nodi ingarbugliati, che nemmeno un Andreotti d’annata sbroglierebbe con facilità.
Al momento della nascita del governo Renzi, abbiamo scritto che la nostra sarebbe stata una posizione di “supporto critico”, nella convinzione che il Paese non può permettersi di perdere altro tempo e incamerare l’ennesima sconfitta nell’affannoso tentativo di passare dalla Seconda alla Terza Repubblica, mentre la gran parte degli italiani – e gli imprenditori in particolare – appuntano tutte le (residue) speranze di ripresa alla capacità di Renzi di essere davvero l’uomo della “rottura”. Restiamo di quell’idea. Ma ora bisogna che Renzi smetta di fare il leader politico che gira l’Italia come se fosse in campagna elettorale e indossi l’abito del presidente del Consiglio di un paese consapevole di tre cose fondamentali che, come abbiamo visto, convergono in un unico punto: a. che l’Italia deve fare le riforme che finora ha evitato, e farle con un approccio davvero rivoluzionario; b. che l’Europa così com’è non regge ed espone l’euro al pericolo di disintegrarsi; c. che il mondo rischia di tornare alla contrapposizione Est-Ovest di un tempo, e noi torniamo ad essere terra di frontiera.
Matteo, batti un colpo o sono guai.

Campania, tutte le PMI che ospiteranno tirocini formativi per dottori di ricerca

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E’ aggiornata al 27 febbraio 2014 la bacheca regionale delle PMI che hanno aderito al programma Dottorandi in Azienda.
La misura finanziata con le risorse del Fondo Sociale Europeo (FSE) 2007-2013 consente ai dottorandi delle università in Campania di svolgere tirocini formativi presso le piccole e medie imprese, alternando momenti di studio e lavoro agevolando le proprie scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro.

Come accedere ai percorsi formativi?

Le università adottano dei progetti formativi nell’ambito della ricerca scientifica applicata al mondo produttivo regionale.
Sono prioritari quei progetti inseriti nei settori di edilizia, agroalimentare, tessile, turismo, nautica e green economy. Ogni percorso può prevedere un numero variabile di dottorandi.

Il dottorando seleziona dalla bacheca regionale l’azienda. Questi sottoscrive con l’Università e lo stesso dottorando il patto formativo che disciplina le modalità di coordinamento delle attività a carico dell’impresa e dell’istituzione formativa nonché gli obblighi a carico del borsista.
L’accordo prevede inoltre la definizione dei contenuti del percorso nonché l’esplicazione delle caratteristiche, dell’articolazione e delle metodologie utilizzate.

La bacheca regionale del programma Dottorandi in Azienda è valida fino al 30 giugno 2015.

 

OMICIDIO DEL BROLETTO, IL GIORNO DEL RICORDO

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daniela-crispolti-margerita-peccati-2Il 6 Marzo l’Umbria ha ricordato Margherita Peccati e Daniela Crispolti, le due dipendenti della Regione uccise il 6 marzo di un anno fa sul posto di lavoro, mentre stavano svolgendo le mansioni quotidiane nel loro ufficio, dalla follia omicida di un uomo.  
 
E’ stato un giorno di dolore per tutta la comunità umbra, ma è anche e soprattutto il giorno del ricordo, perché non possiamo dimenticare quanto accaduto e soprattutto non possiamo permettere che il disagio sociale ed economico che serpeggia nelle nostre società finisca per scatenarsi contro coloro che lavorano nel settore pubblico spesso oggetto di attacchi denigratori. 
 
Margherita e Daniela erano l’esempio della competenza, della professionalità, dell’impegno e della passione per il lavoro, e a loro rivolgo oggi il mio pensiero”.  
 
On. Giampiero Giulietti

Rotary e scoutismo simili nel servizio

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Biella_e_ArgentoNe ha parlato il presidente Biella al Club Taranto Magna Grecia

Rotary e scoutismo simili nel servizio

Ci possono essere  dei punti di contatto fra il Rotary e lo scoutismo? Apparentemente nessuno; invece ce ne sono a detta del presidente del Rotary  Club Taranto Magna Grecia, Antonio Biella, che è stato vicesegretario nazionale del Masci, il movimento adulti scout cattolici italiani.

E’ stato proprio il presidente Biella a tenere una conversazione  su questo argomento presentando ai rotariani il libro “di testo” dello scoutismo internazionale che è “Il Piccolo Principe”: un libro scritto nel 1943 per i bambini e che, invece, contiene profondi insegnamenti per gli adulti. Tanto che il libro di Antoine de Saint-Exupéry è ancora tra i più venduti  in tutte le librerie del mondo.

La parola chiave per entrare nelle similitudini fra l’associazione di professionisti e imprenditori creata a Chicago nel 1905 dall’avvocato Paul Harris, e il movimento educativo (inizialmente solo per ragazzi) creato da Sir Robert Baden-Powell a Londra nel 1907, è “servizio”.

Il motto internazionale del Rotary è “servire al di sopra di ogni interesse personale”; e i tre punti della Promessa scout sono “servire Dio e la Patria e aiutare gli altri in ogni circostanza”. Insomma, se lo scoutismo viene spesso rappresentato dal boy-scout che aiuta la vecchietta ad attraversare la strada, il Rotary oggi non può che identificarsi nel service planetario dell’eradicazione della polio nel mondo, così come nei tanti service che ogni Club realizza per i bisogni della propria città.

gruppo_nel_ParlamentoLa seconda parola chiave è “amicizia”. <Oggi gli uomini non hanno più tempo e comprano tutto  dai mercanti – dice la volpe al piccolo principe – ma poiché non ci sono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se vuoi un amico, addomesticami>. L’amicizia – ha detto Biella – è l’arte di addomesticarsi a vicenda, nel senso di “rendere domestico”, familiare, l’uno all’altro, con l’aiuto dei riti. L’amicizia permette agli scout, di dieci come di ottant’anni, di coeducarsi  al fine di servire; e lo stesso accade nel Rotary: senza uno spirito di amicizia, ogni Club diventerebbe ingestibile e inutile.

Al termine della conversazione su “Il Piccolo Principe”, il presidente Biella ha dato un riconoscimento al socio pastpresident Angelo Argento per aver organizzato perfettamente un breve ma intensamente istruttivo viaggio in Romania per rotariani e loro amici: dall’ex Casa del Popolo di Ceausescu (il più grande edificio pubblico al mondo dopo il Pentagono) a Bucarest, oggi sede del Parlamento; al castello di Bran conosciuto come castello di Dracula; dalla sfarzosa  ed elegante residenza reale estiva di Peles, alla storica birreria (1879) Caru cu Bere, perfettamente conservata.

Nelle foto, il gruppo in un enorme salone del Parlamento; e il presidente Biella mentre consegna il riconoscimento ad Angelo Argento.

Il prossimo 11 marzo , a Milano, si terrà il corteo “Basta Suicidi, Equitalia azzera i debiti!”

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luca miatton, partito dei cittadini-  rai, mediaset e la7 , sempre le stesse faccie. o si comportano bene o si comportano male, la visibilità viene data sempre agli stessi politiciIl prossimo  11 marzo , a Milano,  si terrà il corteo “Basta Suicidi, Equitalia azzera i debiti!”, indetto dalle Associazioni Movimento dell’Italia in Mutande  e ?Alt?. Hanno aderito i Forconi del Veneto ? Coordinamento 9 dicembre?

Corteo indetto per l’azzeramento dei debiti da parte di  Equitalia. Richiesta  di una sanatoria.

Si partirà alle ore 12,30 da Porta Venezia fino ad arrivare all’angolo con Via San Gregorio, sede di Equitalia.

Sfilando in un corteo,  ispirato al pacifismo,  le suddette Associazioni chiederanno ad Equitalia di azzerare tutte le posizioni debitorie in essere alla data del  31 dicembre 2011.  Si chiederà una sanatoria con lo scopo di soccorrere molti cittadini ed imprenditori ormai al collasso a causa dei debiti. Si vogliono prevenire atti estremi da parte dei cittadini esausti e terrorizzati dalla propria situazione debitoria , ritenuta irreversibile e motivo del loro crollo sociale, tale da condurli sui marciapiedi a chiedere l?elemosina .

Sarà un  corteo che sfilerà a favore dei diritti delle vittime della crisi , che porrà in luce l?eccessiva pressione di Equitalia, responsabile, secondo gli organizzatori, della morte di alcuni imprenditori.

” Saremo in tanti – sostiene Ivano Bono – del Coordinamento 9 dicembre – Forconi Veneto – e ci faremo sentire. Dobbiamo fare sentire la nostra voce. Equitalia deve ascoltarci!”

” Equitalia ? sostiene  Luca Miatton,  Presidente  del Movimento delle Mutande e dell?Associazione ?Alt? – è responsabile di aver causato la morte di molti imprenditori in quanto  si sono sentiti abbandonati quando Equitalia ha tolto loro la casa  ed i propri beni ed hanno deciso di suicidarsi.Dobbiamo assolutamente evitare che ciò continui e dobbiamo manifestare affinché il Governo trovi delle soluzioni che frenino quella  che si può definire  una vera e propria mattanza di esseri umani” .

” L’11 marzo è una data importante – aggiunge Biagio Maimone , Fondatore Associazione Progetto di Vita – perché è l’inizio di un nuovo percorso sociale che vede i cittadini coesi  nella rivendicazione del diritto alla tutela quando essi cadono nelle trame più tragiche della povertà , di cui l?indebitamento è la conseguenza più devastante perché butta sui marciapiedi  quanti in esso si trovano imbrigliati .

Noi dell’Associazione Progetto di Vita non ci saremo alla manifestazione,  anche se siamo i fautori della richiesta di un disegno di legge per l’azzeramento dei debiti da parte di Equitalia.

Lo Stato Italiano deve porgere loro la mano ed estrarli da una condizione che fa dell?essere umano un barbone , incapace ormai di reagire , che , crollato nella disperazione,  può  ricorrere  al suicidio .

Dobbiamo aprire la porta della speranza  a chi non ha più denaro , ricreare le basi da cui si possa ripartire per non morire ai bordi di un marciapiede .

E? questa la democrazia, essa  si configura solo in termini di amore per popolo, al di là della sterile retorica .  L?indebitamento è la conseguenza di un?economia  che sta morendo . Lo Stato,   che ha dimostrato di elargire contributi a favore di Regioni che non hanno saputo governare, deve  elargire  un altrettanto necessario ed adeguato  contributo per  chiudere lo stato debitorio dei cittadini nei confronti di Equitalia .

E? questa la democrazia, essa  si configura solo in termini di amore per popolo, al di là della sterile retorica .  L?indebitamento è la conseguenza di un?economia  che sta morendo . Lo Stato,   che ha dimostrato di elargire contributi a favore di Regioni che non hanno saputo governare, deve  elargire  un altrettanto necessario ed adeguato  contributo per  chiudere lo stato debitorio dei cittadini nei confronti di Equitalia .
I cittadini meritano tale intervento . Esso non è solo un atto di civiltà , è , innanzitutto, il presupposto  per riammettere nel circuito economico quanti ne restano esclusi e farli diventare forza propulsiva dello sviluppo economico.”
E aggiunge  : “le rivendicazioni sociali sono importanti  e sono efficaci se non accompagnate dalla violenza e dagli scontri con le forze dell’ordine.  Noi avalliamo, invece,  ogni comportamento che si ispira alla protesta non violenta di tipo gandiano  e cristiano”.
All’inziativa parteciperanno i Forconi Veneto – Coordinamento 9 dicembre con l’avvallo del Coordinamento nazionale

CONDANNE CORTE DEI CONTI, PAGHINO I POLITICI

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Brescia e D’Ambrosio (M5S): il Ministro Orlando ci dia una risposta

ROMA – Le condanne della Corte dei Conti rimangono spesso sulla carta: centinaia di milioni di sanzioni inflitte a chi ha provocato un danno allo Stato non diventano mai effettive. Chi paga? Se lo chiedono i deputati del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Brescia, vicecapogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera dei Deputati, e Giuseppe D’Ambrosio, presidente della Giunta delle elezioni di Montecitorio. “La quota più consistente pare allocata nei capitoli gestiti dai dipartimenti del ministero dell’Economia oltre a quelli, pure cospicui, del Ministero della Difesa, della Giustizia e dell’Interno. In passato andava peggio: negli anni ‘90 lo Stato incassava circa l’uno per cento del denaro cui aveva diritto”.

La Procura della Corte dei Conti ha tracciato un bilancio dell’attività tra il 2005 e il 2010: si è arrivati a recuperare il 19,8 per cento delle somme stabilite dai giudici. Meno di un quinto del totale. “Ma la colpa non è della Corte” – ha aggiunto il deputato Brescia – “basta ripercorrere l’iter necessario per eseguire le sentenze per capire le radici del problema: c’è la sentenza di primo grado, poi il secondo, quindi la parola passa alle amministrazioni danneggiate che devono farsi restituire il denaro. Trascorrono anni”.

Lo Stato, in questo frangente, purtroppo, non è un creditore molto aggressivo. Gli eventuali sequestri rischiano di arrivare tardivamente quando i beni risultano “svaniti” e al massimo si può pignorare un quinto dello stipendio. “Prendiamo il caso di un dipendente pubblico licenziato per il danno arrecato – ha continuato D’Ambrosio – anche in caso di truffa allo Stato, egli ha diritto al trattamento di fine rapporto su cui non è possibile rivalersi”.

Stesso discorso per i politici che amministrano in modo disastroso, costringendo chi viene dopo a predisporre decreti “salva tutto e tutti”, a spese dei cittadini. Insomma i condannati cercano di non pagare e spesso ci riescono. “La nostra proposta – aggiunge D’Ambrosio – accolta dal Governo nella seduta del 20 dicembre 2013, con un timido ordine del giorno, prevede che l’esecuzione invece di essere affidata alle amministrazioni danneggiate, talvolta amministrate da persone politicamente collegate ai condannati, potrebbe essere affidata alle Procure della Corte dei Conti che hanno promosso il giudizio contabile”.  Per i deputati pentastellati: “il recupero del giusto risarcimento sarebbe più certo e offrirebbe minori occasioni di “disastri”, visto che i politici si troverebbero a pagare i danni con i propri beni.”

“Dal 20 dicembre scorso dunque siamo in attesa di una iniziativa, in tal senso, del Ministro della Giustizia – ha concluso Giuseppe Brescia prossimo capogruppo M5S – stiamo ancora attendendo”.

Ufficio Stampa

on. Alberto De Giglio