30 Settembre 2024, lunedì
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l MoVimento 5 Stelle verso le Europee e le Amministrative #innovazioneincomune

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logobha

Il MoVimento 5 Stelle Bari, sabato 15 marzo dalle 16.00 alle 20.00 sarà in pieno centro in Via Sparano angolo Via Abate Gimma e domenica 16 marzo dalle 9:00 alle 13:00, nei quartieri Carbonara in Piazza Umberto I, lato Via Gioberti e Carrassi al Parco 2 Giugno, ingresso Viale Einaudi, per continuare il percorso di difesa dei quartieri dai partiti e dalle lobby che oggi hanno le mani sulla città.
Dalla mattina del 16, al Parco 2 Giugno, presenzieranno David Borrelli, il primo consigliere comunale eletto in Italia e punto di riferimento nazionale del MoVimento 5 Stelle, Lello Ciampolillo, portavoce al Senato, e Vincenzo Madetti, candidato Sindaco per discutere delle strategie per i prossimi appuntamenti elettorali sia per le europee, che per la nuova amministrazione cittadina.

L’obiettivo principale è portare trasparenza e innovazione in Comune per raggiungere il 100% della partecipazione affinché nessuno resti indietro.

Ufficio Stampa

La chiave di svolta della finlandizzazione

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Solo le prossime settimane ci diranno se la questione Ucraina è destinata a diventare uno spartiacque storico che condizionerà per lungo tempo in modo antagonista Russia da un lato e Stati Uniti ed Europa dall’altro, oppure resterà solo un vistoso ostacolo temporaneo, superato il quale si aprono nuovi – per certi versi inattesi – orizzonti.

Amici o vassalli di Putin
Nella visione putiniana in effetti, la Russia non è impegnata in una politica espansionista, ma al contrario sta difendendo il proprio interesse vitale a non essere relegata fra i comprimari nel grande gioco strategico, un gioco le cui regole l’Occidente postmoderno crede siano solo un retaggio, relegato nei manuali di storia.

La Russia di Putin, che si sente l’erede di una storia millenaria, non è solo l’epigono dell’Unione Sovietica ma continua ad essere il paese più grande del mondo in termini di superficie, e non vuole essere schiacciato a occidente e a oriente da potenze che non riuscirà mai a percepire come amiche, anche perché consapevole delle sue insuperabili debolezze strutturali, dalla demografia in discesa al fatiscente quadro industriale, che non consentono alla dirigenza di Mosca di guardare con ottimismo alle decadi future.

Ne consegue l’ansia di circondarsi di una fascia di paesi in qualche modo legati da un vincolo che, a seconda del punto di vista, si può definire di amicizia o di vassallaggio e viene considerato oggi inaccettabile quanto accaduto all’inizio del secolo, quando, in una fase di estrema debolezza, la Russia ha dovuto inghiottire il boccone amaro dell’adesione alla Nato dei Paesi Baltici.

Non deve sorprendere dunque se oggi, sull’onda di una forza finanziaria generata dalla rendita energetica e rassicurata da quella che percepisce come una crescente debolezza strutturale occidentale, sia in termini economici che militari, Mosca non è più disposta a subire quella che percepisce come un’ulteriore erosione della propria area di sicurezza.

Ucraina al bivio
Quanto accaduto negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi in Ucraina ha fortemente alimentato le preoccupazioni russe, con una spaccatura tra due fazioni che si sarebbe dovuta evitare e le cui colpe possono essere equamente distribuite: da un lato chi sogna un’impossibile riunificazione con Mosca, percepita come Grande Madre ed a cui è pesantemente legata, non fosse altro che per le forniture energetiche, dall’altro chi invece guarda all’Occidente come il solo attore che possa offrire una prospettiva di futuro sviluppo e di apertura di mercati che possa far rinascere un’economia ansimante. Due visioni percepite come confliggenti e mutuamente esclusive.

L’errore di entrambe le parti, Occidente e Russia, è stato quello di alimentare queste visioni senza cercare sagacemente una sintesi che avrebbe potuto, e potrebbe ancora, portare al superamento di queste opposte visioni: un grave errore, alimentato dalle reciproche diffidenze antiche di quasi un secolo cui è tempo di rimediare.

Non è obbligatorio che Kiev stia da una parte o dall’altra: bisogna trovare una via di mezzo che salvaguardi gli obiettivi a breve di entrambi e costituisca inoltre il fondamento di una futura collaborazione strategica che è storicamente indispensabile, per essere pronti ad affrontare con successo le sfide poste dell’emergere di culture e potenze la cui compatibilità con la visione del mondo che ci appartiene è dubbia e tutta da dimostrare.

Ricordi georgiani
Washington e i partner europei non hanno una visione e conseguentemente una politica del tutto coincidente: si può rammentare il franco dibattito al vertice Nato di Bucarest dell’aprile 2008, tra chi voleva offrire subito a Georgia ed Ucraina l’adesione all’Alleanza e chi era invece su posizioni più prudenti. Ne uscì una promessa che in un futuro da definire le porte si sarebbero aperte, ma la reazione russa non si fece attendere, anche perché innescata da atteggiamenti discutibili della leadership georgiana e nella prima decade di agosto si consumò un breve conflitto con cui Mosca ritenne di avere salvaguardato i propri interessi nella regione.

Peraltro la prova offerta dalle forze armate russe non fu esaltante, nonostante la pochezza dell’avversario e Mosca dovette constatare che la propria macchina militare presentava gravi carenze: a titolo di esempio si può citare il fatto che una gran parte del munizionamento di caduta utilizzato dall’aeronautica russa (le stime vanno da oltre il 50% fino a quasi il 90%) non esplose per la pessima manutenzione delle spolette.

La lezione fu messa a frutto e oggi le forze armate russe godono di una grande attenzione da parte del vertice politico, che sta investendo in modo massiccio sia per l’ammodernamento dei mezzi (più 44% nei prossimi tre anni), sia per rinforzare il morale e il livello di disciplina delle proprie truppe.

Da questa esperienza ci si sarebbe potuto attendere un atteggiamento radicalmente diverso da parte dell’Occidente, non di appeasement, ma propositivo, di superamento di una visione e di una conseguente politica di contrapposizione.

È illuminante l’articolo di qualche giorno fa di Hanry Kissinger sul Washington Post, che sollecita un approccio mirato a attenuare le contrapposizioni interne all’Ucraina, mettendo da parte qualsiasi ipotesi di una sua adesione alla Nato che sarebbe inevitabilmente percepita da Mosca come atto ostile, ma aprendo a un rapporto più stretto con l’Unione europea, secondo uno schema che è stato definito di ‘finlandizzazione’ dell’Ucraina e che ha il potenziale di trasformare Kiev da terreno di scontro della opposte ambizioni (interne ed esterne), a ponte ideale tra Occidente e Mosca, su cui costruire un rapporto basato sulla fiducia e non sulla diffidenza.

Non è una via agevole, anche perché presuppone una convincente azione di ‘moral suasion’ su chi oggi detiene le leve del potere in Ucraina, come su chi soffia sul fuoco delle tendenze separatiste, ma è una via che deve essere seguita con determinazione, in quanto figlia di una visione sensata e fattibile su cui si deve investire, in modo che da questa partita tutti possano uscire come vincitori.

Ue locomotiva risolutiva verso Kiev

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Vladimir Putin vive “in un altro mondo,” avrebbe detto la cancelliera Angela Merkel a Barack Obama, a seguito di una conversazione telefonica con il leader russo. Forse in un universo parallelo “orwelliano” in cui libertà è schiavitù, e bugie vengono propagate da un ministero della verità. E sembra quasi che con la crisi politica che sta consumando l’Ucraina si stiano riaccendendo sotto la cenere le braci dell’ostilità e della paranoia dell’epoca della guerra fredda.

Merkel contro le sanzioni
Eppure la Merkel è riluttante nel sanzionare e isolare Mosca, rea di aver destabilizzato l’Ucraina. Questa cautela tedesca monta lo sdegno dei conservatori intransigenti a Washington che deridono l’inefficacia dell’Unione europea: “Putin ha silurato il patto commerciale tra Bruxelles e Kiev e ora l’Europa vorrebbe che fossero gli Stati Uniti a rispondere?”

Anche il filo-europeo Henry Kissinger su questo punto è caustico, accusando l’Ue di “lentezza burocratica” che “trasforma una trattativa in una crisi”. Kissinger però riconosce i pericoli di una reazione impulsiva e sostiene un compromesso con Mosca basato sulla “finlandizzazione” dell’Ucraina. Altri repubblicani, invece, sferrano un attacco in piena gola ad Obama, accusato di essere un “leader debole” la cui “politica estera incapace” ha ispirato l’aggressione russa. Bisogna resistere!

Riflessi guerra fredda
Se i riflessi della guerra fredda si riaffacciano nei quartieri conservatori di Washington, questi sono radicati molto più profondamente in Russia. Putin, come è noto, ha dichiarato alla Duma che la dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata “il maggior disastro geopolitico del secolo scorso”. E furono proprio le pressioni derivanti dall’espansione verso l’est della Nato, assieme alla guerra contro la Serbia riguardo il Kosovo, a fare da propulsione per l’ascesa di Putin al potere nel 1999.

Da Mosca, Putin vede ovunque un’implacabile campagna politica e strategica occidentale volta a ridurre il peso della Russia: velata dal linguaggio altisonante della democrazia e dei diritti umani, questa campagna cerca di imporre modelli economici e politici occidentali in tutto il mondo. Quindi la retorica russa sull’Ucraina fa un’amara parodia del vocabolario dell’internazionalismo occidentale:
“Le forze militari russe stanno effettuando un “intervento umanitario”, proprio come fecero i paesi occidentali in Libia” (anche se in Ucraina le autorità non uccidono né minacciano nessuno).
“La regione autonoma di Crimea ha diritto alla secessione dall’Ucraina, allo stesso modo con cui i paesi occidentali lo affermarono per il Kosovo” (giuridicamente un parallelo abbastanza aderente, anche se manca il piccolo dettaglio della repressione serba).
“L’espulsione dei funzionari governativi da parte dei militanti filorussi nei distretti russofoni ucraini è espressione dell’autentica volontà popolare, una replica giusta all’azione dei manifestanti ‘euro-maidan’ che costrinsero alla fuga il presidente Viktor Yanukovich”.

Ucraina e Nato 
In realtà questa simmetria è alquanto pretestuosa. Putin considera minaccioso per la Russia qualsiasi modesto collegamento tra Europa e Ucraina, per paura che diventi un primo passo per l’ingresso di quest’ultima nella Nato.

Il patto commerciale negoziato da Yanukovich e gli europei sembrava loro un compromesso innocuo. Per Putin, no. Quindi la sua scommessa di novembre che è fallita spettacolarmente, mobilitando schiere di manifestanti che hanno buttato Yanukovich giù dall’equilibrio, e infine giù dal potere.

Sebbene Obama non vede più alcuno “scacchiere della guerra fredda”, Mosca al contrario crede di aver appena perso la sua “regina”. Per questo Putin ha alzato la posta.

In realtà, la sfida russa è meno rischiosa per l’Occidente di quanto non lo sia per una Russia che resta fragile in termini economici, politici, con le proprie innumerevoli enclave etniche, e diplomatici.

L’anno scorso il Pew Research Center riscontrò che appena un terzo dei cittadini di trentotto paesi avevano un parere favorevole sulla Russia, rispetto alla metà favorevole alla Cina – e ai due terzi favorevoli agli Stati Uniti. Senza legami di amicizia, ogni rapporto diventa transazionale; e ora la ripugnanza internazionale è in crescita.

Crimea verso il plebiscito
Presumibilmente un accordo si può trovare: Putin non manifestava interesse al controllo russo della Crimea fintanto che il governo di Kiev si è mantenuto neutrale tra Oriente e Occidente. Logicamente, il modello finlandese o austriaco, cioè un’Ucraina fuori della Nato con la presenza di osservatori internazionali, potrebbe essere la chiave per una soluzione della crisi.

Tuttavia, la gestione maldestra e improvvisata della Russia della crisi ad oggi, tra cui un plebiscito assurdo in Crimea (che si terrà tra una settimana!), può rendere impossibile un compromesso ragionevole a breve termine. L’annessione della Crimea non metterebbe solo a rischio i confini tenui del mondo post-sovietico, compresi quelli della Russia, ma la perdita dei votanti di Crimea farebbe pendere la bilancia elettorale dell’Ucraina decisamente verso l’Occidente, e la temuta Nato. Se persegue l’annessione, l’Occidente dovrebbe bloccare la Crimea dal commercio e dagli investimenti.

In questa crisi, Washington certamente sostiene gli europei, ma l’Ucraina è un affare prettamente europeo. L’Europa ha il peso economico che conta per tutt’e due Russia e Ucraina. Nel treno delle trattative, deve essere l’Europa in testa.

No di Karlsruhe alla soglia del 3%

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La Corte costituzionale tedesca, Bundesverfassungsgericht (Bvg), dichiara l’incostituzionalità della soglia del 3% inserita nella legge tedesca per le elezioni del Parlamento europeo. Quella del 26 febbraio è l’ultima di una serie di sentenze tedesche che si inseriscono nel dibattito europeo.

Quando abbiamo appreso l’ultima decisione di Karlsruhe stavamo ancora discutendo della decisione del 7 febbraio 2014, con la quale il Bvg – pur esprimendo seri dubbi della Banca centrale europea sulla legittimità delle misure Omt, il programma di cosiddetto acquisto illimitato di titoli di Stato di paesi dell’eurozona in difficoltà finanziarie – si è avvalso per la prima volta della procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.

Il cammino del sistema elettorale Pe
Al momento non esiste una disciplina uniforme per le elezioni europee. Il Trattato prevede che vi si possa arrivare, peraltro attraverso una procedura assai gravosa (art. 223 Tue), che non è stata fin qui attivata. Per ora, esistono soltanto alcuni principi comuni, stabiliti nell’Atto sull’elezione del Parlamento europeo (Pe) del 1976, come modificato da ultimo nel 2002.

L’Atto richiede che l’elezione avvenga secondo un sistema proporzionale, rinviando per il resto alle leggi nazionali. Le norme elettorali del Pe si diversificano dunque nei vari paesi.

Non è la prima volta che la legge elettorale tedesca incorre nella censura del Bvg. Era avvenuto già nel 2011 (decisione del 9 novembre 2011), e anche in quel caso si discuteva della clausola di sbarramento (Sperrklausel). La soglia, allora fissata al 5%, è stata successivamente ridotta al 3%; ma questa modifica non è stata giudicata sufficiente a rimuovere il vizio di costituzionalità.

Per la Corte, la parità del voto elettorale per cittadini e partiti costituisce un principio fondamentale della Costituzione tedesca (articoli 3 par. 1 e 21 par 1 Grundgesetz); un principio che tollera limitazioni solo in casi eccezionali, in particolare per proteggere la funzionalità dell’organo parlamentare che si va ad eleggere. Ma questa giustificazione non si applicherebbe al Pe, che – sempre ad avviso della Corte – può funzionare regolarmente anche in assenza della regola in questione.

I rappresentanti del Bundestag e del Pe si sono sforzati, nel corso del giudizio, di dimostrare il contrario. Hanno fatto valere che il Pe si sta avviando verso una maggiore politicizzazione, come evidenziato dalla nomina da parte di ciascun gruppo politico, nella campagna elettorale in corso, di un proprio candidato alla Presidenza della Commissione.

Ne risulterà – si è argomentato – un contrasto più netto tra maggioranza e opposizione, con la necessità di maggioranze stabili a sostegno della Commissione. Di qui l’esigenza di evitare un eccessivo frazionamento del Pe. La Corte non si è lasciata tuttavia convincere da questi rilievi. Pur prendendo atto dell’evoluzione in corso del Pe, è rimasta ferma sul punto che allo stato attuale non sussistono elementi tali da giustificare una lesione del principio fondamentale della parità del voto.

Sperrklausel
Ciò premesso, due aspetti della sentenza sembrano specialmente meritevoli di attenzione; il primo riguarda l’atteggiamento del Bvg verso il Pe, nei confronti del quale par di leggere espressioni meno negative che in passato.

Si pensi alle sentenze Lisbona del 2009 e a quella sulle soglie del 2011. La prima conteneva una forte contestazione della legittimità e rappresentatività democratica del Pe: le critiche si appuntavano, da un lato, sulla ripartizione nazionale degli eletti secondo un criterio di proporzionalità regressiva; dall’altro, sull’assenza di uno spazio politico europeo in senso proprio.

A sua volta, la pronuncia del 2011 argomentava sbrigativamente che il Pe è diverso dal Bundestag, per il fatto che non elegge un governo dell’Unione e perché la sua funzione legislativa non richiede maggioranze stabili. Nella sentenza in esame, la Corte riconosce invece che la situazione a livello europeo è in movimento, anche se ancora in una fase iniziale (in den Anfaengen).

Non si esclude dunque che si possa andare verso una politicizzazione della struttura istituzionale, riconducibile in qualche modo a quella tedesca e tale da legittimare l’introduzione della Sperrklausel. Sembra dunque che si ipotizzi per il futuro un principio di equivalenza “parlamentare”, non dissimile da quello evocato a suo tempo nelle sentenze Solange (1974 e 1986) in tema di tutela dei diritti fondamentali.

Introduzione soglia
L’altro punto da segnalare attiene alla posizione del Bvg nei riguardi del diritto dell’Unione. La Corte sottolinea che allo stato attuale non esiste una norma comune europea in tema di sbarramento elettorale. L’Atto del 1976 sopra citato, anche dopo la modifica del 2002, si limita a prevedere che gli stati possano adottare una soglia (comunque non superiore al 5%). Si tratta peraltro di una facoltà, non di un obbligo; e d’altra parte, come osserva la Corte, un obbligo nemmeno si può ricavare dalla Risoluzione del Pe del 22 novembre 2012.

Questa contiene un semplice invito all’introduzione di una soglia nelle leggi nazionali, non l’imposizione di un obbligo giuridicamente vincolante. Come si vede, la Corte tiene a precisare che non esiste per ora un vincolo dell’Unione alle scelte del legislatore tedesco. Il che induce a pensare che se viceversa una norma europea fosse adottata, la censura di incostituzionalità potrebbe cadere.

La Corte non lo dice esplicitamente; ma vi si può scorgere una qualche maggiore deferenza verso il diritto dell’Unione, a conferma di quanto desumibile dal primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia di cui alla decisione Omt di poche settimane fa.

“Marchio Italia” da rinnovare

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L’italiano è la quarta lingua studiata al mondo, l’ottava più usata su Facebook, con un bacino potenziale d’interessati di 250milioni di persone. Molti sono gli italofoni influenti nei paesi, e la diaspora italiana, con 80-100 milioni di italo discendenti, è la più estesa dopo quella cinese e rappresenta un gruppo economico influente in molti paesi.

L’Italia ha un capitale di reputazione legato alla cultura, alla lingua e al turismo non intaccato dalla crisi, ma sottoutilizzato perché frammentato. La semplice concentrazione può generare immediati ritorni turistici, d’investimenti, di export e d’influenza.

Promozione culturale
Il “marchio Italia” ha già una sua identificabilità all’estero, vi concorrono a formarlo i vari elementi che rappresentano il sistema Italia all’estero: studenti, nuova e vecchia emigrazione, beni materiali e immateriali, prodotti creativi, patrimonio culturale, audiovisivo, letterario e linguistico.

Il marchio non è stato ancora assunto, valorizzato, monitorato e gestito a livello istituzionale. Il rischio è che la reputazione e l’immagine dell’Italia siano etero-determinate negativamente e che il Paese subisca un’immagine troppo stereotipata, eccessivamente ancorata al passato.

Solo la rete di promozione culturale e linguistica dell’Italia è presente in più di 250 città al mondo, ma la sua presenza potrebbe essere molto più estesa e il suo impatto maggiore se fosse gestita in maniera unitaria. Vi sono duplicazioni e obiettivi differenti, anche per la presenza di vari testi legislativi che disciplinano separatamente la promozione della lingua, la scuola e la cultura italiana all’estero.

La rete di promozione nel “marchio Italia” è composta dai circa 80 istituti italiani di cultura, dalle 140 istituzioni scolastiche all’estero, dalle 146 associazioni che insegnano la lingua italiana, dai 322 lettori di lingua italiana nelle università straniere, i 20 addetti scientifici per la promozione della ricerca italiana e i 28 uffici dell’Ente nazionale del turismo.

A questi si aggiungo i comitati Dante Alighieri, associazioni private, che possono essere inserite in una strategia di sistema, così come le azioni di promozione territoriale degli enti locali e i comitati degli italiani all’estero.

Rete limitata
La rete è troppo concentrata in Europa, risultato della sua stratificazione storica nata nei luoghi d’aggregazione dell’emigrazione degli inizi del ‘900 e del dopo guerra. È ben posizionata in America Latina e nel nord Africa, ma resta limitata nel Golfo Persico e in Asia. Le recente proposta della chiusura di otto istituti italiani di cultura hanno alleggerito la presenza in Europa e mantenuto la copertura su 60 paesi.

Le competenze sono in capo al Ministero degli affari esteri (Mae), inclusa la gestione del personale degli insegnanti. Manca un coordinamento strutturato con le amministrazioni del Ministero dei beni e delle attività culturali e turismo (Mibact), del Ministero dell’università e della ricerca (Miur), e con altri soggetti pubblici attivi nella promozione linguistica e culturale.

La situazione è peggiorata a seguito dell’abolizione della consulta nazionale per la promozione della cultura nel 2011 che era un organismo che con il tempo si era sclerotizzato. Oggi manca un luogo di discussione condiviso per l’elaborazione di una strategia pluriennale di promozione culturale, intesa in senso ampio.

Francia, Spagna, Regno Unito e Germania dedicano maggiori risorse alla promozione linguistica e culturale e hanno una struttura più autonoma dalla rete diplomatica, affidata a fondazioni o agenzie. In questi paesi la struttura centrale elabora gli spunti strategici e fornisce sostegno tecnico alle sedi nei paesi.

Nella scorsa legislatura alcuni parlamentari hanno presentato proposte di modifica della sola legge relativa agli istituti italiani di cultura, puntando ad aumentarne l’autonomia e a creare una sorta di agenzia autonoma, senza portare a sistema gli altri aspetti legati alla promozione della lingua, disciplinati da altri testi normativi.

Proposta
È possibile utilizzare la rete per aumentare un flusso turistico-culturale-linguistico e di domanda d’Italia, permettendo a chiunque di fare esperienza d’Italia a 360°, evitando la separazione troppo netta tra lingua, cultura, scienza, beni di consumo, regioni e turismo.

È importante monitorare e contribuire a formare la reputazione dell’Italia nei differenti paesi, utilizzando la rete e la nuova emigrazione, intervenendo in casi di criticità dannose politicamente ed economicamente. Questa più ampia rete potrebbe lavorare in sinergia con il nuovo Istituto nazionale per il commercio estero, ma non si configurerebbe per il servizio alle imprese.

La proposta è di nominare una figura politica con un forte mandato che si avvalga del dipartimento del turismo del Mibact, della direzione promozione del sistema paese e della Direzione italiani all’estero relativamente all’emigrazione italiana, entrambe del Ministero degli affari esteri.

Il primo obiettivo è quello di riattivare un luogo di programmazione strategica complessiva che coinvolga esperti del turismo, cultura, istruzione, enti locali, ricerca scientifica.

Contemporaneamente, si miri ad attivare programmi di sensibilizzazione di studenti e ricercatori in partenza per l’estero sul loro ruolo di “Ambasciatori dell’Italia nel mondo”, in collaborazione con scuole, università e organizzazioni di scambio studentesco, prevedendo che al programma partecipino anche esponenti delle comunità straniere che ritornano nei paesi di origine e coinvolgendo le élites straniere “italofone” che hanno studiato e conoscono l’italiano.

Importante è anche realizzare la prima rilevazione mondiale sulla reputazione dell’Italia nel mondo e convocare un Forum periodico sull’immagine e reputazione dell’Italia nel mondo a cui partecipino anche operatori economici, sportivi, della solidarietà ed enti territoriali attivi nel mondo.

Infine, l’obiettivo che richiede il maggiore investimento politico è riformare il sistema di governance complessivo dell’Ente nazionale per il turismo, Istituti Italiani di Cultura, scuole d’italiano, e associazioni per la promozione dell’Italia all’estero e comitati italiani all’estero in un’unica agenzia di diritto privato o in una Fondazione pubblico privata, vigilata dalla Presidenza del consiglio.

Le articolazione nelle città del mondo dell’agenzia sarebbero dei “Palazzi Italia”, luoghi dove fare incontro e esperienza d’Italia, intesa in senso ampio dalla cultura, all’economia, enogastronomia, conoscenza dei territori, scienza e design.

Come negare il negazionismo?

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Come negare il negazionismo? Come assicurare che la memoria dei giorni più drammatici sia al riparo da offese, oggi, attraverso internet, sciaguratamente alla portata di tutti? È questa una domanda molto delicata alla quale l’Italia – come altri paesi – ha cercato di fornire una risposta: dapprima nel 2007, e quindi in tempi più recenti, attraverso tre progetti di legge (cfr., rispettivamente, i d.d.l. 8 ottobre 2012 n. 3511; e 15 marzo 2013 n. 54, 16 ottobre 2013 n. 54-A).

Divieto di oblio
Il tentativo è quello di dare attuazione alla decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 28 novembre 2008 con la quale si domanda agli stati membri dell’Unione di impegnarsi a tutelare penalmente l’interpretazione dei fatti più drammatici, avvenuti e da venire. Il tema è però complesso: ammesso e non concesso che esista un divieto di oblio, è possibile dedurre da quest’ultimo un obbligo del ricordo?

Certamente quando uno Stato istituisce – come ha fatto anche l’Italia – una giornata della memoria, si ricorre a una legge per assicurare che talune narrazioni non sfumino con il tempo. Anche solo l’approvazione di simili leggi non manca però di sollevare polemiche.

Così, nonostante il fatto che la data scelta dalla legge italiana per celebrare la giornata della memoria sia quella, simbolica, dell’apertura dei cancelli di Auschwitz, nel testo manca ogni riferimento alle parole “nazismo” o “fascismo”, mentre si richiamano “coloro che, anche in campi e schieramenti diversi [sic!], si sono opposti al progetto di sterminio”.

Inoltre, introdurre un reato significa spingersi oltre, sino a permettere il ricorso ad una sanzione che contempli la reclusione per la difesa di un bene ritenuto meritevole di questo tipo – estremo – di tutela. Eppure, qual è il ‘bene’, in questo caso? L’ordine pubblico o la memoria storica? Un’adeguata problematizzazione si rivela, più che opportuna, necessaria.

Storici, giudici e legislatori
A uno sguardo attento si ravvisano diversi nodi irrisolti nei progetti di legge presentati . Il primo di questi concerne la (necessaria!) distinzione tra lo storico, il giudice e il legislatore, tre figure deputate a svolgere funzioni ben diverse. Si tenga presente quanto segue: quello che i tre progetti di legge omettono, e che al contrario avrebbe meritato di essere specificato, è ‘chi’ avrà il potere di accertare un reato di negazionismo. Se fosse il medesimo legislatore, ci si potrebbe legittimamente domandare in cosa consista l’operazione – appunto – di accertamento giudiziario.

E che la questione non rappresenti un’elucubrazione teorica è dimostrato dal fatto che il Conseil constitutionnel français ha sancito, con una decisione del 28 febbraio 2012, l’incostituzionalità di una disposizione francese che considerava ‘innegabili’ i soli genocidi certificati dalla legge.

Diversamente, se fosse un giudice a dovere accertare quando una condotta configura uno dei reati per i quali si applica il divieto di negazionismo, occorrerebbe specificare innanzitutto se debba trattarsi di un giudice ‘interno’ oppure ‘internazionale’. Nel primo caso, ci si potrebbe domandare con quale cognizione di causa un magistrato interno possa giudicare un fatto lontano anni e chilometri; nel secondo, si porrebbe la questione del ‘se’ esista un giudice internazionale competente nel caso specie: com’è noto, data la natura essenzialmente arbitrale della funzione giurisdizionale in diritto internazionale non tutte le violazioni hanno ‘diritto’ a un giudice.

Libertà di pensiero e d’espressione
In aggiunta, non può essere taciuto l’attrito che l’introduzione di un simile reato determina in rapporto alla libertà di pensiero e d’espressione. Ancora non può essere sottovalutato ‘l’effetto megafono’: i negazionisti che, a oggi, sono stati condotti in tribunale hanno trovato nelle aule di giustizia innanzitutto una tribuna per diffondere le proprie tesi.

E infine, sotto un profilo internazionalistico, ci sembra opportuno ricordare che la decisione del Consiglio dell’Unione europea richiamata in precedenza si differenzia alquanto dai progetti oggi discussi dal legislatore italiano. Infatti, la pena stabilita dalla decisione del Consiglio “reclusione da uno a tre anni” (art. 3, par. 2), è più lieve di due anni rispetto a quella richiesta dal legislatore italiano, che nell’ultima proposta giunge a prevedere una reclusione da uno a cinque anni. E ancora, l’elemento di pericolo è più marcato: l’art. 1, par. 1 lett. c e d, della decisione si riferisce a condotte idonee “a istigare alla violenza o all’odio”.

D’altra parte, se si osservano comparativamente le legislazioni nazionali che si sono dotate di simili strumenti, è difficile scorgere un indirizzo unitario, e di tale difformità sono testimoni le Corti costituzionali e gli organi internazionali di tutela dei diritti umani che hanno mutano in diverse occasioni orientamento. Da ultimo, si consideri quanto asserito dalla Corte europea dei diritti umani nei due casi Garaduy c. Francia (decisione del 24 giugno 2003) e Perinçek c. Suisse (sentenza del 13 dicembre 2013).

Oltre l’olocausto
A dieci anni di distanza si è passati dal ritenere legittima una condanna per negazionismo al suo contrario. Se nel primo caso si è trattato di olocausto, nel secondo si è dibattuto del genocidio del popolo armeno. È anche questo un tema sul quale riflettere approfonditamente: è possibile limitare la protezione offerta dal negazionismo al solo olocausto?

Due rischi si palesano, al riguardo. Il primo, di carattere formale, concerne il fatto che la decisione-quadro anzidetta concerne anche fattispecie minori (si pensi ai ‘crimini di guerra’, che si estendono sino al saccheggio). E il secondo, di tipo sostanziale, concerne il rilievo per cui un reato siffatto rappresenterebbe l’espressione di un diritto penale simbolico, de-attualizzato e volto a ‘custodire la storia’. Ma la storia non passa, tanto meno in giudicato (giacché – come insegnano gli storici – non è possibile ‘fare storia’ senza anche ‘fare la storia’). A chi giova tribunalizzarla?

Trasporti locali, sindacati confermano sciopero del 19 marzo

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I sindacati dei trasporti confermano lo sciopero del trasporto pubblico locale programmato per mercoledì 19 marzo. Lo hanno deciso al termine del tavolo al ministero, non avendo ricevuto risposte dalle associazioni datoriali, nonostante l’impegno del governo.
Lo stop nazionale di 24 ore del Trasporto pubblico locale era stato annunciato unitariamente dai sindacati del settore circa un mese fa.

Il mancato rinnovo del contratto di lavoro – Al centro della protesta, il mancato rinnovo del contratto di lavoro del Trasporto pubblico locale, che riguarda circa 110 mila lavoratori.
Il contratto è infatti scaduto dal 2007 e da allora manca l’intesa tra sindacati e associazioni datoriali (Asstra e Anav) per riaggiornarlo.
Con il tavolo al ministero dei Trasporti, che ha visto la partecipazione del titolare Maurizio Lupi e del ministro del Lavoro Giuliano Poletti, si è cercato di sbloccare la trattativa. Per ora però le parti sembrano rimanere ferme sulle loro posizioni. Il prossimo appuntamento al ministero sara’ tra circa 15 giorni.

La falsificazione delle presenze, se per poche ore, non può giustificare il licenziamento

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La Corte d’appello di Torino, con un’interessante pronuncia dell’8 gennaio scorso, ha ribadito l’importanza del principio di proporzionalità nella comminazione della sanzione disciplinare, dichiarando sproporzionato e quindi illegittimo il licenziamento del dipendente comunale che aveva falsificato la propria presenza in servizio per poche ore.
Il giudice di secondo grado ha riformato la sentenza del giudice del lavoro, accogliendo i motivi di impugnazione del dipendente comunale avverso il provvedimento disciplinare disposto a suo carico.
Partendo dall’analisi della normativa di cui alla contrattazione collettiva, infatti, la Corte ha ritenuto che le violazioni addebitate non potessero essere ricondotte alla norma di cui all’art. 25 del Ccnl del 22 gennaio 2004, invocata dall’amministrazione. Non solo, infatti, la contrattazione collettiva in parola non prevede la sanzione espulsiva per la timbratura falsificata, ma sanziona con la sospensione da 1 giorno a sei mesi (e non con il licenziamento) comportamenti anche di maggiore gravità rispetto a quello in giudizio. Secondo la Corte risulta altresì improprio anche il richiamo alla “recidiva multipla” come definita al Ccnl del 2004. Invero, nel caso di specie, non può ritenersi sussistente la recidiva, in quanto mancano pregresse violazioni disciplinari, già oggetto di sanzione.
Da un punto di vista meramente fattuale, invece, la Corte ha evidenziato che se è vero che il dipendente era tenuto all’osservanza di un orario di lavoro settimanale di 36 ore minime, è vero anche che il medesimo, a fronte di mancanze che ammontavano a poco più di 18 ore di lavoro complessive, risultava aver effettuato nell’arco temporale di quasi due anni un orario superiore a 300 ore, per le quali non veniva retribuito, godendo di un’indennità di posizione.
In conclusione, l’attribuzione di sanzioni disciplinari non può che derivare da un’analisi ampia, non limitata alla sola condotta illegittima, la quale deve essere necessariamente “contestualizzata” ed esaminata congiuntamente al comportamento complessivamente tenuto dal dipendente. Solo da questa analisi può derivare l’attribuzione di una sanzione disciplinare proporzionata, ben commisurata alla violazione posta in essere.

Aziende e licenziamenti collettivi: la parola all’avvocato

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Quando si parla di licenziamento collettivo in azienda?
Per la legge i licenziamenti collettivi sono definiti dal numero e dalla collocazione dei lavoratori coinvolti: più di 4 nell’arco di 120 giorni e nella stessa provincia. Parliamo ovviamente di licenziamenti per ragioni oggettive (riduzione, trasformazione o cessazione di attività). I licenziamenti per motivi disciplinari non contano. Per numeri inferiori si applicano le norme sui licenziamenti individuali, anche se i lavoratori licenziati sono più di uno. Per i licenziamenti collettivi invece c’è una normativa specifica, che si applica però solo per le aziende che occupano più di 15 dipendenti. Si tratta di una disciplina introdotta nel 1991, in applicazione di una direttiva europea del 1975. Entrambe le normative, quella europea e quella nazionale, hanno poi nel tempo subito numerosi aggiustamenti. I capisaldi sono comunque due: in primo luogo, il licenziamento collettivo richiede una preventiva procedura di informazione e consultazione sindacale, con tempi prestabiliti e requisiti rigorosi; i lavoratori da licenziare, poi, devono essere scelti in base a criteri oggettivi e ben determinati.
Quali criteri per la scelta dei lavoratori da licenziare deve applicare il datore di lavoro?
La legge dà la possibilità di concordare con il sindacato i criteri di scelta, a dimostrazione della grande importanza attribuita al coinvolgimento sindacale in questo genere di procedure. Nella pratica i criteri più “gettonati” negli accordi sindacali sono quelli della volontarietà e della vicinanza alla pensione. Se non si raggiunge un accordo, si devono applicare, in concorso tra loro, i tre criteri previsti in via sussidiaria dalla legge: anzianità, carichi di famiglia, esigenze tecnico-produttive e organizzative. Quello della comparazione tra i lavoratori per la scelta di quelli da licenziare è certamente l’aspetto più delicato e difficile di una procedura di licenziamento collettivo. Si tratta anzitutto di individuare l’ambito nel quale effettuare la comparazione: l’intera azienda o solo le unità o i reparti interessati dalla ristrutturazione? Sul punto la giurisprudenza non è univoca, e si richiede dunque un’attenta valutazione della situazione concreta, soprattutto nelle aziende complesse di grandi dimensioni. Poi si tratta di stilare delle vere e proprie graduatorie, applicando i criteri concordati o quelli di legge, e stabilendo il peso da attribuire a ciascun criterio.
Quando il licenziamento collettivo è illegittimo?
I criteri di valutazione della legittimità del licenziamento collettivo sono molto diversi da quelli del licenziamento individuale. Per quest’ultimo il giudice deve valutare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo. C’è dunque un controllo a posteriori del giudice sulle ragioni del licenziamento. Nel licenziamento collettivo il controllo diventa preventivo ed è affidato al sindacato, che deve essere informato e consultato prima di intimare i licenziamenti, con l’obiettivo (incentivato ma non obbligatorio) di raggiungere un accordo sulla gestione degli esuberi. Il controllo a valle del giudice naturalmente ci può sempre essere: si esercita però non sulle ragioni della riduzione del personale, ma sul rispetto della procedura e sulla corretta applicazione dei criteri di scelta. Quindi, se viene correttamente attuata la procedura di informazione e consultazione sindacale, il licenziamento collettivo non è mai illegittimo: illegittima può essere invece la scelta di un singolo lavoratore piuttosto che di un altro, se sono violati i criteri pattuiti nell’accordo sindacale o quelli previsti dalla legge in mancanza di accordo.
Che novità ha introdotto la c.d Riforma Fornero nella disciplina sui licenziamenti collettivi?
La riforma Fornero ha anzitutto previsto che eventuali vizi della comunicazione informativa iniziale alle organizzazioni sindacali, con la quale si apre la procedura, possano essere sanati dall’accordo sindacale concluso nell’ambito della stessa. Si tratta di una innovazione importante. Sinora il singolo lavoratore poteva ottenere dal giudice l’annullamento del licenziamento e la reintegrazione per incompletezza, genericità o carenza di informazioni della comunicazione iniziale, anche se il sindacato non aveva avuto nulla da eccepire. Ora, se il sindacato da atto della correttezza della procedura, al singolo sono precluse questo tipo di censure. Sempre nell’ottica dell’attenuazione del rigore formale (o meglio, in questo caso, formalistico della procedura), è stato previsto un termine di sette giorni dai licenziamenti per effettuare la comunicazione finale obbligatoria agli enti e al sindacato dell’elenco dei lavoratori licenziati e delle modalità di applicazione dei criteri di scelta. Prima tale comunicazione andava effettuata “contestualmente” alla intimazione dei licenziamenti. Con la conseguenza che molti licenziamenti venivano dichiarati illegittimi per il ritardo anche di un solo giorno nell’invio della comunicazione. La modifica è dunque più che opportuna. Cambia poi il sistema sanzionatorio, in coerenza con le modifiche dell’art. 18 operate dalla riforma.
Appunto. Quali sanzioni sono previste ora per il datore di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo?
Anche per i licenziamenti collettivi la sanzione non è più solo quella della reintegrazione del lavoratore. Le sanzioni sono, come per il licenziamento individuale, diversificate a seconda dei vizi riscontrati. In caso di violazione delle procedure (non sanata dall’accordo sindacale), la sanzione è ora puramente economica: da 12 a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Per la determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti il giudice dovrà tener conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti e anche delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione. Se invece sono violati i criteri di scelta, la sanzione resta la reintegrazione nel posto di lavoro, ma il risarcimento del danno che l’accompagna è limitato nel massimo a 12 mensilità. Rimane il regime precedente (reintegrazione e risarcimento illimitato) in caso di licenziamento intimato senza forma scritta, ma si tratta ovviamente di ipotesi assai improbabile. Eliminato dunque l’incubo delle reintegrazioni di massa per vizi procedurali, resta alta l’attenzione sulla corretta applicazione dei criteri di scelta. E’ qui infatti che si annidano i rischi maggiori per il datore di lavoro nelle procedure di licenziamento collettivo.
Quali sono gli orientamenti recenti della giurisprudenza in materia di licenziamenti collettivi?
A differenza di quanto accade per la nuova disciplina dei licenziamenti individuali, le modifiche introdotte dalla riforma Fornero per i licenziamenti collettivi non dovrebbero portare ad arroventati dibattiti giurisprudenziali. Si tratta di modifiche limitate (anche se di importanza nient’affatto trascurabile) e tutto sommato abbastanza chiare. La giurisprudenza continuerà verosimilmente nella linea sin qui seguita di massimo rigore nella valutazione del rispetto degli obblighi procedurali (con applicazione però della mera sanzione economica) e della corretta applicazione dei criteri di scelta. Linea che sostanzialmente controbilancia l’insindacabilità in sede giudiziaria della valutazione imprenditoriale sull’opportunità di procedere alla riduzione del personale.
Una importante novità giurisprudenziale in materia (foriera di rilevanti sviluppi futuri) viene invece da una recentissima decisione della Corte di giustizia europea (13 febbraio 2014 – Commissione europea vs Repubblica Italiana). La Corte ha dichiarato che l’Italia, avendo escluso la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione delle procedure sindacali di licenziamento collettivo, ha violato le direttive comunitarie in materia, che vanno applicate a tutti i dipendenti, senza distinzione di categoria. La legge italiana invece esclude espressamente i dirigenti dall’applicazione delle norme in materia di licenziamento collettivo. Il che significa che i licenziamenti dei dirigenti non sono computati nel numero che fa scattare l’obbligo della procedura e possono essere intimati al di fuori della procedura medesima. Ora la situazione si presenta quanto mai incerta. E non solo perché ci si deve aspettare una modifica legislativa che si adegui alla decisione della Corte. Nel frattempo infatti qualche giudice potrebbe disapplicare la norma che esclude i dirigenti dalle procedure di licenziamento collettivo, in quanto in contrasto con l’ordinamento comunitario. Con conseguenze non da poco nelle aziende, dove è normale che in occasione di riduzioni del personale si proceda anche al licenziamento di figure dirigenziali, che finora però viaggiava su un binario parallelo, del tutto indipendente dalla procedura sindacale. Una complicazione in più, in vicende che semplici non sono mai.

Alloggio del portiere condominiale: comodato c.d. precario e recesso unilaterale del comodatario

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Il caso oggetto della pronuncia della Corte Suprema di Cassazione (Cass. civ., sez. VI-3, sent. 26 febbraio 2014, n. 4658) è relativo ad un condominio che aveva convenuto in giudizio (avanti al tribunale di primo grado) il portiere del proprio stabile per sentir accertare che il contratto di comodato, concluso con lo stesso e inerente all’appartamento già usato dal custode come alloggio del portiere, si era risolto. Infatti, riteneva che fosse intervenuta la manifestazione di volontà del condominio ai sensi dell’art. 1810 cod. civ., trattandosi di comodato senza previsione di durata.

Poiché le richieste condominiali erano accolte anche in sede di appello, il portiere condominiale ha impugnato la sentenza proponendo ricorso per cassazione; ricorso che il condominio ha ritenuto inammissibile e infondato.

Disciplina del comodato c.d. precario. La disposizione dell’art. 1810 stabilisce che “se non è stato convenuto un termine né questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede”.

Da tale norma si è enucleato il comodato di durata c.d. precario nel quale la scadenza del comodato viene fatta discendere dalla manifestazione di volontà del comodante in tal senso.

L’interpretazione di tale disposizione ha portato la giurisprudenza a ritenere che “il termine finale del comodato può risultare anche per implicito dalla destinazione del bene, precisando però che in tanto ciò può accadere, in quanto tale destinazione ha in sé una scadenza predeterminata, mancando la quale, l’uso del bene viene a qualificarsi come a tempo indeterminato ed il comodato come precario e, dunque, revocabile ad nutum dal proprietario” (Cass. civ., sez. un., sent. 9 febbraio 2011, n. 3168).

Orientamento da ritenersi ormai consolidato: “secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il termine finale del comodato in tanto può, a norma dell’art. 1810 c.c., risultare dall’uso cui la cosa doveva essere destinata, in quanto tale uso abbia in sè connaturata una durata predeterminata nel tempo, mentre in mancanza di particolari prescrizioni di durata, in mancanza cioè di elementi certi ed oggettivi che consentano ab origine di prestabilire la durata, analogamente a quanto è avvenuto nella vicenda in esame, l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile si configura come indeterminato e continuativo, inidoneo a sorreggere un termine finale, con la conseguenza che, in tali ipotesi, la concessione deve intendersi a tempo parimenti indeterminato e cioè a titolo precario, onde la revocabilità “ad nutum” da parte del comodante, a norma dell’art. 1810 c.c. (sul punto v. Sez.Un. 3168/2011, Cass.n.5907/2011, Cass. n. 9775/ 2007)” (Cass. civ., sez. III, sent. 25 giugno 2013, n. 15877).

La pronuncia in esame. Nella recente sentenza della Corte Suprema di Cassazione il ricorrente (il portiere) ha criticato l’interpretazione del “contratto di comodato, come effettuata dalla Corte di merito, per non aver considerato che la volontà delle parti — desumibile dalla destinazione ad abitazione della M. (ricorrente) (art. 2 del contratto), dalla delibera assembleare di assumere un nuovo portiere, da altra delibera di consentirne l’uso alla M. (ricorrente) per il periodo della malattia e per sei mesi successivi, per poi stipulare un contratto con affitto simbolico — era nel senso di un termine al comodato risultante dalla destinazione ad abitazione della M. (ricorrente) per alloggiarvi per tutta la vita motivando, inoltre, insufficientemente nell’interpretare letteralmente l’art. 2 senza tener conto della volontà delle parti emergente dalla delibera che aveva proceduto il contratto”.

La Corte, però, lambendo il merito ha, da un lato, premesso che la Corte di Appello “ha escluso, sulla base dell’interpretazione del contratto di comodato stipulato tra le parti, che il termine del comodato risultasse dalla destinazione alle esigenze abitative della M. e, quindi, fosse commisurato al termine della vita della stessa, con conseguente mancata previsione del termine e operatività del recesso”; dall’altro lato, ritenuto che “secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità (ex multis, Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178), l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione”.

La decisione. Pertanto, la Corte ha rigettato il ricorso in quanto “la ricorrente, invece, censura tale interpretazione senza indicare esplicitamente quali sono i criteri legali di ermeneutica contrattuale violati: mentre nella rubrica dei motivi deduce violazione dell’art. 1810 cod. civ. e insufficienza di motivazione, nella parte esplicativa sembra rimandare alla violazione dell’art. 1362 cod. civ. Peraltro, la ricorrente non adempie compiutamente al dettato dell’art. 366, n. 6 cod. proc. civ. — riproducendo l’articolo 2 del contratto nella sua interezza — rispetto alla parte in cui argomenta in ordine all’intero suo contenuto, che dalla Corte di merito sarebbe stato considerato solo rispetto al primo periodo, secondo il quale la >; né tantomeno riproduce l’intero contratto”.

Conclusione. La pronuncia in esame ha permesso, quindi, di chiarire due aspetti: uno sostanziale ed uno processuale.

Il primo relativo alla temporaneità del comodato c.d. precario ed alla possibilità del recesso ad nutum. In caso contrario il portiere condominiale avrebbe avuto la disponibilità di un alloggio anche dopo la sua sostituzione con il risultato paradossale che nell’immobile destinato al custode non avrebbe potuto alloggiare quest’ultimo, ma una soggetto terzo.

L’aspetto processuale, invece, è stata l’occasione per ribadire che il ricorso per cassazione deve essere predisposto accuratamente evitando la formulazione eccessivamente generica delle eccezioni e non può essere utilizzato per introdurre un terzo giudizio “di merito”.