1 Ottobre 2024, martedì
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Ue locomotiva risolutiva verso Kiev

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Vladimir Putin vive “in un altro mondo,” avrebbe detto la cancelliera Angela Merkel a Barack Obama, a seguito di una conversazione telefonica con il leader russo. Forse in un universo parallelo “orwelliano” in cui libertà è schiavitù, e bugie vengono propagate da un ministero della verità. E sembra quasi che con la crisi politica che sta consumando l’Ucraina si stiano riaccendendo sotto la cenere le braci dell’ostilità e della paranoia dell’epoca della guerra fredda.

Merkel contro le sanzioni
Eppure la Merkel è riluttante nel sanzionare e isolare Mosca, rea di aver destabilizzato l’Ucraina. Questa cautela tedesca monta lo sdegno dei conservatori intransigenti a Washington che deridono l’inefficacia dell’Unione europea: “Putin ha silurato il patto commerciale tra Bruxelles e Kiev e ora l’Europa vorrebbe che fossero gli Stati Uniti a rispondere?”

Anche il filo-europeo Henry Kissinger su questo punto è caustico, accusando l’Ue di “lentezza burocratica” che “trasforma una trattativa in una crisi”. Kissinger però riconosce i pericoli di una reazione impulsiva e sostiene un compromesso con Mosca basato sulla “finlandizzazione” dell’Ucraina. Altri repubblicani, invece, sferrano un attacco in piena gola ad Obama, accusato di essere un “leader debole” la cui “politica estera incapace” ha ispirato l’aggressione russa. Bisogna resistere!

Riflessi guerra fredda
Se i riflessi della guerra fredda si riaffacciano nei quartieri conservatori di Washington, questi sono radicati molto più profondamente in Russia. Putin, come è noto, ha dichiarato alla Duma che la dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata “il maggior disastro geopolitico del secolo scorso”. E furono proprio le pressioni derivanti dall’espansione verso l’est della Nato, assieme alla guerra contro la Serbia riguardo il Kosovo, a fare da propulsione per l’ascesa di Putin al potere nel 1999.

Da Mosca, Putin vede ovunque un’implacabile campagna politica e strategica occidentale volta a ridurre il peso della Russia: velata dal linguaggio altisonante della democrazia e dei diritti umani, questa campagna cerca di imporre modelli economici e politici occidentali in tutto il mondo. Quindi la retorica russa sull’Ucraina fa un’amara parodia del vocabolario dell’internazionalismo occidentale:
“Le forze militari russe stanno effettuando un “intervento umanitario”, proprio come fecero i paesi occidentali in Libia” (anche se in Ucraina le autorità non uccidono né minacciano nessuno).
“La regione autonoma di Crimea ha diritto alla secessione dall’Ucraina, allo stesso modo con cui i paesi occidentali lo affermarono per il Kosovo” (giuridicamente un parallelo abbastanza aderente, anche se manca il piccolo dettaglio della repressione serba).
“L’espulsione dei funzionari governativi da parte dei militanti filorussi nei distretti russofoni ucraini è espressione dell’autentica volontà popolare, una replica giusta all’azione dei manifestanti ‘euro-maidan’ che costrinsero alla fuga il presidente Viktor Yanukovich”.

Ucraina e Nato 
In realtà questa simmetria è alquanto pretestuosa. Putin considera minaccioso per la Russia qualsiasi modesto collegamento tra Europa e Ucraina, per paura che diventi un primo passo per l’ingresso di quest’ultima nella Nato.

Il patto commerciale negoziato da Yanukovich e gli europei sembrava loro un compromesso innocuo. Per Putin, no. Quindi la sua scommessa di novembre che è fallita spettacolarmente, mobilitando schiere di manifestanti che hanno buttato Yanukovich giù dall’equilibrio, e infine giù dal potere.

Sebbene Obama non vede più alcuno “scacchiere della guerra fredda”, Mosca al contrario crede di aver appena perso la sua “regina”. Per questo Putin ha alzato la posta.

In realtà, la sfida russa è meno rischiosa per l’Occidente di quanto non lo sia per una Russia che resta fragile in termini economici, politici, con le proprie innumerevoli enclave etniche, e diplomatici.

L’anno scorso il Pew Research Center riscontrò che appena un terzo dei cittadini di trentotto paesi avevano un parere favorevole sulla Russia, rispetto alla metà favorevole alla Cina – e ai due terzi favorevoli agli Stati Uniti. Senza legami di amicizia, ogni rapporto diventa transazionale; e ora la ripugnanza internazionale è in crescita.

Crimea verso il plebiscito
Presumibilmente un accordo si può trovare: Putin non manifestava interesse al controllo russo della Crimea fintanto che il governo di Kiev si è mantenuto neutrale tra Oriente e Occidente. Logicamente, il modello finlandese o austriaco, cioè un’Ucraina fuori della Nato con la presenza di osservatori internazionali, potrebbe essere la chiave per una soluzione della crisi.

Tuttavia, la gestione maldestra e improvvisata della Russia della crisi ad oggi, tra cui un plebiscito assurdo in Crimea, può rendere impossibile un compromesso ragionevole a breve termine. L’annessione della Crimea non metterebbe solo a rischio i confini tenui del mondo post-sovietico, compresi quelli della Russia, ma la perdita dei votanti di Crimea farebbe pendere la bilancia elettorale dell’Ucraina decisamente verso l’Occidente, e la temuta Nato. Se persegue l’annessione, l’Occidente dovrebbe bloccare la Crimea dal commercio e dagli investimenti.

In questa crisi, Washington certamente sostiene gli europei, ma l’Ucraina è un affare prettamente europeo. L’Europa ha il peso economico che conta per tutt’e due Russia e Ucraina. Nel treno delle trattative, deve essere l’Europa in testa.

Alle radici della relazione Roma-Kabul

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La storia del rapporto tra Italia ed Afghanistan ha radici lontane, consolidate nel 1919 con il riconoscimento dell’indipendenza e nel 1921 con l’avvio delle relazioni diplomatiche, rafforzate nel decennio successivo dal 1936 al 1944 dalla straordinaria azione dell’allora ministro plenipotenziario Pietro Quaroni.

Il turbolento dopoguerra, e la successiva conflittualità interna all’Afghanistan, vanificarono la definizione di una concreta relazione tra Roma e Kabul per lungo tempo, cessando integralmente con la presa del potere da parte dei talebani.

Opposizione ai talebani
Gli afgani avevano invece sempre guardato all’Italia con grande interesse, come dimostrato in loco dal peso della nostra – isolata, e inascoltata – delegazione diplomatica, e dal fatto che ben due sovrani afgani scelsero l’esilio a Roma.

Solo nel 1999, tuttavia, l’Italia decide di tornare alla politica attiva in Afghanistan, organizzando a Roma la prima Loya Jirga delle forze di opposizione ai talebani e costituendo l’anno successivo insieme a Stati Uniti, Germania e Iran il cosiddetto “Gruppo di Ginevra”, per favorire il sostegno alle formazioni locali non radicali.

Il rinnovato corso delle relazioni tra Italia e Afghanistan entra tuttavia in una nuova e profondamente differente fase nel 2001, successivamente all’intervento della coalizione guidata dagli Stati Uniti che provocherà in breve tempo la caduta del regime talebano.

Isaf
L’Italia partecipa dal dicembre del 2001 alla missione Isaf, con un contingente di crescenti dimensioni ed un impegno che la vedrà assumere il comando della stessa missione dal 4 agosto 2005 al 4 maggio 2006.

Al tempo stesso viene affidato a Roma il mandato per la riforma del sistema di giustizia, che l’Italia affronta con impegno e non senza difficoltà.

Il conflitto del 2001 e la lunga missione militare che ne seguirà stravolgono tuttavia la sostanza dell’interesse politico italiano in Afghanistan. A ragioni di natura politica, così come definite tra il 1999 e il 2000, si sostituisce bruscamente quella derivante dalla partecipazione militare in seno ad Isaf a partire dal 2001, con un radicale mutamento nella struttura di gestione del rapporto bilaterale.

La partecipazione militare italiana avviene quindi non tanto nel contesto di una progettualità politica del rapporto tra Roma e Kabul, quanto nell’ambito dello speciale rapporto tra l’Italia di Silvio Berlusconi e gli Stati Uniti di George W. Bush.

Viene quindi definita una modalità di partecipazione del tutto funzionale a questo rapporto, con una prevalenza della dimensione militare su quella politica ed economica e con la conseguente cristallizzazione nella gestione di operazioni sul terreno, di sempre maggiore complessità e pericolosità.

Accordo sul partenariato e la cooperazione 
La componente economica del rapporto tra l’Italia e l’Afghanistan diviene quindi funzionale alla predominante dimensione militare, facendo registrare forti incrementi dell’export italiano nel paese, sebbene nell’ambito di partite dal valore economico pressoché nullo. Irrilevante è invece il valore dell’import dall’Afghanistan, anche in questo caso sostenuto più da programmi finanziati che non da una reale capacità di sistema.

Nel novembre del 2012 viene poi ratificato da parte italiana l’accordo sul partenariato e la cooperazione di lungo periodo, in previsione della trasformazione del ruolo in ambito Isaf e nell’ottica di costruire future – quanto ipotetiche – prospettive di relazione tra i due paesi.

Alla vigilia del termine della missione Isaf – che di certo non significa il termine dell’impegno militare italiano, ma che sarà prodromico ad una profonda trasformazione dell’impiego sul terreno – l’Italia si presenta ancora una volta con una visione del rapporto bilaterale assai confusa e di scarsa portata temporale.

Futuro nebuloso
Non è chiaro cosa accadrà all’Afghanistan nel corso dei prossimi anni, né quale sarà la capacità di avviare un virtuoso processo di sviluppo capace di generare quelle fondamentali risorse per l’indipendenza economica della nazione.

Non è chiaro nemmeno quale possa essere nel medio periodo la capacità del paese di provvedere alla propria sicurezza, in assenza di un costante gettito finanziario per il sostentamento dell’esercito e della polizia afgana.

E non è conseguentemente chiaro quale possa essere il futuro delle relazioni tra Italia ed Afghanistan, alla luce soprattutto di un progressivo e costante taglio di risorse all’apparato della difesa, ma anche della generale e perdurante assenza di una seria riflessione sulla dimensione dei nostri futuri interessi in loco.

La mancanza di una più strutturata riflessione circa la dimensione politica ed economica del rapporto tra l’Italia e l’Afghanistan, unitamente al sostanziale fallimento della comunità internazionale nel ripristinare i fondamentali per la rinascita di un sistema economico e sociale, comporta oggi una evidente difficoltà di transizione dall’attività propriamente militare a quella post-bellica.

Con lo spettro, ancora una volta, di concludere una costosissima missione senza ricavarne in sostanza nulla sotto il profilo della sicurezza e della stabilità, dell’economia e degli investimenti, e più in generale dell’interesse nazionale.

Legali, rispuntano le vecchie tariffe

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L’avvocato costerà di più. Anche il doppio. Sarà questo il risultato più evidente di una battaglia che ha tenuto impegnata la categoria dei legali dal gennaio 2007, data di approvazione del pacchetto Bersani sulle liberalizzazioni che abrogava le tariffe professionali. Ironia della sorte ora è un ministro dello stesso partito, il Pd, a firmare il decreto sui parametri, che finisce, di fatto per reintrodurre un punto di riferimento forte per la determinazione del valore della prestazione degli avvocati. E’ infatti vero che, come succede oggi, il professionista e il suo cliente possono liberamente concordare il compenso ma i nuovi parametri (per l’entrata in vigore si attende ormai solo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) saranno un punto di riferimento molto più forte rispetto ai quelli attuali: non si applicheranno infatti solo nei casi di determinazione giudiziale dei compensi, ma anche tutte le volte che questo non è stato fissato in forma scritta, ogni volta che manchi l’accordo tra professionista e cliente, quando la prestazione professionale è resa nell’interesse di terzi, infine per prestazioni d’ufficio previste dalla legge. Di fatto manca poco per tornare alle vecchie, care tariffe. Anche perché il Consiglio nazionale forense, con un parere del 23 ottobre 2013 aveva già sostenuto l’opinabilità, da parte dell’ordine di appartenenza, dell’applicazione di onorari troppo bassi. Si legge infatti nel documento del Cnf che l’abolizione delle tariffe non ha intaccato la  “sopravvivenza del potere di opinamento delle parcelle in capo ai Consigli dell’Ordine degli avvocati”. Con i nuovi parametri tale potere non può che uscirne rafforzato. Inoltre il valore della prestazione dei legali risulta molto più alto di quello attuale. ItaliaOggi ha fatto alcuni calcoli  scoprendo, per esempio, che in una causa del valore di 75 mila euro il decreto ministeriale 140 (attualmente in vigore) fissa un compenso di 7.500 euro, mentre con i nuovi parametri lo stesso sale a 13.430. Praticamente il doppio. Interessante, per i legali, anche la reintroduzione delle spese generali, che consentono di aumentare le parcelle fino al 15%. Naturalmente non mancano agli avvocati gli argomenti per dichiararsi insoddisfatti. Intanto per la lunghezza dei tempi che sono stati necessari per dare attuazione a una disposizione precisa contenuta nella riforma forense. Poi perché hanno dovuto accettare alcune condizioni richieste dal ministero della giustizia, come il premio per la conciliazione, che ha l’obiettivo di velocizzare la risoluzione del contenzioso senza passare dalle aule dei tribunali. In questa direzione vanno altre disposizioni contenute nel decreto firmato da Andrea Orlando, come le sanzioni previste per l’avvocato che tira troppo in lungo la causa o intenta liti temerarie. Bisogna anche riconoscere che con il nuovo decreto si è messo fine ad alcune storture che penalizzavano gravemente il professionista. Basti pensare al compenso previsto per il precetto, dove a fronte di valori anche molto alti si prevedevano compensi irrisori. Ma è pur vero che al momento nessuna delle altre categorie professionali è riuscita ad ottenere qualcosa che assomigli vagamente alle vecchie tariffe professionali, anche se alcune professioni, soprattutto quelle che hanno più frequenti rapporti con la pubblica amministrazione, hanno subìto penalizzazioni gravissime dalla situazione di anomia normativa che si è venuta a creare. Potenza delle lobby.

A Roma la Tasi più salata: 778 euro sulla prima casa

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Roma sarà il capoluogo dove la Tasi sarà più salata. E’ quanto emerge da uno studio curato da Federconsumatori e Creef e presentato a Roma. Stando ai calcoli dell’associazione, con un’aliquota al 2,5 per mille, ossia ricorrendo alla maggiorazione dello 0,8 per mille prevista per i comuni, nel 2014 nella capitale si pagheranno nel complesso 778,4 euro solo sulla prima casa. Un dato, si legge nello studio, che stacca quello di Torino (602,7 euro) e Bologna (511,6 euro). Tra i capoluoghi dove invece la Tasi risulterà più leggera, sempre sulla prima casa, Lucca (69,1) e Cosenza (82,2). Per quanto riguarda le seconde case, è ancora una volta Roma in testa alla classifica con 4.000 euro (aliquota all’11,4 per mille), seguita da Torino (3.200 euro) e Bologna (2.789 euro). Nel complesso per le seconde case “si dovrebbe registrare un aumento medio di 106,1 euro rispetto a quanto pagato con l’Imu 2013 e di 125 euro nel confronto con l’Imu 2012”, spiega Federconsumatori.

Con la Tasi si rischia di pagari di più rispetto all’Imu. La nuova Tasi si prospetta molto simile all’Imu con il rischio per il cittadino, in alcuni casi, di dover pagare di più rispetto alla vecchia imposizione. A preoccupare di più Federconsumatori l’associazione sono quei 5 milioni di proprietari che per motivi fiscali con il vecchio regime erano esentati mentre con la Tasi rischiano di pagare. In pratica quei soggetti che per rendite catastali di basso valore, basso reddito Isee, eventuale condizione di disoccupazione o cassa integrazione, famiglie numerose o con disabili, in precedenza non pagava nulla. Secondo Federconsumatori i comuni non dovrebbero scaricare “nemmeno in parte il peso del possibile aumento dello 0,8 per mille dell’aliquota utile allo stanziamento delle detrazioni”. In questo caso, anche presumendo che le maggiori città (105 capoluoghi) decidano di applicare l’aliquota del 2,5 per mille, l’importo medio a livello nazionale della Tasi 2014 si attesterà a 231,71 euro (comprensivi di una ipotetica detrazione di 100 euro per la tipologia di appartamento considerato: A2, 100 mq, nucleo familiare di tre persone). In questo modo rispetto all’Imu 2012 vi sarebbe un risparmio di 50 euro. Nell’ipotesi invece che il costo delle estrazioni venga spalmato per metà sulle prime case (con aliquota 2,9 per mille) l’impatto della Tasi 2014 sarà di 284,78 euro ( dato medio nazionale sempre comprensivo della detrazione di 100 euro) a fronte di 281 euro pagati per l’Imu 2012.

P.a., chi non paga non assume

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Le pubbliche amministrazioni che pagano in ritardo i fornitori non potranno più assumere dipendenti a nessun titolo (co.co.co. compresi) e se hanno in corso procedure di stabilizzazione di precari dovranno interromperle. La regola, che si applica a tutte le p.a. centrali e locali e prevede solo un’eccezione per gli enti del Servizio sanitario nazionale, è contenuta nel ddl sul pagamento dei debiti p.a. che il consiglio dei ministri ha iniziato a esaminare mercoledì. In attesa che il governo Renzi sveli definitivamente le carte sulle risorse messe in campo per chiudere gli arretrati del 2012 e iniziare il pagamento dei debiti maturati dalle p.a. nel 2013 (la bozza di ddl abbonda di omissis in proposito e le poche cifre disponibili si ricavano dalla relazione di accompagnamento), il provvedimento contiene molte norme più strettamente «ordinamentali» volte a prevenire l’accumulo di un ulteriore debito monstre come quello che attualmente Bankitalia stima in 90 miliardi di euro (di cui 22 sono stati pagati per effetto del dl 35/2013).

Lucignolo, “la droga del cannibale” arriva in Italia

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E’ stata ribattezzata la droga del cannibale, quella di Rudy Eugene, quella dei “sali da bagno”, quella di Miami e adesso è arrivata anche nelle piazze italiane.
Un mix di tre molecole sintetiche con effetti devastanti, fino al cannibalismo. Lucignolo ha intervistato alcuni ragazzi.
“Adesso come adesso, te li vendono, tranquillamente, si trova soprattutto nella comunità filippina”. Poi la testimonianza di un ragazzo americano: “Com’è? Come andare all’inferno. Ecco com’è. Ho usato quella droga per mesi, convinto di dominarla ma è una cazzata. Stavo per morire. Il cervello va ad una velocità pazzesca. E’ come vivere in un mondo diverso”.

Corriere: “Taglio di 40mila uomini nelle forze dell’ordine nei prossimi 2 anni”

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Chiudono gli uffici, vengono ridotti i costi, ma il taglio vero nel settore sicurezza riguarderà gli uomini. Perché entro due anni ci sarà una perdita di almeno 40.000 tra appartenenti alle forze dell’ordine e Vigili del fuoco.
E ciò, come aveva ammesso qualche mese fa lo stesso capo della polizia Alessandro Pansa, non potrà non causare problemi nell’attività di controllo del territorio e di prevenzione contro il crimine.
Scrive Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera:
Non a caso per i sindacati è proprio questo il primo punto all’ordine del giorno dell’incontro che si svolgerà il 25 marzo con il ministro Angelino Alfano. Il titolare dell’Interno assicura che «si farà di tutto per garantire ai cittadini la massima sicurezza» ma la situazione resa già precaria a causa dei risparmi fatti sino ad ora rischia di essere aggravata ulteriormente dagli obiettivi fissati da Palazzo Chigi nell’ambito della spending review.
Sono le relazioni ufficiali a fornire il quadro aggiornato alla fine del 2013. Si scopre così che l’Arma ha una pianta organica di 118 mila unità, ma può contare su 105 mila che diventeranno 95 mila nel 2016. Gravi carenze anche per la polizia che da un contingente previsto di 110 mila operatori, conta su 95 mila e arriverà a 87 mila. Non sta meglio la Guardia di finanza con 68 mila militari che dovrebbero essere in servizio, 60 mila effettivi e una riduzione fino a 56 mila tra due anni. Il totale parla chiaro: dalle attuali 260 mila persone in servizio si arriverà a 238 mila, senza contare gli ulteriori tagli e i concorsi che hanno numeri di promossi sempre più esigui (…)
Anche l’Associazione funzionari ha molto battuto su questo tasto e non a caso Enzo Letizia sottolinea «la volontà di collaborare per eliminare gli sprechi, senza per questo cedere di un passo nella protezione dei cittadini, ma anche nella tutela degli agenti che svolgono il proprio lavoro con stipendi sempre più esigui, tagli agli straordinari e alle indennità e soprattutto rischi nella propria attività quotidiana». Sono i dati del Sap a dire che ci sono «duemila agenti in meno a Roma, mille a Milano, Napoli e Palermo, cinquecento a Torino e Bari, trecento a Bologna e Firenze».
I sindacati hanno bene in mente le richieste da portare al tavolo con il ministro. E insisteranno particolarmente sulla carenza di mezzi e risorse, emergenza annosa ma sempre più attuale. «La riduzione della scorte — spiega Tonelli — ci consentirebbe di recuperare 1.000 agenti sui territori che equivalgono a 500 volanti e gazzelle. E soprattutto di contare su un parco auto migliore di quello attuale che ha problemi davvero allarmanti».
L’elenco è lungo ed eloquente: la polizia può contare su 24 mila mezzi, «ma un terzo sono in riparazione costante e le volanti hanno in media 200 mila chilometri». Quando le gomme devono essere cambiate, la macchina si ferma perché non ci sono i soldi. A Milano, Torino e Bari circolano tra le 500 e le 550 autovetture, ma almeno 150 sono in officina. A Napoli su 1.000 autovetture, 300 non si muovono. Roma è in linea: su 1.600 macchine, 500 rotte (…)
All’incontro del 25 marzo le rappresentanze dei poliziotti porteranno l’elenco dei tagli già effettuati negli anni scorsi che hanno portato da uno stanziamento iniziale di poco superiore ai 7 miliardi ad un fondo cassa complessivo bloccato a due miliardi e mezzo. «I cento milioni stanziati a dicembre dall’esecutivo guidato da Enrico Letta — evidenzia Tonelli — sono già finiti. Con la sicurezza non si può scherzare, è bene che tutti lo tengano a mente».

Porno su Internet, le parole più cercate: “Amateur”, “Teen”, “Milf”…

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”Massaggio”, “amatoriale”, “adolescenti” e “donne mature”. Sono queste le parole chiave, i termini più cercati su Internet quando si parla di sesso.
Classifica firmata PornMD (questo il link), il motore di ricerca del colosso PornHub, proprietario anche di YouPorn. Un colosso da 5 miliardi di visitatori l’anno.
Questo il link a tutte le classifiche
Le ricerche sono suddivise in tre categorie (etero, gay, trans) e per nazioni.
Le ricerche effettuate nei diversi paesi sono state analizzate dall’esperto italiano di social media, Vincenzo Cosenza, che ha elaborato un diagramma che in un colpo d’occhio rappresenta tutti i dati, diagramma disponibile sul blog vincos.it. Questo il link.
“Le ricerche che mettono d’accordo tutte le nazioni sono in particolare ‘Milf’, ‘teen’ e ‘anal’ – spiega Cosenza -. Analizzando la situazione europea – aggiunge – ci sono paesi come Irlanda, Romania, Ungheria, Finlandia e Ucraina, che hanno preferenze peculiari e non condivise. Ad esempio gli irlandesi cercano scene di donne e uomini ubriachi. Mentre, in genere, c’è una tendenza a cercare scene e situazioni riferite alla propria nazionalità. Gli italiani digitano infatti ‘italian’, ‘italiana’, ‘Italia’ o il nome di una specifica show-girl, ‘Sara Tommasi’. Ma anche ‘mature’, ‘casting’, ‘Milf’, ‘teen’ e ‘mom’”.
In Europa in testa c’è “Amateur”, “Mature”, “Casting”, in Oceania e America del Nord “Milf”, in Sud America e Asia “Teen”, in Africa “Anal” e “Mom”.
In Italia le parole più cercate sono “Italian”, “Sara Tommasi”, “Amatoriale”, “Italiana”.

Paghi 225 euro e ti fai il clone di te stesso con la stampa 3D

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Paghi 225 euro e ti fai il clone di te stesso con la stampa 3D. Il costo del clone di te stesso va dai 225 ai 1290 euro a seconda della taglia. La dimensione di un fedele riproduzione va dai 15 ai 35 centimetri di altezza. A riproporre i cloni è laTwinkind, start up con sede a Berlino.

Per poter avere il proprio clone è necessario prenotare un incontro, recarsi nello studio della società e scegliere le dimensioni delle riproduzione. Poi uno speciale scanner prende le misure del corpo e memorizza tutti i dettagli per una perfetta copia del cliente, che sarà stampata 3D.

Pensioni salve ma anche no. Quel 15% nel mirino: le No-Contributi

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Un giorno, ed è già un giorno di Matteo Renzi premier, l’uomo della spending review va in Parlamento e spiega: “Potremmo toccare le pensioni, ma un 85% per cento abbondante delle pensioni non verrà toccato”. Quindi, e la deduzione logica non fa una piega, il 15% circa delle pensioni potrebbe essere “toccato”.

I giornalisti, cui la devi spiegare semplice altrimenti fanno una gran fatica non a spiegarla a loro volta ma a capirla, fanno subito dei conti. Conti esatti ma semplici. Contano che l’85% per cento delle pensioni da non toccare significa non toccare le pensioni di importo più o meno fino a 2.000/2.500 euro lordi al mese. Lì, a quell’importo, a quella “quantità”, c’è la frontiera, il confine, quantitativo appunto, fra l’85% e il 15%. Quindi, e la deduzione fa un sacco di pieghe logiche ma nessuno ci fa caso, il titolo e l’articolo sono: Tagli sulle pensioni da 2.500 lordi al mese, neanche duemila netti.

Titolano così i giornali, non tutti però. Qualcuno nel dubbio si astiene dal titolare grosso e forte: la cosa deve apparire qua e là discretamente non plausibile: tagliare le pensioni di meno di duemila netti al mese? Qualcuno si astiene nel dubbio la la “informazione” che passa è questa: vogliono tagliare l’assegno ai pensionati a neanche duemila al mese. Anche la polemica politica assume questo dato: 15% di pensioni da toccare significa toccare fino a quell’importo, duemila netti o giù di lì.

Qualche giorno dopo Matteo Renzi va a Porta a Porta da Bruno Vespa e comunica “le pensioni non le vogliamo toccare, nè quelle da duemila né quelle da tremila euro”, lordi o netti che siano. Il sistema dell’informazione registra e, con qualche leggero scossone logico, passa oltre. Renzi ha sconfessato Cottarelli? Cottarelli dava i numeri al Lotto mentre parlava? Renzi ha detto una bugia e prepara il colpo? Renzi ha fatto una doverosa marcia indietro? Vai a sapere, appuntamento al prossimo titolo…

La realtà è che sia Cottarelli che Renzi hanno detto la verità. E’ vero che nel mirino della spending review ci sono un 10/15 per cento delle pensioni erogate ed è anche vero che il governo non ha nessuna intenzione di toccare quelle da duemila, tremila e anche quattromila e qualunque altra cifra mensile dell’assegno (almeno non più di quanto già faccia con il cosiddetto contributo di solidarietà prelevato dalle pensioni dai 90.000 euro lordi in su con aliquote crescenti dal 6 al 18 per cento).

Ma allora come si spiega? L’85% delle pensioni sta sotto i 2.500 euro lordi mensili più o meno, come si fa a toccare il 15% delle pensioni senza toccare quelle da tremila lordi e anche meno? La risposta in fondo è facile, basta fare un ragionamento che non sia piattamente semplice. Basta allineare i fatti in maniera appena appena un po’ più complessa.

Fatto numero uno: appena pochi mesi fa un governo ha fatto una fatica del diavolo per imporre un contributo di solidarietà dalla molto dubbia costituzionalità sulle pensioni da 90.000 euro l’anno. Come si può pensare che pochi mesi dopo si impongano contributi sulle pensioni da 40.000 euro l’anno? Politicamente e socialmente non plausibile.

Fatto numero due: la Corte Costituzionale in una delle sue sentenze sulle pensioni ha coniato la formula di assegni pensionistici “ingiustificatamente elevati”. L’avverbio ingiustificatamente apre la strada alla comprensione di quel che il governo ha nel mirino: non l’aggettivo “elevati” (peraltro già colpito dal contributo) ma proprio l’avverbio. Ingiustificato in questo caso vuol dire le pensioni, chiamiamole così, “No-Contributi”. Insomma le pensioni con un “sottostante” non contributivo, non giustificate, indipendentemente dal loro importo, dal monte contributi versato.

Ed ecco svelato, per meglio dire compreso, cosa e quale e il 15% di Cottarelli. Somma le baby-pensioni, basse ma ancora un mezzo milioni circa di assegni…Somma le baby pensioni, quelle ottenuti con 15 anni di contributi, sommale con le pensioni di molti comparti dalla dirigenza e alta dirigenza della Pubblica Amministrazione e somma ancora con i vitalizi erogati dalla politica e dalla para politica…Somma tutte queste forme pensionistiche, tutte queste pensioni dall’importo vario e  diverso tra loro ma tutte accomunate dal non poggiare su una equivalente base di contributi versati, e al 10/15% delle pensioni ci arrivi.

Il calcolo su quali siano le pensioni nel mirino occorre farlo non sulla quantità dell’assegno a fine mese ma sulla “qualità” del trattamento pensionistico che si incassa. Quello che davide Colombo sul Sole 24 Ore chiama “ricalcolo in chiave contributiva” è quel che ha in testa e che Cottarelli ha pure detto in Parlamento. Se solo i parlamentari prima e i giornalisti poi si fossero fermati un momento a pensare…l’ovvio. E l’ovvio è che nessun governo potrà mai pensare di tagliare le pensioni da duemila al mese. Ma che tra baby pensioni, reversibilità eccessive, finte invalidità, vitalizi ed eccezioni di corporazioni è una vera e propria miniera. Dove scavare. E’ lì l’oro delle pensioni? Ma chi glielo spiega a parlamentari, giornali e pubblica opinione rintronati dalla maledizione cantata contro le “pensioni d’oro”?