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Stupefacenti: sulle conseguenze della sentenza 32/2014 Corte Cost. sui patteggiamenti

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Depositata il 7 marzo 2014 la pronuncia numero 11110 della terza sezione penale in tema di stupefacenti.

I giudici di Piazza Cavour, in particolare, hanno affermato che, a seguito della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale (che ha dichiarato l’illegittimità della Legge Fini Giovanardi), l’accordo concluso per l’applicazione della pena rimane valido qualora, ritenuto il “fatto di lieve entità”, la sanzione sia stata determinata in misura prossima al minimo edittale. (Nella vicenda su cui si sono pronunciati i giudici, a fronte di un quantitativo di marijuana pari a 180 grammi e della prova della cessione a terzi, si era partiti nel computo della pena patteggiata da una pena base di tre anni ed euro 10.000 di multa con un operato giudizio di prevalenza dell’allora ipotesi attenuata di cui all’art. 73 comma 5 dpr 309/90).

La questione è, in sostanza, quella di valutare l’influenza che la citata pronuncia della Corte Costituzionale ha avuto sui procedimenti penali definiti con il rito alternativo del cd. patteggiamento: il problema, cioè, di valutare se possa o meno considerarsi “legale” una pena inflitta dal giudice del merito che, quando ha pronunciato la propria sentenza, aveva come riferimento l’art. 73 comma 5 dpr 309/90 nel testo previgente.

Nel fornire risposta a questo interrogativo, i giudici hanno ritenuto di dover distinguere a seconda che, nel giudizio di merito, il giudice abbia determinato una pena vicina al minimo edittale oppure no.

E’ stato, infatti, affermato che la necessità per il giudice di ricalcolare una pena divenuta illegale si pone solo qualora il giudice del merito sia partito da una pena base, oggi non più contemplata, superiore ai cinque anni. In tal caso – osserva la Corte – questo giudice di legittimità non potrebbe che prendere atto della illegalità della pena e annullare la sentenza quanto al trattamento sanzionatorio, con rinvio sul punto al giudice di merito; allo stesso modo, nel caso di patteggiamento, si avrebbe l’invalidità dell’accordo ratificato dal giudice con conseguente annullamento senza rinvio per consentire alle parti del processo di rinegoziare l’accordo su altre basi oppure di proseguire con un rito ordinario.

Al contrario, non vi sarà la necessità di rideterminare la pena – o, nel caso di patteggiamento, di rinegoziare l’accordo sulla pena – nel caso in cui il giudice del merito, ritenuto sussistente l’art. 73 comma 5 dpr 309/90, sia rimasto significativamente in prossimità del minimo edittale, rimasto immutato.

Violenza sessuale: sulla attribuzione della natura di atti sessuali a baci ed abbracci

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Depositata il 4 marzo 2014 la sentenza numero 10248 in tema di violenza sessuale relativa, in particolare, alla possibilità di attribuire natura di “atti sessuali” a baci ed abbracci compiuti dall’imputato, nella sua qualità di preside di un istituto scientifico, nei confronti di una minore, alunna dell’istituto e quindi a lui affidata per ragioni di istruzione.

Hanno affermato i giudici che, in materia di reati sessuali, non essendo possibile classificare aprioristicamente come atti sessuali tutti quelli che, in quanto non direttamente indirizzati a zone chiaramente individuabili come erogene, possono essere rivolti al soggetto passivo con finalità diverse, come nel caso del bacio o dell’abbraccio, la loro valutazione deve essere attuata mediante accertamento in fatto da parte del Giudice del merito, evitando improprie dilatazioni dell’ambito di operatività della fattispecie penale contrarie alle attuali condizioni di sviluppo sociale e culturale, ma valorizzando ogni altro elemento fattuale significativo, tenendo conto della condotta nel suo complesso, del contesto in cui l’azione si è svolta, dei rapporti intercorrenti tra le persone coinvolte ed ogni altro elemento eventualmente sintomatico di una indebita compromissione della libera determinazione della sessualità del soggetto passivo.

Alla luce di tali criteri, nella fattispecie in esame i giudici hanno ritenuto la decisione dalla Corte di Appello immune da vizi dal momento che, dalla descrizione degli episodi effettuata dalla Corte territoriale, è emerso chiaramente come la condotta dell’imputato fosse del tutto inusuale e risultasse caratterizzata da una indubbia connotazione sessuale – escludendo, quindi, che fosse limitata ad accompagnare il saluto.

Del resto – concludono i giudici – un altro dato significativo, pure evidenziato dai giudici del gravame, è quello relativo alle frasi che l’imputato rivolgeva alla persona offesa in occasione dei loro incontri: si ricorda infatti nella sentenza impugnata che lo stesso imputato, nel corso dell’esame cui si è sottoposto, aveva riconosciuto di aver rivolto complimenti alla ragazza per il suo corpo e per l’aspetto fisico.

Guida in stato di ebbrezza: rifiuto di sottoporsi all’alcoltest e aggravante di cui all’art. 186 c.2-bis

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Depositata il 26 febbraio 2014 la pronuncia numero 9318 in tema di guida in stato di ebbrezza a proposito della configurabilità della aggravante di cui all’art. 186 comma 2-bis C.d.S. (aver provocato un incidente) in relazione al reato di rifiuto di sottoporsi all’alcoltest di cui all’art. 186, comma 7 C.d.S.

Art. 186 c. 2-bis C.d.S.: Se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, le sanzioni di cui al comma 2 del presente articolo e al comma 3 dell’articolo 186-bis sono raddoppiate ed è disposto il fermo amministrativo del veicolo per centottanta giorni, salvo che il veicolo appartenga a persona estranea all’illecito. Qualora per il conducente che provochi un incidente stradale sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), fatto salvo quanto previsto dal quinto e sesto periodo della lettera c) del comma 2 del presente articolo, la patente di guida è sempre revocata ai sensi del capo II, sezione II, del titolo VI. È fatta salva in ogni caso l’applicazione dell’articolo 222.

Art. 186 c. 7 C.d.S.: Salvo che il fatto costituisca più grave reato, in caso di rifiuto dell’accertamento di cui ai commi 3, 4 o 5, il conducente è punito con le pene di cui al comma 2, lettera c). La condanna per il reato di cui al periodo che precede comporta la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo da sei mesi a due anni e della confisca del veicolo con le stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione. Con l’ordinanza con la quale è disposta la sospensione della patente, il prefetto ordina che il conducente si sottoponga a visita medica secondo le disposizioni del comma 8. Se il fatto è commesso da soggetto già condannato nei due anni precedenti per il medesimo reato, è sempre disposta la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida ai sensi del capo I, sezione II, del titolo VI

Questi, brevemente, i fatti: l’imputato – condannato in primo grado ed in appello perché ritenuto colpevole del reato di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti per rilevare lo stato di ebbrezza – proponeva ricorso per Cassazione sostenendo, tra i vari motivi, l’inapplicabilità della circostanza aggravante dell’aver provocato un incidente al reato di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti per la verifica dello stato di ebbrezza: secondo il ricorrente, tale aggravante si applicherebbe solo al reato di giuda in stato di ebbrezza.

I giudici, dopo aver ricordato che il reato di rifiuto di sottoporsi all’alcoltest è reato istantaneo che si perfeziona con la manifestazione di indisponibilità da parte del soggetto agente, a nulla rilevando un successivo atteggiamento collaborativo, hanno osservato che la circostanza aggravante di aver provocato un incidente stradale è configurabile anche rispetto al reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento per le verifica dello stato di ebbrezza.

Il richiamo previsto nel settimo comma dell’art. 186 cds alle pene di cui al comma 2 lett. c) dello stesso articolo – osserva, infatti, la Corte – deve necessariamente comprendere anche la aggravante in questione perchè il comma 2 bis richiama a sua volta le sanzioni del secondo comma del medesimo articolo prevedendo il raddoppio delle stesse.

Sul sequestro di un sito (blog) su cui siano stati pubblicati commenti a carattere diffamatorio

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Depositate il 12 marzo 2014 le motivazioni della pronuncia numero 11895 della quinta sezione penale relativa alla possibilità di disporre il sequestro di un sito (nel caso di specie, un blog) contenente espressioni ritenute lesive dell’onore e del decoro.

La Quinta sezione della Corte di Cassazione, in particolare, ha affermato che per procedere al sequestro di un sito internet in cui siano stati pubblicati messaggi e commenti a carattere diffamatorio è necessaria una potenzialità offensiva del sito in sé, non individuabile nello sviluppo di un blog, che rappresenta una modalità fisiologica ed ordinaria dell’utilizzo del sito.

Nel caso, infatti, di blog (letteralmente contrazione di web-log, ovvero “diario in rete”) – termine con il quale di definisce quel particolare tipo di sito web, gestito da uno o più blogger, che pubblicano contenuti multimediali in forma testuale o di “post” – l’inibitoria che deriva a tutti gli utenti della rete all’accesso ai contenuti del sito è in grado di alterare la natura e la funzione del sequestro preventivo, perché impedisce al blogger la possibilità di esprimersi.

In tal caso, cioè, il vincolo non incide solamente sul diritto di proprietà del mezzo di comunicazione, bensì sul diritto di libera manifestazione del pensiero (cui si ricollegano l’esercizio dell’attività di informazione, le notizie di cronaca, le manifestazioni di critica, le denunce civili con qualsiasi mezzo diffuse) che ha dignità pari a quello della libertà individuale e che trova la sua copertura non solo nell’art. 21 Cost. ma anche nell’art. 10 CEDU.

Un giusto contemperamento di opposti interessi di rilievo primario – conclude la Corte – impone allora che l’imposizione del vincolo sia giustificata da effettiva necessità e da adeguate ragioni, il che si traduce in una valutazione della possibile riconducibilità del fatto all’interno dell’area del penalmente rilevante e delle esigenze impeditive, tanto serie quanto è vasta l’area della tolleranza costituzionalmente imposta per la libertà di parola.

Spacchettamento della concussione: le motivazioni delle Sezioni Unite (12228/2014)

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Sono state depositate oggi le 63 pagine di motivazioni della pronuncia numero 12228 delle Sezioni Unite a proposito del cd. spacchettamento della concussione e, prontamente, le pubblichiamo.

E’ ormai noto che la riforma dei reati contro la pubblica amministrazione – legge 190 del 2012 – ha dato a luogo a quello che è stato ribattezzato come il cd. “spacchettamento” della concussione, ossia l’aver suddiviso le originarie condotte di “costrizione” e “induzione” in due autonome fattispecie criminose. La legge di riforma ha, in altri termini, eliminato dall’art. 317 c.p. la condotta di “induzione”, lasciando come unica condotta incriminatrice la “costrizione” creando una nuova fattispecie per la condotta di induzione.

Come avevamo anticipato, lo scorso 24 ottobre le Sezioni Unite si erano pronunciate sull’individuazione della precisa linea di demarcazione tra la fattispecie di concussione (prevista dal novellato art. 317 cod. pen.) e quella di induzione indebita a dare o promettere utilità (prevista dall’art. 319 quater cod. pen. di nuova introduzione), affermando il seguente principio di diritto:

La linea di discrimine tra le due fattispecie ruota intorno al fatto che, nell’induzione indebita prevista dall’articolo 319 quater del Codice Penale, si assiste ad una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che lascia al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un suo indebito vantaggio. Al contrario, nel reato, più grave, della concussione per costrizione si sarebbe in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la liberta’ di autodeterminazione del destinatario.

Oggi sono state depositate le motivazioni.

Le Sezione Unite della Suprema Corte risolvendo un contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza di legittimità a seguito della riforma dei reati contro la pubblica amministrazione da parte della legge n. 190 del 2012, hanno individuato il discrimine fra il delitto di concussione e quello di indebita induzione, ritenendo, in particolare, che:

il delitto di concussione sussiste in presenza di un abuso costrittivo del pubblico ufficiale attuato mediante violenza o minaccia, da cui deriva una grave limitazione della libertà di autodeterminazione del destinatario che, senza ricevere alcun vantaggio, viene posto di fronte all’alternativa di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’utilità;
il delitto di indebita induzione, invece, consiste nell’abuso induttivo posto in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che con una condotta di persuasione, suggestione, inganno o pressione morale condizioni in modo più tenue la libertà di autodeterminazione del privato, il quale disponendo di ampi margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, nella prospettiva di un tornaconto personale;
Posta in questi termini la distinzione tra “abuso costrittivo” e “abuso induttivo”, la Corte ha anche specificato che, nei casi ambigui o di confine, i criteri di valutazione del danno antigiuridico e del vantaggio indebito devono essere utilizzati nella loro operatività dinamica ed all’esito di una complessiva ed equilibrata valutazione del fatto.

Sul nuovo art. 73 comma 5 dpr 309/90 dopo la sentenza della Corte Costituzionale 32/2014

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Con la pronuncia che si segnala ai lettori (udienza il 28 febbraio 2014, deposito il 5 marzo 2014) la quarta sezione della Corte di Cassazione ribadisce quanto già affermato sulla natura giuridica del nuovo art. 73 comma 5 dpr 309/90 (T.U. degli Stupefacenti) e prende posizione sulle conseguenze della pronuncia n. 32/2014 della Corte Costituzionale (illegittimità della Legge Fini Giovanardi) sulla disposizione in questione.

Come avevamo già anticipato segnalando due diverse pronunce della Corte di Cassazione (puoi visualizzare le notizie relative alle sentenze nella barra a destra), infatti, in seguito all’introduzione dell’art. 2 D.L. 23 dicembre 2013, n. 146 – cd. decreto “svuota carceri” – l’art. 73 comma 5 dpr 309/90 configurerebbe un titolo autonomo di reato e non più una circostanza attenuante.

Avevamo inoltre segnalato che la stessa Corte di Cassazione – in una relazione dell’ufficio del Massimario – nel porsi il problema della nuova qualificazione giuridica della fattispecie aveva fatto notare come nella nuova formulazione vi fossero una serie di «indici sintomatici del proposito di qualificarla come un autonomo titolo di reato» tra cui veniva segnalato, in particolare, l’inserimento della clausola di sussidiarietà – prova, questa, del fatto che «l’ambito di applicazione della norma è segnato in negativo dalla configurabilità di un “più grave reato”, espressione la quale apparentemente presuppone che il fatto considerato dal quinto comma dell’art. 73 costituisca esso stesso già un reato».

Ad ulteriore conferma della tesi favorevole a riconoscere nella nuova disposizione un titolo autonomo di reato vi sarebbero – secondo i giudici – due elementi d’indole obiettiva (valutabili nella prospettiva di una possibile ricostruzione della volontà storica del legislatore), integrati dalle dichiarazioni rilasciate, in sede politica, al momento della deliberazione del D.L. n. 146 del 2013, dalle quali si evince, per l’appunto, l’intenzione di configurare “una nuova ipotesi di reato in luogo della previgente circostanza attenuante” (comunicato-stampa rilasciato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri all’esito del Consiglio dei Ministri n. 41 del 17 dicembre 2013), nonchè dalla relazione al disegno della legge di conversione del decreto, che espressamente qualifica, quella del riformulato D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, come fattispecie autonoma di reato.

Chiarito, insomma, che non si è più di fronte ad una circostanza attenuante, la Corte si è soffermata sulle conseguenze della recente pronuncia della Corte Costituzionale relativa alla legittimità della legge Fini Giovanardi: con la sentenza n. 32/2014 del 25.2.2014 – si legge nelle motivazioni – la Corte Costituzionale ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, art. 4 bis e art. 4 vicies ter, (convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art.1, comma 1), con i quali il legislatore aveva uniformato il trattamento sanzionatorio relativo alle ipotesi di reato concernenti le c.d. “droghe leggere” con quelle riferite alle c.d. “droghe pesanti”; trattamento sanzionatorio che, viceversa, il testo originario del D.P.R. n. 309 del 1990 aveva configurato in termini largamente differenziati, mediante la previsione di una cornice edittale di maggiore o minore severità in relazione alla specifica natura della sostanza stupefacente considerata.

Secondo l’espressa indicazione del giudice delle leggi, con la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale delle norme impugnate, “riprende applicazione il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 nel testo anteriore alle modifiche con queste apportate” (con il conseguente ripristino del differente trattamento sanzionatorio dei reati concernenti le cosiddette “droghe leggere”, puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa, rispetto ai reati concernenti le cosiddette “droghe pesanti”, puniti con la pena della reclusione da otto a venti anni, oltre la multa), atteso che i vizi procedurali in cui era incorso il legislatore del 2006 (in sede di conversione dell’originario decreto-legge), dovevano considerarsi tali da dar luogo ad un atto legislativo affetto da un “vizio radicale nella sua formazione (come tale) inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010)”, ponendosi per il giudice ordinario il compito di “individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perchè divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter” dichiarati costituzionalmente illegittimi.

In altri termini, con particolare riguardo alla norma di cui al D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2, occorre domandarsi se la stessa, nell’introdurre la fattispecie autonoma di reato di cui al “nuovo” D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, debba ritenersi non più applicabile (perchè “divenuta priva del proprio oggetto”, nella misura in cui rinvii a disposizioni caducate), ovvero se la stessa debba continuare ad avere applicazione, in quanto non presupponga la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter dichiarati costituzionalmente illegittimi.

Ebbene, hanno ritenuto i giudici che l’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90, come modificato dall’art. 2 d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni nella legge 2014, n. 10 disciplina un’autonoma fattispecie di reato concernente i “fatti di lieve entità”, la quale non è stata travolta dalla sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale e conserva una propria giustificazione sistematica anche nel mutato quadro di riferimento generale, operante una distinzione del trattamento sanzionatorio a seconda che la condotta incriminata riguardi le “droghe pesanti” o le “droghe leggere”.

In altre parole, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014, l’efficacia modificativa dell’art. 2 deve ritenersi intervenuta sul (l’unico) testo (valido) del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ossia sul testo previgente rispetto alla riforma giudicata costituzionalmente illegittima tornato ipso iure in vigore a seguito dell’intervento del giudice delle leggi. E’ pertanto in tale prospettiva – concludono i giudici – che pare potersi intendere il passaggio contenuto nella più volte richiamata sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale, là dove afferma come “gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il D.L. n. 146 del 2013, sopra citato, in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest’ultima“.

Affitti in nero, tutto da rifare: sanzioni incostituzionali

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Le sanzioni previste per gli affitti in nero sono incostituzionali e quindi l’amministrazione non potrà più sostituirsi nei contratti stabilendone durata e canone, nel caso di omessa o irregolare registrazione.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 50 del 14 marzo 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle previsioni contenute nei commi 8 e 9 dell’articolo 3 del Dlgs 23/2011 (decreto che ha introdotto la cd cedolare secca).

Le norme in questione introducevano delle “sanzioni” da applicare ai casi di affitti in nero.

Cosa prevedeva la norma abrogata
In particolare il comma 8 modificava di fatto gli accordi contrattualmente concordati tra le parti. Ed infatti, era previsto che per i contratti di locazione di immobili ad uso abitativo i quali, ricorrendone i presupposti, non erano registrati entro il termine stabilito dalla legge,

a) la durata fosse stabilita in 4 anni a decorrere dalla data della registrazione, volontaria o d’ufficio, rinnovabili di altri 4, salvo deroghe previste per legge;

b) dalla registrazione, il canone annuo di locazione fosse pari al triplo della rendita catastale, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, del 75% dell’Istat.

Il comma 9 poi disponeva che la nullità del contratto di locazione non registrato, si applicasse sia quando nel documento registrato era stato indicato un importo inferiore a quello effettivo e sia quando era stato registrato un comodato fittizio.

L’eccesso di delega
Ben 6 Tribunali hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale, rilevando, tra gli altri, innanzitutto un difetto di delega, oltre che la violazione dello Statuto del contribuente.
La Consulta ha ritenuto fondata la questione proposta sotto il profilo del difetto di delega, fornendo in proposito alcune importanti precisazioni.
Con il Dlgs 23/2011 è stata data attuazione alla Legge delega in materia di federalismo fiscale (n. 42/2009).

Tuttavia, la citata legge delega aveva il dichiarato fine di assicurare, attraverso la definizione di principi fondamentali, l’autonomia finanziaria di comuni, province, città metropolitane e regioni, nonché armonizzare i sistemi contabili e di bilancio dei medesimi enti.
Il legislatore delegato doveva, pertanto, introdurre disposizioni che costituiscono un coerente sviluppo e un completamento delle indicazioni fornite dal legislatore delegante, nel rigoroso ambito dei “confini” stabiliti.

Nella specie, invece, le disposizioni sanzionatorie prima richiamate per le locazioni irregolari (di cui all’art. 3), erano destinate ad introdurre una determinazione legale di elementi essenziali del contratto di locazione ad uso abitativo (canone e durata) in ipotesi di ritardata registrazione del contratto o di simulazione oggettiva, espressamente sanzionate nella disciplina tributaria.
Si tratta dunque di un ambito normativo del tutto estraneo alla delega di riferimento.

La violazione dello Statuto del contribuente
A ciò si aggiunga che il legislatore delegante, aveva espressamente prescritto di procedere all’esercizio della delega nel rispetto dei principi dello Statuto del contribuente.
L’articolo 10 della legge 212/2000 stabilisce che le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto. Tuttavia secondo le previsioni della norma oggetto di censura, anche solo il ritardo nella registrazione, avrebbe comportato addirittura una novazione del contratto stesso, quanto a canone e durata.
Per quanto concerne poi “la sostituzione contrattuale dell’amministrazione”, operando in via automatica, violava anche le previsioni dell’art. 6 dello Statuto, in quanto non rispettava gli obblighi di informazione del contribuente.

I fondi pensione puntano sugli investimenti sostenibili

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Anche i fondi pensione entrano nel dibattito sulla possibilità di finanziare l’economia reale (e dunque la ripresa) di questo paese con l’aggiunta di un tema in più: l’impatto etico degli investimenti.

In questo contesto, gli investimenti socialmente responsabili (SRI, Socially Responsible Investments) sono oggetto di crescente attenzione da parte dei gestori non solo per il loro valore sociale, ma anche perché sono meno esposti alla volatilità, cioè alle oscillazioni delle quotazioni, e dunque rappresentano una delle possibili soluzioni al problema di contenere il rischio senza penalizzare il rendimento.
Su questo argomento, Assoprevidenza (Associazione Italiana per la Previdenza e l’Assistenza Complementare) ha tenuto il 13 marzo a Roma, con il sostegno di Renovo (holding della famiglia Arvati per la produzione di energie rinnovabili) e Vigeo Italia (filiale italiana dell’agenzia di rating sociale e ambientale europea) , il convegno “Gli investimenti etici dei Fondi Pensione”.

«Fondi pensione e Casse di previdenza devono operare senza schemi ideologici – ha affermato Sergio Corbello, Presidente di Assoprevidenza – perché il loro unico obiettivo è quello di impiegare le risorse nell’esclusivo interesse degli aderenti, senza perseguire finalità diverse. Tuttavia, nulla impedisce alle forme complementari di inserire tra i limiti dei mandati ai gestori anche dei criteri di SRI per la scelta degli asset. In questo senso esistono già all’estero esperienze virtuose e non mancano operatori del mercato finanziario in grado di rispondere adeguatamente alle richieste delle forme pensionistiche».

Nel corso della mattinata sono stati analizzati i risultati di una ricerca (“Gli investimenti etici dei fondi pensione”) svolta da un gruppo di lavoro coordinato da Claudio Cacciamani, Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari presso l’Università di Parma.

Nella composizione del patrimonio gestito dai Fondi Pensione italiani gli investimenti “etici” – che prendono in considerazione le conseguenze sociali e ambientali all’interno di un contesto di analisi finanziaria, escludendo per esempio titoli di società che producono armi, tabacco, alcool o che non rispettano i diritti dell’uomo – occupano ancora una posizione marginale. Eppure è stato ampiamente dimostrato che l’utilizzo dei parametri SRI nella selezione degli investimenti è spesso in grado di mettere al riparo da una serie di rischi cui sono esposti gli investimenti tradizionali, e nello stesso tempo di garantire nel medio-lungo termine rendimenti soddisfacenti, anche superiori a quelli restituiti dagli investimenti che non considerano la responsabilità sociale.

In Italia il mercato dei prodotti finanziari etici è per circa il 90% retail (investitori privati) a differenza di quanto avviene in Europa dove il 94% è in mano agli investitori istituzionali (dati Eurif, European Sustainable Investment Forum). Secondo Eurif le risorse investite in Europa con criteri socialmente responsabili sono raddoppiate fra il 2007 e il 2009, raggiungendo i 5.000 miliardi di euro.
Ma in Europa l’Italia è in coda alla classifica con solo il 2% del mercato europeo dei fondi socialmente responsabili. «Fondi pensione e Casse di previdenza – ha sottolineato Cacciamani- sono forse gli unici soggetti in grado di sostenere investimenti di lungo termine. La loro filosofia si coniuga perfettamente con la logica dell’investimento SRI, che non è speculativo, ma garantisce ritorni di rilievo in un orizzonte temporale di medio-lungo periodo, rispondendo in questo modo all’obiettivo di generare la massima valorizzazione delle risorse impiegate».

Gianfranco Verzaro, Presidente del Fondo Pensione del Gruppo BNL/BNP Paribas Italia, ha sottolineato la sensibilità al tema degli investimenti etici del fondo: «Siamo convinti che ci sia assolutamente bisogno, a livello mondiale, di valorizzare le imprese e i paesi che mettono al primo posto della loro attività il rispetto della persona e tutto ciò che ad essa è collegato. Per questo, dal 2011, ci avvaliamo del supporto di Vigeo che analizza e valuta il livello di Responsabilità Sociale correlato al nostro portafoglio finanziario. Il rapporto che ci viene illustrato ogni anno ci consente di riflettere a fondo su eventuali criticità rispetto ai principi che ci siamo dato con il nostro Codice Etico».

Secondo Stefano Arvati, Presidente di Renovo, «la crescita dei fondi etici può svolgere un ruolo fondamentale non solo dal punto di vista finanziario, fornendo agli investitori istituzionali una sponda sicura in termini di remunerazione del capitale investito e di profilo di rischio coerente con i loro obiettivi di gestione, ma anche ricoprendo un ruolo vicario rispetto alla politica e al sistema bancario, garantendo la realizzazione di progetti a medio-lungo termine di sviluppo sostenibile volti a rilanciare il nostro Paese, valorizzandone le potenzialità ancora inespresse».

«Negli ultimi anni – ha aggiunto Simonetta Bono, Sales Manager di Vigeo Italia – si è affermata sempre di più in Europa l’attenzione agli aspetti sociali ambientali e di governance nei processi di investimento. Una tendenza che si sta diffondendo anche in Italia, favorita da un contesto normativo e da una maggior consapevolezza da parte degli investitori sull’importanza di integrare variabili extra finanziarie nelle scelte di portafoglio».

Attualmente, le forme di previdenza complementari non hanno alcun obbligo di investire secondo criteri di selezione etica, ma devono dichiarare “se e in quale misura” tengono in considerazioni aspetti ambientali, sociali ed etici nelle loro politiche d’investimento e nell’esercizio dei diritti di voto (D.Lgs. 252/2005, art. 6, comma 13, lettera c).
Sono i fondi pensione chiusi i soggetti più attivi su questo fronte, ma anche le altre forme complementari stanno ragionando sulla possibilità di adottare principi etici. Gli operatori del settore si attendono una rapida crescita degli investimenti etici, anche se vanno abbattute alcune barriere che ne frenano lo sviluppo, come la mancanza di uniformità di vedute sui parametri SRI da adottare.

Molte aspettative sono riposte nel decreto ministeriale (D.M. 703/96) che stabilisce i limiti degli investimenti dei fondi pensione. Il decreto è attualmente nelle mani del Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, con la speranza degli addetti ai lavori della previdenza che il provvedimento di cui si parla da oltre quattro anni possa finalmente essere approvato.
«E’ auspicabile – ha aggiunto Corbello – che il nuovo decreto ministeriale 703/96 consegni alle forme complementari maggiore libertà di manovra in materia di investimenti, secondo un modello trasparente, affidando loro un ruolo più attivo nel controllo dei rischi e favorendo lo sviluppo del mercato finanziario attraverso l’ingresso di investitori istituzionali come le forme complementari nel mondo degli investimenti verso settori quali l’ambiente, la ricerca, l’innovazione, le infrastrutture, le energie alternative, il sostegno alle PMI».

Gli investimenti socialmente responsabili richiedono grande cura in termini di intervento attivo dell’investitore previdenziale, sia in fase di primo investimento sia di controllo. La destinazione dei fondi, l’assunzione di precisi impegni da parte del responsabile degli investimenti, l’attenzione alla governance degli intermediari e dei destinatari dei fondi implicano un atteggiamento “attivo” dell’investitore previdenziale. Ne deriva una necessità di competenze che non sempre sono presenti all’interno degli investitori previdenziali, per le quali, anche in caso di ricorso a soggetti esterni, è opportuno un controllo forte e attivo. Un altro tema di riflessione è la necessità di adottare indicatori di rendimento e di rischio che tengano in adeguata considerazione variabili non solo quantitative, ma anche qualitative; come per esempio la sostenibilità nel medio-lungo termine, il ritorno “sociale” e la complementarietà rispetto a ulteriori fabbisogni degli iscritti.

Nato, passepartout risolutivo tra Kiev e Mosca

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Ciò che osserviamo in Ucraina e in Crimea covava da tempo sotto la cenere. C’era da aspettarselo, visto che il presidente russo Vladimir Putin non ha mai fatto mistero della volontà di riscatto dall’ingestione dei troppi bocconi amari che Usa e Nato, nel tempo, gli hanno fatto inghiottire. Come, ad esempio, la questione antimissile, la cooptazione nella Nato di tanti ex-satelliti, l’indipendenza del Kosovo e il sostegno alla Georgia.

Il modo risoluto in cui aveva affrontato la crisi georgiana, per lui nient’altro che un test, avrebbe pur dovuto insegnarci qualcosa. Alla fine, il pressante – ed a volte anche maldestro – corteggiamento della Nato e dell’Unione europea (Ue) all’Ucraina a questo orgoglioso ammiratore di Pietro il Grande deve essere sembrato davvero intollerabile.

Nato-Russia Council
Va poi considerato che, a questo punto, troppe sono le “credibilità” ormai in gioco, e ciò limita la flessibilità del sistema internazionale. La prima, come abbiamo detto, riguarda direttamente Putin. La seconda coinvolge il presidente Barack Obama, accusato dai repubblicani e da una parte dei democratici di essere pavido, timido ed indeciso.

In effetti, il modo in cui ha trattato gli ultimi eventi in Medio Oriente non ne esaltano affatto la credibilità internazionale, costringendolo a “fare qualcosa”. Anche la Nato, che con qualche isteresi finisce per uniformarsi al comportamento degli Stati Uniti, si trova decisamente associata a questa crisi di credibilità. Lo è anche l’Ue, ma ormai tutti lo sanno, ci è abituata e fa l’unica cosa che può fare chi ha abdicato ad un minimo di forza: crearsi un piccolo spazio con la mediazione.

In ogni caso, per dialogare con la Russia lo strumento operativo esiste, è istituzionale e si chiama Nato-Russia Council (Nrc). Firmato al vertice Nato di Pratica di Mare nel 2002, si riunisce periodicamente in diversi formati. Una volta al mese a livello ambasciatori, due volte all’anno a livello ministeriale e quando richiesto a livello di summit.

Nei giorni scorsi il Consiglio si è riunito al primo livello, ma è fallito per la rigidità delle parti. Unico accordo, quello di rivedersi ancora. La Nato dispone quindi di un’ottima palestra, che va mantenuta aperta evitando di tirare troppo la corda. Non è male ricordare che, dopo la guerra del Kosovo, per un paio d’anni la Russia per protesta aveva rinunciato a partecipare al Permanent Joint Council (Pjc, predecessore dell’Nrc). Occorre molta attenzione, perché l’inconveniente – in questa fase sarebbe assai grave – non si debba assolutamente ripetere.

Soldati, F-15 e Awacs
Al momento, la Russia ha solo utilizzato i soldati, non le armi. Gli statunitensi hanno appena accennato a mostrare i muscoli, limitandosi ad inviare all’Est una squadriglia di F-15 e aero-rifornitori per “integrare” la difesa aerea, mentre la Nato ha schierato in Polonia e in Romania un paio di radar volanti (Awacs) per coordinare il tutto e sorvegliare gli spazi aerei. Dalle loro orbite, riescono a vedere anche ciò che succede nella Russia meridionale e in Crimea.

Nel corso dell’Nrc, il segretario generale della Nato Andres Fogh Rasmussen ha fatto il duro, specificando i provvedimenti immediati: sospendere la pianificazione della prima missione congiunta Nato-Russia (la scorta alle navi cargo che evacuano le armi chimiche siriane); annullare, al momento, gli staff meeting civili-militari; rimandare al vertice dei ministri degli esteri di aprile ogni decisione sul futuro della collaborazione con la Russia.

Ciò detto, il segretario ha attenuato il tono, affermando che la Nato intende mantenere aperto il dialogo nella sede più adatta. Tuttavia, ha voluto subito controbilanciare, assicurando che la cooperazione con l’Ucraina sarà comunque rinforzata e le riforme sostenute.

Unilateralismo russo svantaggioso
Il problema della Nato ora è come reagire – farlo è un obbligo – senza cadere in una nuova Guerra Fredda. In altre parole, è necessario rimanere ottimisti sul fatto che prima o poi Putin dovrà rendersi conto degli svantaggi del proprio unilateralismo. Nel frattempo, creandone le condizioni, occorrerà aiutarlo a convincersi che la sua immagine non ne trarrebbe alcun danno.

Ciò che può fare ora la Nato, oltre alle misure già prese, è, in primo luogo, mantenere tranquilli i nuovi membri dell’Est, in evidente fibrillazione; allontanare ogni occasione di confronto militare; favorire, con il foro Nato-Russia, un approccio multilaterale, coinvolgendo anche la Nato-Ukraine Commission ed, eventualmente, altri partner non-Nato.

E, soprattutto, la Nato non si “impunti” troppo sullo status della Crimea, e accetti l’evidenza che può esserci dell’illegalità non solo nell’ “invasione” russa, ma anche in quanto disgiuntamente e frettolosamente deciso da Kiev e da Simferopoli.

La Crimea svolta verso la Russia

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Le tensioni emerse in Ucraina con la caduta del presidente Viktor Yanukovich e il referendum con il quale la Crimea ha espresso la sua volontà di diventare autonoma dall’Ucraina per poi riunirsi alla Russia stanno ponendo la comunità internazionale davanti ad una delle crisi più difficili che si siano presentate negli ultimi anni.

Se difatti il presidente russo Vladimir Putin non può permettersi di perdere l’Ucraina e veder limitata la sua influenza vista anche l’importanza strategica e simbolica che il paese riveste per Mosca, dall’altro Washington, ma soprattutto Bruxelles, con le scelte che adotteranno, si giocheranno una parte considerevole della loro credibilità.

Crimea strategica
La situazione più critica si presenta in Crimea. Con la flotta russa del Mar Nero dislocata a Sebastopoli, la quale è stata usata dalle forze navali russe per il pattugliamento del Mar Nero durante il conflitto del 2008 tra Georgia ed Ossezia e per le azioni anti-pirateria nell’Oceano Indiano, la Crimea è per Mosca un luogo strategicamente fondamentale resa ancora più rilevante dal fatto che, per effetto della crisi siriana, il governo russo si è trovato nell’impossibilità di utilizzare il porto di Tartu per le operazioni nel Mediterraneo.

Stando all’intesa firmata tra i due paesi nel 2010, Kiev ha concesso a Mosca il diritto di utilizzare l’installazione fino al 2042, unitamente a un’opzione che prevede la possibilità di estendere il periodo per ulteriori cinque anni, in cambio di una riduzione del 30% sul prezzo delle forniture di gas provenienti dalla Russia.

Virata verso Novorossisk?
Come è stato sottolineato in un’analisi recentemente apparsa sul Financial Times, l’eventuale perdita della base di Sebastopoli costringerebbe la Marina russa a ripiegare sul porto di Novorossisk, una località situata sulla costa del Mar Nero che serve già come importante scalo commerciale ma che, sul piano militare, ben difficilmente potrebbe sostituire la base di Sebastopoli come approdo per la flotta.

È in questo contesto che si inserisce la decisione presa dal locale esecutivo filo-russo di indire entro dieci giorni un referendum, subito definito come illegale da Unione europea, Stati Uniti e dallo stesso governo di Kiev, con il quale la penisola dovrebbe dichiarare la sua autonomia dall’Ucraina per poi riunirsi alla Russia.

Il timore è che il distacco della Crimea non solo possa creare un pericoloso precedente, ma anche favorire analoghe spinte separatiste nelle regioni orientali del paese in cui le popolazioni russofone costituiscono la maggioranza.

Va però detto che ad un’analisi più attenta il quadro si presenta assai più complesso di quanto sembri a prima vista. Stando ai dati del censimento ufficiale del 2001, i russi costituiscono la maggioranza nelle grandi città, ma rimangono invece minoritari quando si considera invece l’intero territorio delle diverse province che risultano abitate in massima parte da ucraini, come appare evidente nel caso degli oblasts che comprendono le città di Kharkhiv e Donetsk. Un’eventuale secessione sarebbe quindi problematica vista la difficile realizzabilità sul piano territoriale.

Crisi finanze ucraina
La seconda questione riguarda poi lo stato in cui versa l’economia ucraina. L’accordo siglato lo scorso dicembre con la Russia, la cui firma sarà alla base delle violente proteste popolari contro il governo, consentiva a Kiev di ricevere un prestito di 15 miliardi di euro insieme ad un sostanziale ribasso sul prezzo delle forniture di gas, un punto questo estremamente importante vista la forte dipendenza energetica dell’Ucraina da Mosca e l’alto debito della compagnia petrolifera nazionale Naftogaz nei confronti della sua controparte russa.

Stando poi a quanto riportato in una nota dalla Bank of America Merril Lynch, l’Ucraina deve rimborsare quest’anno prestiti per 9 miliardi di euro, ai quali si devono aggiungere altri 3,6 miliardi da restituire al Fondo monetario internazionale e 1,5 miliardi di obbligazioni europee in scadenza a giugno.

Il quadro che presentano le finanze ucraine è però assai critico, con delle riserve valutarie stimate in appena 17,8 miliardi di dollari, un livello considerato troppo basso dagli osservatori, e con una moneta nazionale, la Grivna, che dall’inizio dell’anno si è fortemente deprezzata.

Senza un immediato intervento internazionale di almeno 15 miliardi di dollari il paese potrebbe andare molto presto in default, anche perché Mosca ha ipotizzato il blocco della prima tranche di aiuti finanziari previsti dall’intesa sottoscritta a dicembre.

L’ultima questione riguarda lo scenario politico ucraino che appare profondamente diviso. All’interno del movimento che ha guidato la protesta esistono difatti partiti di estrazione filo-europeista come l’Udar di Vitali Klitschko, ma anche formazioni di chiara matrice nazionalista come Svoboda, che alle elezioni legislative dell’ottobre 2012 ottenne un sorprendente 10%, nonché gruppi radicali di estrema destra accusati di azioni violente e tendenze antisemite. Trovare una via d’uscita alla crisi ucraina non appare facile anche perché le opzioni a disposizione appaiono assai limitate.

Sul piano economico, delle sanzioni contro la Russia avrebbero un impatto ridotto sugli Stati Uniti, ma assai significativo invece nei confronti dei paesi europei visti i loro legami energetici e commerciali con Mosca, mentre dal lato politico Washington non può spingere su posizioni più dure in quanto la collaborazione con il Cremlino è fondamentale nella gestione di altre situazioni sensibili come quella siriana o del nucleare iraniano.