1 Ottobre 2024, martedì
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Che “c’entro” a Milano? Servizi commerciali e nuova economia urbana

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Che “c’entro” a Milano? Servizi commerciali e nuova economia urbana

Il commercio come chiave di lettura del mutamento urbano.

Un’analisi del territorio orientata verso l’integrazione dei servizi commerciali e le attività connesse al tempo libero, all’intrattenimento, alla cultura, in una città attraversata da complesse dinamiche che ne stanno ridisegnando la morfologia sociale ed economica.

Ore: 9:30
Dove: Sala Consiglio – Via Meravigli, 9/b – 1Piano

Programma (in formato pdf 123 kB)

La voluntary copre il passato

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Una clausola di salvaguardia per gli esodati della voluntary disclosure, una norma che manterrà validi sia gli atti sia i provvedimenti adottati sulla base delle regole (in vigore fino al 28 marzo) sulla collaborazione volontaria. Blindati anche gli effetti già prodotti e i rapporti giuridici sorti sempre sulle norme dell’articolo 1 del dl 4/2014. E’ questo il contenuto di un emendamento, presentato da Daniele Capezzone presidente della commissione finanze della camera, al dl 4/2014 che sarà votato oggi in aula, approvato ieri dal comitato dei nove. L’articolo 1 è stato stralciato la scorsa settimana per seguire un più lungo ma più meditato (questo secondo le intenzioni dell’esecutivo) percorso parlamentare. La collaborazione volontaria dunque ora è stata posizionata su un duplice binario di progetti di legge: uno a firma dei capogruppo della maggioranza che recepisce in maniera secca l’articolo 1 ormai decaduto e un secondo progetto di legge a firma Capezzone che riscrive le regole in chiave di semplificazione e maggiore convenienza fiscale (si veda ItaliaOggi dell’8/3/2014).

I ritardi dell’Atac? Spesso colpa degli autisti. Parola di economista

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Qualcuno certamente s’indignerà, protestando contro il nuovo Grande Fratello, nel senso di George Orwell e non di Canale 5. Due studiosi, analizzando infatti alcuni dati del monitoraggio satellitare degli autobus dell’azienda municipalizzata Atac di Roma, hanno confermato che l’origine di alcuni ritardi si troverebbe in quello che fanno gli autisti ai capolinea. Un ricercatore dell’Università di Roma Tor Vergata, Stefano Gagliarducci, e un dottorando italiano a Berkeley, Raffaele Saggio, controllando il flusso di dati disponibili sul sito dell’azienda, sono arrivati a conclusioni che avvalorerebbe l’antica vox-populi: taluni ritardi sono dovuti al fatto che molti tranvieri si aspettano al capolinea per prendersi il caffè, fumarsi insieme una sigaretta o fare la chiacchiera in compagnia. La classica voce che, quando ce la raccontano, rubrichiamo sempre come fola: possibile che non siano il traffico o l’assenteismo, come dice spesso l’Atac, o i tagli crescenti, come controbatte il sindacato, a causare il disservizio? I due, che ne hanno tratto un documentato articolo per Linkiesta.it, hanno utilizzato un servizio offerto dalla stessa Atac che «tra le altre cose, permette di verificare l’arrivo esatto alla fermata attraverso un ricevitore Gps installato su ciascun autobus», scrivono. Avvezzi per formazione e studi econometrici a usare le statistiche hanno analiazzato per alcuni giorni, tra il 3 e il 7 marzo, quattro linee di superficie: il 64, il 105, il 409 e il 791. Numeri molto popolari nell’Urbe: la prima linea percorre gran parte del centro partendo dalla Stazione Termini, il secondo parte dalla stazione e fa la Casilini, uscendo a Est, arrivando anche a Tor Vergata, il terze serva la nevralgica Stazione Tiburtina, dove arrivano i pulmann dell’Acotral, i treni dell’Altavelocità di Italo e la metropolitana; il quarto infine collega la Circonvallazione Cornelia, nella zona dell’Aurelia, vale a dire a Sud Ovest della Capitale fino all’Eur traversando il Gianicolo. La scelta di esaminare queste e non altre linee? Dettata dalla rappresentatività «dei tempi di frequenza, alta/bassa, e del tipo di collegamento, centro/periferia», hanno chiarito gli studiosi. Non solo, per «evitare confronti non pertinenti», hanno circoscritto l’analisi. Come? Innanziuttutto hanno preso in esame gli autobus partiti fra le 5 e le 6 del mattino, «quando non c’è traffico, non ci sono ritardi accumulati e il numero di passeggeri non è tale da rallentare le operazioni di ripartenza», fascia oraria che ragionevolmente esclude le motivazioni «ufficiali» ai ritardi. Quindi hanno considerato solo le mattinate in cui il numero delle corse è stato regolare, «per escludere eventuali anomalie al Gps o al sito Atac, oppure all’assenteismo». Infine, i due osservatori hanno considerato alcune fermate, tra le più vicine al capolinea, «poiché, in eventuali arrivi congiunti a fermate più distanti dal capolinea potrebbero essere stati i semafori a compattare le corse». Che cosa emerge? Solo il 44% delle corse è arrivato nell’intervallo programmato. «Il 26% è invece arrivato in ritardo, con casi eccezionali come il 64, fra Stazione Termini e San Pietro, in cui si osservano frequenze di passaggio due-tre volte superiori a quelle previste. «Infine, il restante 30% è arrivato in anticipo, il che purtroppo non è un bene», scrivono Gagliarducci e Saggio. «Dietro a questo dato», notano gli autori, «infatti, sembra celarsi la conferma al sospetto degli utenti romani: su 198 corse osservate, ben 25 volte rileviamo autobus che arrivano sostanzialmente in contemporanea alla fermata. Particolarmente eclatante», concludono, «il caso del 105, periferia Sud-Est–Stazione Termini, il cui 20% delle corse è arrivato a meno di un minuto dalla corsa precedente». Non saranno il caffè o la sigaretta in compagnia degli autisti, ma qualcosa che non va c’è e si vede. A Linkiesta.it non paiono avere dubbi tanto da titolare così l’articolo: «Le pastette degli autisti Atac svelate con gli open data». Adesso si attende la replica dei sindacati. Inevitabile, come già detto, la rievocazione del Grande Fratello orwelliano che, nel romanzo 1984, era appunto l’autorità suprema che tutto controllava, con sistemi elettronici, fin dentro le case di ognuno. Oppure si ricorderà che lo Statuto dei lavoratori, al cui articolo 4 è fatto divieto di usare «impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori». Nessun sistema invece riesce a tracciare la rabbia dei romani dinnanzi ai problemi di ritardo dei mezzi pubblici di superficie. Le cronache capitoline sono piene di episodi di insofferenze e di esplosioni di collera, ai limiti del forconismo. Come quello riportato dal Messaggero, il 20 dicembre scorso, quando una folla di passeggeri inferociti per la vana attesa del 791, per un’ora filata, se ne erano visti arrivare uno ma «fuori servizio»: il mezzo era stato praticamente sequestrato, l’autista chiuso all’interno, in attesa di altri autobus.

Inditex (Zara) cresce grazie agli store. E quest’anno ne aprirà altri 500

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Grazie all’aumento del numero di store, raddoppiati rispetto al 2007, Inditex, il gruppo spagnolo a cui fa capo tra gli altri il marchio Zara, ha registrato nel 2013 un utile netto di 2,38 miliardi di euro e un aumento delle vendite del 4,9% a 16,72 mld. La società ha deciso di premiare gli azionisti con un aumento del dividendo del 10% a 2,42 euro.
La crescita degli investimenti, finalizzati soprattutto all’espansione della rete di negozi e alla promozione del canale di vendita online, ha comportato una leggera flessione nel risultato del quarto trimestre, passato da 708 a 703 milioni di euro. Nei tre mesi terminati a gennaio, le vendite sono aumentate del 4,7% a 4,8 miliardi di euro, mentre nelle prime sei settimane del 2014 il fatturato ha mostrato una crescita del 12%, misurata nelle valute locali. Il direttore dei mercati di capitali Marcos Lopez ha espresso ottimismo per come è iniziato l’anno solare, spiegando che i risultati del 2013 possono sembrare deboli solo perché confrontati con la solida performance dell’anno precedente. Al 31 gennaio, il colosso spagnolo contava 6.340 negozi nel mondo, contro i 6.009 registrati un anno fa. La società, che grazie alla moltiplicazione dei punti vendita è diventata il primo retailer al mondo nel comparto abbigliamento, aprirà quest’anno tra i 450 e i 500 nuovi store.

Marchi, fare squadra per crescere

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I raggruppamenti di imprese hanno vissuto in Italia alterne fortune dal dopoguerra a oggi, dal settore del design all’abbigliamento. Eppure sembrano essere uno strumento, alternativo alla finanza straordinaria (ovvero le operazioni di M&A, fusioni e acquisizioni, in costante calo in Italia), per far crescere le pmi tricolori e dar loro un respiro internazionale. «Piccolo non è più bello», ha spiegato ieri Maurizio Dallocchio, responsabile scientifico Cresv Università Bocconi di Milano al convegno «Made in Italy e M&A: difendere l’italianità o aggredire l’estero?». «La crescita dimensionale è l’unica alternativa per le aziende, si ricorra o meno a operazioni di finanza straordinaria. Le nostre pmi sono 3 volte più piccole delle medie aziende tedesche. Si fa tanto parlare di shopping dei marchi», ha aggiunto, «quando nel 2013 su 375 miliardi di dollari (circa 269 mld €) investiti dai grandi gruppi in Europa solo 14 miliardi hanno riguardato operazioni italiane. Bisogna crescere e prendere come riferimento l’alto di gamma, l’unico settore a garantire gli investimenti a livello globale».

Nella legge delega misure di revisione della fiscalità ambientale

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Sulla Gazzetta Ufficiale n. 59 del 12 marzo 2014, è stata pubblicata la L. 11 marzo 2014, n. 23, riguardante la “Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita”. Si tratta della Riforma fiscale che si prefigge, in primis, lo scopo di correggere alcuni aspetti critici del nostro ordinamento tributario per renderlo “più equo, trasparente ed orientato alla crescita economica”. Si ricorda che tra i principi fondamentali della Legge in esame vi è quello di dare maggiore certezza al sistema tributario italiano e migliorare i rapporti Fisco-contribuenti. A ciò si aggiunge la volontà di proseguire nel contrasto all’evasione e all’elusione fiscale e nel riordino dei fenomeni di erosione.

Altro aspetto rilevante è rappresentato dalla riforma del catasto dei fabbricati, mentre, per quanto riguarda la crescita, particolare attenzione va data alla revisione della fiscalità ambientale. Sul punto, l’articolo 15 delega il Governo ad introdurre nuove forme di fiscalità al fine di preservare e garantire l’equilibrio ambientale (“green taxes”), in raccordo con la tassazione già vigente a livello regionale e locale e nel rispetto del principio della neutralità fiscale. Si prevede inoltre la revisione della disciplina delle accise sui prodotti energetici anche in funzione del contenuto di carbonio, come previsto dalla proposta di Direttiva del Consiglio europeo in materia di tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità. Il gettito derivante dall’introduzione della “carbon tax” sarà destinato, prioritariamente, alla riduzione della tassazione sui redditi, in particolare, sul lavoro generato dalla “green economy”, ed al finanziamento delle tecnologie a basso contenuto di carbonio, nonché alla revisione del finanziamento dei sussidi alle fonti di energia rinnovabili. Al fine di non penalizzare, sotto il profilo della competitività, le imprese italiane rispetto a quelle europee, l’entrata in vigore delle disposizioni riguardanti la fiscalità ambientale sarà coordinata con la data di recepimento della disciplina armonizzata decisa a livello europeo.

Le quote rosa, bocciate in politica, si affermano nelle società a controllo pubblico

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In base alle informazioni che circolano in rete da qualche giorno, uno dei primissimi atti del governo Renzi – a firma dello stesso primo ministro, posto che la delega alle pari opportunità del sottosegretario Teresa Bellanova è recentissima e successiva al richiamato atto – è stata una diffida rivolta ad una Società Pubblica (di cui non si conosce il nome) che nel proprio consiglio di amministrazione non vedeva rispettato il numero minimo di consigliere donne stabilito dalla legge Golfo-Mosca (la n.120 del 2011).

Come noto la citata normativa ha inteso incidere in primo luogo sul mondo delle società quotate, ma affatto secondari sono gli effetti che si produrranno nel corso dei prossimi anni anche sulle società a partecipazione pubblica (si pensi a colossi come Eni, Enel, Finmeccanica, Terna) se il governo – come sembra voler dimostrare – si impegnerà affinché vengano rispettate nella costituzione degli organi di governo di dette società le percentuali di genere imposte per legge.

Il D.P.R. 30.11.2012 n° 25, pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 28.01.2013, ha infatti assegnato al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato per le pari opportunità l’obbligo di vigilare sul rispetto della normativa in ambito pubblico. La mancanza di equilibrio fra generi all’interno della società controllate da pubbliche amministrazioni può essere fatta pervenire al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato per le pari opportunità da chiunque vi abbia interesse. Accertato il mancato rispetto della quota stabilita, le società diffidate dovranno entro sessanta giorni (termine rinnovabile una sola volta per uguale periodo di tempo) ripristinare il mancato equilibrio, pena la decadenza di tutti i componenti dell’organo sociale e la ricostituzione dell’organo nei modi e nei termini previsti dalla legge e dallo statuto.

Resta aperto – in assenza di un’anagrafe della società controllate da pubbliche amministrazioni – il problema del controllo di un gran numero di società che, in modo più o meno diretto, dipendono da pubbliche amministrazione locali quali Comuni, Province, Regioni, etc. Ai sensi della legge, le società pubbliche sono obbligate a segnalare il rinnovo dei propri organi sociali entro 15 giorni dalla nomina, ma in base alle prime stime sarebbero ben poche, rispetto ai numeri attesi, le società che avrebbero rispettato questo impegno.

Nonostante i problemi di attuazione della normativa, le quote di genere – recentemente bocciate alla Camera per il parlamento – sono ormai una realtà per le società quotate e a controllo pubblico, anche se solo alla fine del 2015 si avrà il quadro completo dei rinnovi dei consigli di amministrazione delle società pubbliche, essendo i primi partiti solo a febbraio del 2013 (sei mesi dopo rispetto alle società private per la mancata adozione del regolamento attuativo arrivato nel novembre 2012).

Ultras Atalanta, “non è associazione a delinquere”. Giudice rivede l’accusa

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“Non è associazione a delinquere. Non luogo a procedere perché il fatto non sussiste”. Con queste parole il giudice Patrizia Ingrascì ha in pratica scagionato i 6 ultrà imputati. Mentre il processo si farà per 140 imputati, accusati di un lungo elenco di reati ‘da stadio’.

Il giudice Ingrascì ha infatti ritenuto che ci siano elementi sufficienti per continuare l’iter giudiziario che porterà a stabilire le responsabilità sugli scontri di Atalanta-Catania e Atalanta-Inter (2009), sull’assalto a colpi di molotov e bombe carta alla Berghem Fest leghista che ad Alzano Lombardo, nell’agosto 2010, vedeva ospiti i ministri Calderoli, Maroni e Tremonti e l’aggressione al giornalista dell’Eco di Bergamo Stefano Serpellini, preso a spintoni e testate a pochi passi dal tribunale perché ‘colpevole’, secondo gli ultrà, di aver seguito un processo per detenzione di cocaina che vedeva un tifoso atalantino alla sbarra degli imputati.

Nella sentenza il giudice osserva come il reato associativo sia caratterizzato da tre elementi: “Il vincolo associativo, l’indeterminatezza del programma criminoso e l’esistenza di una struttura organizzativa”. Requisiti che secondo il gup “non possono ritenersi adeguatamente dimostrati attraverso le indagini”.

Il giudice di fatto ha accolto la tesi della difesa: gli ultrà non sono un’associazione finalizzata a commettere reati da stadio, come sosteneva il pm Carmen Pugliese, che valuta il ricorso in Cassazione.

Cloak, l’app per non farsi trovare dagli amici

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Più che una semplice app per tablet e smartphone, Cloak è un mantello dell’invisibilità. Virtuale, certo. Non rende fisicamente trasparenti come il mantello di Harry Potter, che ha ispirato recenti prototipi d’ingegneria hi-tech, ma ha poteri magici da non sottovalutare. Soprattutto se si vogliono evitare certi incontri.

Scrive Luca Mastrantonio sul Corriere della Sera:

(…) Con Cloak si possono salvare cene, cinema e altri appuntamenti minacciati da quei tipi logorroici e psico-ricattatori che con aneddoti a matrioska possono sequestrarti l’anima (se li molli lì, ti fanno sentire come un pirata della strada).

Ma Cloak almeno permette di non fomentare l’odio per gli altri, distillato invece da dispositivi anti-social quali Hatebook, Hell is other people, Enemy book: in questi casi, Facebook e Twitter sono visti come piccoli inferni quotidiani, generatori di odio, meet up di nemici travestiti da amici virtuali. Cloak, serenamente, offre una «modalità incognita per la vita reale», come recita il suo slogan.

I suoi ideatori sono il designer Brian Moore e Chris Baker, ex direttore creativo del sito Buzzfeed e, ora, inventore di applicazioni eccentriche e divertenti: come unbaby.me, che permette di salvarsi dalla marea di foto tutte uguali che a ondate invadono con spirito omologante Facebook (ad esempio, quelle dei bambini e dei gattini).

Lanciata il 15 marzo per il sistema informatico iOs (valido per la galassia Apple, a breve arriva anche la versione per Android), Cloak permette di individuare sulla mappa, ed evitare, gli amici (in realtà sconosciuti o conosciuti ma molesti) che si geolocalizzano con Foursquare, il social che segnala i luoghi in cui arriviamo, o Instagram, che può segnalare anche da dove vengono scattate le fotografie condivise.

Piccola accortezza: meglio evitare di geolocalizzare se stessi, perché si offrirebbe a chi si vuole fuggire la propria posizione. Altrimenti, certe passeggiate, rischiano di diventare grottesche partite a Pac Man dal vivo.

Usa, pena di morte. Boia Oklahoma senza veleni, ma c’è la sedia elettrica

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Clayton Lockett,  colpevole di aver stuprato e ucciso una ragazza di 19 anni, deve morire giovedi’ in Oklahoma, ma il boia e’ a corto di veleni. Dopo l’ultimo no delle farmacie, che avrebbero potuto procurare il cocktail dell’iniezione letale, lo stato potrebbe essere costretto a cambiare metodo di esecuzione pur di non rinunciare a eseguire la condanna nel giorno previsto. Lockett potrebbe essere così fucilato o finire sulla sedia elettrica.

Sforzi “erculei” da parte del Dipartimento penitenziario di procurarsi i farmaci non sono andati in porto, ha scritto il ministero della Giustizia statale alla Oklahoma Criminal Court of Appeals. L’attuale protocollo delle iniezioni letali prevede l’uso di tre sostanze: il pentobabital che fa perdere la coscienza, il bromuro di vecuronio che blocca il respiro e il cloruro di potassio che arresta il cuore. E all’Oklahoma mancano i primi due farmaci. Per Lockett l’appuntamento con il boia resta comunque in programma alle 18 di giovedi.

Le informazioni sulla disponibilita’ delle sostanze letali sono emerse grazie a un’azione legale degli avvocati del condannato e di Charles Warner, un altro suo compagno nel braccio della morte, per fermare le esecuzioni. I farmaci sono diventati irreperibili perche’ i produttori approvati dalla Food and Drug Administration si sono di recente rifiutati di venderli ai penitenziari sapendo che sarebbero stati usati in iniezioni letali. “L’assenza di farmaci potrebbe indurre le autorita’ statali a rivedere i protocolli di esecuzione per inserire sostanze disponibili sul mercato”, ha scritto l’ufficio dell’Attorney General alla Corte d’Appello.

“Se dovesse accadere, il protocollo revisionato sara’ immediatamente fornito alla difesa per le esecuzioni dei due condannati”. Secondo il ministero della giustizia, l’Oklahoma e’ uno di otto stati americani che autorizzano ancora la sedia elettrica fra i metodi di esecuzione e uno di due (con lo Utah) che permettono pure la fucilazione. Per arrivare a tanto, tuttavia, l’iniezione letale deve esser prima esclusa, ha indicato Jerry Massie, un portavoce del Dipartimento delle carceri.