2 Ottobre 2024, mercoledì
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Aereo Malaysia, “non ci sono sopravvissuti”: familiari avvisati con sms

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Le famiglie dei 239 dispersi dell’aereo Malaysia Airlines MH370 hanno ricevuto un sms dalla compagnia aerea, secondo cui l’aereo scomparso è stato “perduto” e non ci sono sopravvissuti. Ecco il testo ricevuto dai parenti dei 239:

Malaysia Airlines deeply regrets that we have to assume beyond any reasonable doubt that MH370 has been lost and that none of those on board survived. As you will hear in the next hour from Malaysia’s Prime Minister, we must now accept all evidence suggests the plane went down in the Southern Indian Ocean.

Ovvero: “La Malaysia Airlines è profondamente dispiaciuta di constatare che, oltre ogni ragionevole dubbio, il volo MH370 è andato perduto e che nessuna delle persone a bordo è sopravvissuta. Come ascolterà prossimamente dal primo ministro malese, dobbiamo constatare che tutte le prove dicono che l’aereo è precipitato nel sud dell’Oceano Indiano”.

 

Veneto sì, indipendentisti pensano a lista per le elezioni europee

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Gli indipendentisti veneti si fanno il partito e si presentano alle europee. Lo scriveAlessandro Gonzato su Libero, riportando le parole di Gianluca Busato, uno dei leader del referendum(non legale ma simbolico) che ha sancito la volontà veneta di staccarsi dall’Italia. Non è ancora ufficiale, ma il nome potrebbe essere “Veneto sì”.

Scrive Gonzato:

Di ufficiale ancora non c’è nulla. Ma la volontà di incanalare in un soggetto politico ben preciso l’esito del referendum indipendentista è concreta. Lo fa capire Gianluca Busato -motore della consultazione organizzata dal comitato plebiscito. eu – che a Libero dice di «voler finire il mostro». «Oggi è rantolante », aggiunge, parlando ovviamente dello Stato italiano. «Dobbiamo liberarcene in modo definitivo, evitare che faccia ulteriori danni». La nuova formazione politica potrebbe chiamarsi “Veneto sì”.

Gonzato spiega il piano degli indipendentisti:

A quel punto sarà presa la decisione ufficiale ed eventualmente verrà messa in moto la macchina organizzativa in vista delle elezioni europee. «Prima di rendere pubblico questo passaggio però » precisa Busato «è giusto parlarne assieme. Certo, avere una nostra voce a Bruxelles sarebbe importante». Sul fronte regionali invece (in Veneto si voterà il prossimo anno), il leader di plebiscito. eu non ha dubbi: «Non ci saranno più. Nel 2015 si terranno le elezioni politiche della Repubblica Veneta, ma le regionali ormai appartengono al passato ».

Separati. Figli, soldi, casa, come evitare la guerra. I consigli del giudice

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Separati. Figli, soldi, casa, come evitare la guerra. I consigli del giudice. Alla fine di un matrimonio, al trauma della separazione non è necessario aggiungere la coda estenuante di un contenzioso infinito e snervante. Forse, prima che all’avvocato, da preferirsi quando l’accordo con il proprio ex è davvero impossibile, è meglio ascoltare i consigli del giudice.

Il Sole 24 Ore ha proposto una specie di piccolo decalogo dove sono fissate regole minime e consigli giuridici per sapere in anticipo cosa si può ragionevolmente esigere e cosa non è lecito pretendere per giungere con reciproca soddisfazione a una separazione consensuale che eviti una “guerra dei Roses” distruttiva per entrambi quando si tratta di decidere l’affido dei figli, l’assegnazione della casa, la ripartizione del patrimonio. I consigli del giudice aiutano a capire le conseguenze di una firma, a non coltivare aspettative infondate, a prevenire delusioni.

Rate mutuo. La sentenza 4210/2014 della Corte di Cassazione stabilisce che l’intesa raggiunta con la sottoscrizione della separazione consensuale  regola tutti i rapporti pendenti, inclusi eventuali crediti di una controparte. E’ il caso di una donna che aveva ottenuto dall’ex il pagamento delle rate del mutuo non versate. L’ex marito, che aveva firmato l’accordo per la divisione dei soldi ricavati dalla vendita dell’immobile, aveva fatto ricorso fino al terzo grado di giudizio, perché pretendeva il rimborso dei dei soldi impiegati per l’acquisto di casa. La Cassazione ha respinto il ricorso: l’accordo esclude controversie successive.

Assegno di divorzio, decide il giudice. La sentenza 2948/2014 della Cassazione stabilisce che per l’eventuale assegno divorzile solo il giudice può decidere. Nel caso concreto, la Cassazione ha respinto il ricorso di un marito contro il riconoscimento di un’assegno alla ex moglie nonostante in prima battuta, avesse firmato un accordo in cui rinunciava all’assegno. Per la Cassazione non conta, perché solo il magistrato può verificare le reali condizioni economiche delle controparti. Eventuali patti coniugali precedenti non esimono il giudice dal poter decidere diversamente.

Un prestito va restituito. La scrittura privata che prevede, in caso di separazione, la restituzione dei soldi prestati è valida. Lo dice la Cassazione (sentenza 19304/2013) che ha ribadito le sentenze emesse dai giudici negli altri gradi di giudizio: il caso riguardava un marito che è stato condannato definitivamente a corrispondere alla ex moglie i venti milioni per l’acquisto della casa.

Patrimonio ai figli.  Si può, di comune accordo durante la separazione, trasferire beni ai figli. Non è ammesso quindi solo l’istituto della donazione. La sentenza 21736/2013 della Cassazione omologa la convenzione dei coniugi che includeva il conferimento di beni ai figli a titolo gratuito senza l’obbligo del mantenimento dei figli stessi.

Un creditore può bloccare la cessione della casa. La sentenza 1672/2013 del Tribunale di Reggio Emilia stabilisce che un creditore può bloccare tramite azione revocatoria il trasferimento della proprietà della casa al coniuge. E’ successo che il Tribunale ha dato ragione a una banca creditrice della società di cui il coniuge era fidejussore. L’accordo tra i coniugi nella separazione consensuale non vale di fronte alle richieste del creditore. La revocatoria blocca il trasferimento, la banca si prende la casa.

Gianluca Marucchi e Chi l’ha visto: cerca la madre, trova il padre e 4 fratelli

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“Stamattina è morto Nerino, il mio cane: aveva 19 anni. Ho pianto. Stasera ho ritrovato mio figlio, Gianluca. Non avevo notizie di lui da 42 anni”. E’ l’incredibile storia di Gianluca Marucchi che, attraverso Chi l’ha visto, cercava la madre e ha invece ritrovato il padre, e quattro fratelli.

Lui, il padre, Giacinto Migliori, 69 anni, soprannominato Romolo, fa il pittore, dipinge acquarelli e li vende a Firenze tra piazza del Duomo e piazza della Signoria.

Scrive Iacopo Gori sul Corriere della Sera (questo illink originale):

È squillato il telefono di Romolo. Era Fanny, un’amica pittrice. «Non riattaccare. Guarda che su RaiTre c’è tuo figlio, accendi subito». Romolo ha cambiato canale e si è attaccato al telefono. Mercoledì prossimo, nella nuova puntata di «Chi l’ha visto», andrà in onda l’incontro tra Romolo (Giacinto) e Gianluca. Loro si sono visti domenica a Poppiano. Gianluca è voluto andare da solo a trovare suo padre. Emozione troppo forte. Si sono visti dopo che Romolo ovviamente aveva litigato con la produzione del programma che rallentava l’incontro per organizzare al meglio le riprese. «Quando mi ha visto mi ha detto “Non c’è bisogno di fare il dna, sono tuo figlio”». E te che gli hai risposto? «Oh, nun c’è bisogno de fà la colletta quando mmuoio..ce pensi te ar funerale».
«Sì sono commossi sì, tu vedrai – dice Franco Casaglieri, uno degli amici storici di Romolo nonché compagno di giochi di Roberto Benigni, pratese doc, esperto di donne e filati – se tu vedi gli occhi lo capisci subito che sono babbo e figlio. E’ stata una cosa da schiantare da ridere. Una cosa bellissima, incredibile. Il miracolo di Nerino o uno scherzo di Carlo Monni?»

Sarajevo. Un monumento a Papa Giovanni II sarà inaugurato il 30 aprile

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Un monumento a Papa Giovanni Paolo II, in omaggio alla sua missione di pace in Bosnia, verrà inaugurato a Sarajevo, davanti alla cattedrale cattolica, il 30 aprile prossimo, tre giorni dopo la canonizzazione del pontefice polacco. Lo hanno annunciato in una conferenza stampa l’arcivescovo di Sarajevo, cardinal Vinko Puljic, e il direttore dell’associazione culturale croata “Napredak”, Franjo Topic, che già nel 2007 avevano lanciato l’iniziativa per erigere un monumento a Giovanni Paolo II.

Il motivo principale, ha detto l’arcivescovo, è che il Papa che si è impegnato tanto per la pace e il dialogo in Bosnia, non deve essere dimenticato. Questo deve essere il messaggio del monumento, ha detto Puljic, e “noi tutti dobbiamo essere costruttori di pace, poichè questo era il messaggio del Papa”. “Giovanni Paolo II ha rinnovato la Chiesa e l’ha aperta di più al mondo – ha detto Topic – lui univa quello che a molti sembrava impossibile unire; ha visitato la Bosnia-Erzegovina due volte ed ha incontrato anche i rappresentati di altre religioni”.

“Diceva – ricorda Topic – che se muore il dialogo e l’ecumenismo, morirà il mondo intero”. Opera dello scultore Hrvoje Uremovic, che è nato a Sarajevo ma vive e lavora a Zagabria, il monumento, alto tre metri, sarà di alluminio, materiale più resistente del bronzo. Il costo dell’intero progetto e di poco meno di 250.000 euro. Nei suoi discorsi e appelli per la pace, Karol Wojtyla ha parlato della Bosnia 263 volte, soprattutto durante la guerra (1992-95). Il Papa polacco tra i primi riconobbe l’indipendenza della Bosnia, solo un mese dopo il referendum del 29 febbraio/1 marzo 1992, e visitò il Paese due volte: Sarajevo il 12 e 13 aprile 1997 e Banja Luka il 22 giugno 2003.

Emotion and Technology: è possibile una interazione?

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Nelle giornate del 5-6 marzo scorso, si è svolto a New York il Symposium  sulle “human analytics”, un talk sull’analisi automatica delle emozioni nei social media dal titolo “Sharing emotions in social networks. Data mining tools for the sentiment analysis of audiences”. Il Sentiment Symposium di New York è il più importante convegno mondiale sui temi della sentiment analysis e ogni anno tutti i più noti ricercatori del settore, oltre alle aziende di rilevanza mondiale che operano nel campo dell’ICT, si confrontano sull’argomento attraverso dibattiti, workshop e l’illustrazione di innovazioni e sperimentazioni in corso sull’analisi delle pulsioni dell’essere umano. Anche in Italia, a novembre 2013, in occasione del XIII Conference of the Italian Association for Artificial Intelligence, numerosi esperti di tecnologie informatiche, social network è metodologie di comunicazione, hanno dibattuto sulla bontà e l’utilizzo di strumenti di sentiment analysis, opinion mining, e soprattutto analisi del mood nell’utilizzo delle applicazioni presenti nel Cyberspazio.

Qualcuno potrebbe chiedersi il significato del termine “analisi del mood”! Presto detto. Lo studio del mood (il cui termine inglese è traducibile testualmente come “umore” o “stato d’animo”), rappresenta il nuovo spettro degli esperti di comunicazione mondiale. In altri termini si potrebbe definire come l’analisi del sentimento, che si esplica nella possibilità di misurare automaticamente lo stato d’animo, le opinioni e le pulsioni manifestate mediante i mediante i media classici, i new media, ma soprattutto i social network. Finora, il processo di misurazione del mood, è stato svolto nel seguente modo: si procede all’assimilazione di tutte le informazioni riconducibili ad un determinato oggetto, soggetto, argomento. Poi si procede all’analisi delle notizie raccolte che consiste, mediante svariate metodologie di aggregazione, all’assemblaggio e alla valorizzazione delle informazioni per dare loro un significato da cui possano scaturire le opinioni degli utenti su un determinato prodotto, questione, situazione, personaggio. La conoscenza prodotta, servirà ai direttori marketing, esperti di politica, manager e agenzie di stampa, a comprendere meglio gli orientamenti della gente.

Sin dalla notte dei tempi, l’uomo ha sempre inseguito il sogno di poter interpretare il pensiero reale dell’individuo, sia in funzione dei suoi scritti che dei suoi comportamenti. Fu Harold Lasswell , il famoso teorico della comunicazione, a introdurre il concetto della calcolabilità del linguaggio quotidiano. Come diretta conseguenza delle teorie della scuola di Lasswell, ed in funzione dell’evoluzione delle tecnologie informatiche, siamo giunti al Natural Language Processing (NLP), o elaborazione del linguaggio naturale, cioè il processo di trattamento automatico del linguaggio umano, mediante un elaboratore elettronico (computer). Molte aziende del settore ICT, nel corso degli ultimi decenni, si sono cimentate nella produzione di software sempre più affidabili nella comprensione del linguaggio, ma poco efficienti per quanto concerne la possibilità di assimilare il reale senso delle parole pronunciate dall’individuo. Effettivamente, le difficoltà riscontrabili nella comprensione del “parlato” sono molteplici, e sussistono delle problematiche oggettive che rendono impraticabili le tecniche di analisi dell’umore della persona. È inconfutabile che al momento non esista un software che sia in grado di gestire tutti i più diffusi tropi retorici, come le metafore, le metonimie, le ellissi. Inoltre, nessuna applicazione è in grado di interpretare l’ironia, o la differenza tra l’ironia e il sarcasmo. Senza dimenticare che è impossibile identificare e comprendere il sottinteso, l’allusione, l’ambiguità voluta e quella involontaria, oltre all’impossibilità di comprendere, attraverso strumenti tecnologici, le cosiddette “sfumature” del linguaggio parlato, tutti elementi basilari e preponderanti nella comunicazione dei new media. E tanto per inserire un ulteriore problema: nessun software è in grado di gestire in maniera corretta le differenze e i cambiamenti del registro comunicativo.

Ma come sappiamo, le innovazioni tecnologie sono inarrestabili, e soprattutto imprevedibili. All’Università di Rochester, negli USA, un gruppo di ricercatori, già da qualche anno, sta sperimentando uno smartphone “emozionale” munito di un software in grado di riconoscere, dal tono della voce, lo stato d’animo dell’utente, con un margine di sicurezza molto elevato. In realtà si tratta di un “app” che mediante l’analisi vocale, restituisce un’immagine che raffigura un emoticon triste o felice in funzione dell’emozione registrata. L’applicazione è in grado di analizzare ben dodici caratteristiche del linguaggio parlato, come la tonalità e il volume della voce, che vengono poi catalogate tra sei possibili “stati emozionali”. I ricercatori asseriscono che l’algoritmo utilizzato è capace di arrivare ad una precisione dell’81%.

Al di là della velocità delle innovazioni scientifiche e del desiderio dell’uomo di  giungere a forme di interazione ancora più spinte tra la mente dell’individuo e le tecnologie informatiche, sono ancora molte le riflessioni da fare. Più che dedicarsi all’analisi dell’umore dell’individuo, per coglierne informazioni che possano rivelarsi in qualche modo “fruttuose”, sarebbe opportuno soffermarsi sulla pericolosità del livello di influenza degli strumenti digitali nella vita di ognuno di noi. E mi riferisco soprattutto alle forti emozioni e alle modificazioni comportamentali che tali strumenti determinano a livello esistenziale. L’ininterrotta presenza “online” nei social network, l’incontrollabile necessità di fagocitare informazioni di tipo diverso attraverso il web, la nostra crescente esigenza di comunicare sempre più nel mondo virtuale e sempre meno in quello reale, le mistificazioni che perpetriamo sulla nostra immagine nei social media al solo scopo di innalzare il nostro ego o il livello di interesse del pubblico nei nostri riguardi, sono solo alcuni delle modificazioni mentali e comportamentali che il Cyberspazio sta producendo su di noi.

Forse è giunto il momento di riflettere seriamente su questi aspetti. Su quanto sia fondamentale affidarsi al contatto diretto con un individuo per comprendere il significato di uno sguardo, di un gesto, del tono di un’affermazione e del gesto che lo accompagna. Su quanto sia importante, alle volte, farsi condurre dalla voce del “cuore”, senza obbedire sempre e ciecamente a quella della “mente”. Sul valore del contatto diretto con un aspirante collaboratore da assumere, prima di essere repentinamente scartato dopo una rapida e fredda analisi razionale del proprio profilo su LinkeDin. E ancora sull’importanza dei rapporti sociali diretti, sempre meno cercati e sempre più allontanati, in virtù di quel rassicurante mantello dell’anonimato che solo un social network può garantirci, e che ci consente di mostrarci al meglio delle nostre possibilità, filtrando o mascherando le nostre paure, i nostri limiti e debolezze e forse la nostra crescente incapacità di comprendere la pericolosità del nostro nuovo modo di stabilire contatti interpersonali.

Sarebbe quindi opportuno ragionare sull’importanza e la valenza di ciò che apprendiamo attraverso le esperienze della vita reale, non filtrate attraverso lo schermo di un computer. Bisognerebbe tornare e vedere con i propri occhi la bellezza di un tramonto sul mare, invece di che condividerlo e commentarlo con una fotografia postata su un profilo di Facebook. Per l’individuo che vive in quest’epoca di trasformazioni socio-economico-culturali, l’esigenza di comunicare è resa ancora più evidente dal crescente stato di precarietà emotiva della sua vita. Una comunicazione che però necessità di stati emozionali forti, che possano consentirgli di ritrovare quegli stimoli, quelle eccitazioni e quelle pulsioni che possono fargli assaporare nuovamente il gusto della fiducia in se stessi, una fiducia che risulta essenziale per un individuo sempre più impegnato ad affrontare le innumerevoli sfide che la vita gli riserva. Ma tutto ciò sarà realizzabile solo se riusciremo a riconoscere il valore delle emozioni di un tempo, quando si passeggiava per strada stringendo nella propria mano quella della propria amata e non certo uno smartphone, quando in pizzeria si discuteva animatamente abbandonandosi a fragorose risate e alla gioia della goliardia del momento e non certo ai “post” e ai “tag” da inserire su Facebook. Riusciremo a ed emozionarci ancora quando saremo capaci di riscoprire il calore familiare, una energia assimilabile solo nel contesto della famiglia di un tempo, nucleo sociale ed affettivo basilare in cui si consumava la condivisione degli eventi della giornata e del confronto personale. E forse dobbiamo ricominciare proprio da questo contesto: la famiglia, intesa come luogo in cui formarsi e condividere, comunicare e ragionare, crescere e far crescere. La famiglia come luogo di comunicazione e condivisione e non come luogo di “connettività”!

Comunicazioni di cancelleria a mezzo PEC: nulla se manca l’allegato integrale del provvedimento

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Nel corso degli ultimi anni si sono registrati numerosi e frammentari interventi legislativi sulle in-novazioni in generale e specificamente sul tema della c.d. giustizia digitale. I primi interventi sono stati effettuati con riguardo alla posta elettronica certificata (PEC) obbligando i professionisti a co-municare la propria PEC all’Ordine di appartenenza, quindi i difensori ad indicare negli atti la PEC e modificando le norme del codice di procedura civile.
Riguardo alla PEC e alle comunicazioni di cancelleria, transitando prima dall’art. 4, comma 2, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, recante “Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario”, convertito con modificazioni dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24 e poi dalle regole tecniche con il DM 21/2/2011, n. 44 (così come modificato dalla DM 15/10/2012, n. 209), si è approdati alle disposizioni seguenti:
art. 16, comma 3, del decreto-legge 18/10/2012, n. 179, recante: “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”, convertito dalla Legge 221/2012, che modifica l’art. 45 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie;
art. 16, comma 4, del decreto-legge 18/10/2012, n. 179, recante: “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”, convertito dalla Legge 221/2012, secondo cui «Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi …»;
Nel corso di un giudizio di appello, definito dalla Corte d’Appello di Milano, Sezione Lavoro, con sentenza n. 224/2014 del 3/3/2014, è stata sollevata una questione preliminare sulla inammissibilità del reclamo perché lo stesso sarebbe stato proposto oltre il termine di decadenza di 30 giorni dalla comunicazione di cancelleria, termine appunto previsto dall’ art. 1, comma 58, della legge n. 92/2012. L’art. 1, comma 61, della medesima legge dispone che «In mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l’articolo 327 del codice di procedura civile». In tale ultima ipotesi si applica il termine di sei mesi.
Nel caso di specie, ovviamente, la comunicazione di cancelleria è stata effettuata a mezzo PEC, ma la stessa non conteneva in allegato il provvedimento integrale e cioè la sentenza di primo grado. Il reclamante, pertanto, ha depositato il reclamo nel termine di sei mesi.
Il citato art. 45, comma 2, disp. att. c.p.c. è stato modificato in questi esatti termini: «Il biglietto contiene in ogni caso l’indicazione dell’ufficio giudiziario, della sezione alla quale la causa è asse-gnata, dell’istruttore se è nominato, del numero del ruolo generale sotto il quale l’affare è iscritto e del ruolo dell’istruttore il nome delle parti ed il testo integrale del provvedimento comunicato».
La Corte d’Appello di Milano, con un’interpretazione, ad avviso dello scrivente rigorosa e corretta, delle norme citate ed in particolare del novellato art. 45 disp. att. c.p.c. e dell’art. 327, come richia-mato dall’art. 1, comma 61, della L. 92/2012, ha dichiarato regolare il reclamo poiché proposto nel termine di sei mesi in assenza del provvedimento integrale allegato alla PEC con cui è stata eseguita la comunicazione di cancelleria. In buona sostanza, afferma la Corte, qualora il messaggio di PEC inviato dalla cancelleria non contenga il provvedimento integrale, la comunicazione non è «idonea a raggiungere lo scopo di una piena conoscenza della sentenza da parte dei destinatari, presupposto necessario per far decorrere il termine breve ed inderogabile di trenta giorni per la proposizione del reclamo (come previsto dalla legge 92/12, nel combinato disposto di cui ai commi 58 e comma 61 dell’art.1 citato)».
In virtù dell’applicazione del termine ordinario previsto dall’art. 327 c.p.c. ad avviso della Corte d’Appello di Milano è necessaria una domanda specifica diretta a far dichiarare la nullità della co-municazione di cancelleria «perché appunto l’effetto in qualche modo “sanzionatorio” della mancata comunicazione anche della sentenza è già automaticamente previsto dalla legge».
La vicenda che è stata definita con la citata sentenza della Corte d’Appello di Milano, evidenzia come sia rilevante, anche ai fini giuridici e non soltanto pratici e/o di maggiore utilità o comodità per gli operatori, porre attenzione ad un corretto utilizzo degli strumenti digitali nel settore della giustizia. Il PCT si avvia verso la generale obbligatorietà a decorrere dal prossimo 30 giugno, salvo proroghe, ed emergono profili specifici e criticità che devono essere risolti alla luce delle norme vigenti. Molto spesso, peraltro, si pensa alla digitalizzazione della giustizia in maniera limitativa, po-sto che non viene effettuata una interpretazione sistematica che tenga conto delle diverse norme presenti nel nostro ordinamento. Spesso si trascura di considerare l’intero impianto normativo con-tenuto nel codice dell’amministrazione digitale (CAD) che disciplina diversi istituti.
Pertanto, è evidente come l’introduzione dell’uso della PEC, posta elettronica certificata, nel processo civile non abbia affatto modificato le norme di rito che devono essere, pertanto, compiutamente rispettate. Gli strumenti informatici hanno lo scopo (primario?) di agevolare e migliorare le attività lavorative ed i processi. Le norme del codice di rito che, sebbene modificate per l’introduzione nel giudizio civile dell’uso della PEC, vanno sempre lette ed interpretate alla luce dei principi generali dell’ordinamento e le tecnologie non possono costituire norma e prevalere sulle disposizioni proces-suali vigenti.

Produrre un Libro Bianco, istruzioni per gli operatori

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Il Consiglio Supremo di Difesa ha deciso di varare un nuovo “Libro Bianco” , che delinei un profilo completo e coerente della politica di difesa italiana (ed europea) e serva da falsariga per la riforma delle Forze Armate. È una decisione importante, che però non sarà facile attuare in modo serio.

In Italia abbiamo avuto vari tentativi di produrre un libro bianco della difesa, in genere tutti miseramente falliti, con la sola parziale eccezione di quello a suo tempo (1985-86) prodotto quando Giovanni Spadolini si trovò alla testa della Difesa. Quel (parziale) successo fu dovuto ad una felice combinazione di cooperazione tra il Gabinetto del ministro e un piccolo gruppo di esperti civili, che riuscirono a “cortocircuitare”, in parte, la macchina amministrativa.

Di grande aiuto fu il fatto che quel ministro della Difesa non riteneva di dover rendere conto a nessuno, salvo forse il Presidente della Repubblica, di quello che faceva, per cui il lavoro proseguì indisturbato. Da ultimo fu un successo parziale perché gli estensori dovettero comunque tener conto della natura delle Forze Armate italiane e soprattutto della struttura della Nato, fortemente mutuata dal modello americano, che in sostanza prevedeva che ogni Forza Armata, di terra, di mare o dell’aria, combattesse la sua eventuale guerra in modo autonomo, per cui ogni tentativo di integrare e unificare i comandi e le operazioni era fortemente limitato in partenza.

Ciò non toglie che il seme fu comunque gettato (con la individuazione di cinque “missioni interforze”, tra le quali due lo erano realmente, e si rivelarono all’atto pratico le più rilevanti sul piano operativo) e riuscì a dare i suoi frutti dalla fine degli anni Novanta, con la creazione di un vero Capo di Stato Maggiore della Difesa, un vero Comando Operativo Interforze, eccetera.

LB nella realtà politica interna e esterna
Un Libro Bianco quindi può essere utile ed importante, ma deve essere pensato per innovare e provocare, non per servire come mediocre strumento propagandistico o per esprimere il consenso medio maturato nell’amministrazione. Se fa solo queste cose è semplicemente uno spreco di tempo e di carta.

Allo stesso tempo un Libro Bianco deve esprimere la volontà politica del Governo, poiché le sue formulazioni dovranno essere accettate e difese in sede politica, mentre le sue scelte dovranno diventare la falsariga su cui impostare la futura pianificazione della spesa e delle riforme necessarie.

Ciò significa quindi che il Libro Bianco non può ignorare il quadro politico e le posizioni dei vari gruppi. Tuttavia non può essere semplicemente il prodotto di un compromesso tra politici: deve avere una più alta coerenza analitica e propositiva.

Se il Governo non accetterà le proposte degli estensori, dovrà essere in grado di spiegare perché e trovare soluzioni alternative ugualmente soddisfacenti. In altre parole un Libro Bianco di peso non ignora la realtà politica, ma la mette alla prova. In questa direzione, ad esempio è andata la Francia, i cui due ultimi Libri Bianchi sono stati scritti da Commissioni create ad hoc, direttamente responsabili nei confronti del vertice politico.

Un Libro Bianco deve cominciare con il delineare le caratteristiche del quadro strategico (non solo le “minacce” o i “rischi” cui è esposto il paese, ma anche il quadro delle alleanze, degli impegni presi, delle possibili sinergie, eccetera) e deve poi stabilire quali siano le priorità cui si deve fare fronte.

È infatti del tutto improbabile che un paese come l’Italia possa pretendere di bloccare ogni minaccia e ogni rischio: deve quindi decidere cosa è veramente importante e cosa lo è meno, e proporre le soluzioni coerenti con tale scelta.

Malgrado il diverso peso specifico della difesa francese (che include anche la dimensione nucleare nazionale indipendente) rispetto a quella italiana, può essere utile ricordare come anche i Libri Bianchi prodotti in Francia abbiano sottolineato la centralità e l’importanza dell’integrazione europea, oltre che dell’Alleanza Atlantica.

Qualsivoglia politica e strategia italiana devono essere concepite per inserirsi pienamente in tale quadro: l’unico che può anche garantirne il successo in caso di gravi crisi. Si tratta quindi di stabilire quale contributo potremo dare e cosa dobbiamo chiedere in cambio. Se lo scambio sarà equo, esso sorreggerà anche l’autorevolezza italiana nelle sedi decisionali comuni.

LB come strumento di pianificazione
Un Libro Bianco è anche uno strumento di pianificazione amministrativa, finanziaria e di bilancio. Esso deve quindi calcolare le risorse necessarie, valutare le risorse disponibili e proporre la strada migliore per cercare di conciliare al meglio risorse quasi certamente insufficienti con i bisogni da soddisfare per poter attuare la strategia prevista.

E naturalmente questo non può essere stabilito sulla base del bilancio di un anno, o neanche di tre, ma quanto meno di un decennio (anche se poi le programmazioni annuali e triennali dovranno modulare tale quadro adattandolo al mutare delle circostanze): una volta approvato, ove il Governo o il Parlamento volessero mutare significativamente una tale pianificazione dovrebbero spiegare come e perché, assumendosi la diretta responsabilità delle scelte che ne conseguiranno. Eventualmente produrre un nuovo Libro Bianco.

Il gruppo di lavoro dovrebbe quindi essere direttamente collegato con il vertice politico, ed avere un rapporto quanto più possibile libero di costrizioni con l’amministrazione. Esso sarà tenuto alla riservatezza ed eventualmente al segreto, ma deve poter ottenere tutte le informazioni necessarie per svolgere il suo lavoro.

Poiché ciò sarà tutt’altro che evidente, il gruppo dovrà avere la collaborazione diretta e continuativa di rappresentanti personali dei vari Capi di Stato Maggiore, del Gabinetto del ministro e del Segretario generale, ma sarebbe probabilmente molto utile mantenere anche un rapporto stretto con la Presidenza della Repubblica, in particolare con il Consiglio Supremo della Difesa.

Cooperazione tra dicasteri
Infine, il comunicato del Consiglio richiede un Libro Bianco circoscritto alla Difesa, e questo potrebbe rivelarsi un problema, poiché ormai la distinzione tra sicurezza e difesa si è fatta sempre più evanescente sul terreno, ma resta forte sul piano amministrativo e delle competenze governative.

Il Libro Bianco francese coniuga ormai insieme i due termini. L’Unione europea, pur puntando ad una Politica di Difesa europea, di fatto si è soprattutto esercitata nell’area della sicurezza. La natura duale di buona parte delle tecnologie usate per la difesa e per la sicurezza, rende più forte tale commistione.

Bisognerebbe quindi valutare la situazione anche dal punto di vista italiano. Ciò naturalmente potrebbe complicare la vita al gruppo di lavoro, costringendolo a cercare la cooperazione di altri dicasteri, come soprattutto quello dell’Interno e quelli da cui dipendono altri Corpi armati dello Stato (anche se in molti casi potrebbe essere sufficiente una collaborazione diretta con tali Corpi). Ciò potrebbe richiedere l’attenzione della Presidenza del Consiglio, oltre che di quella della Repubblica.

Nel complesso però spetta in primo luogo al ministro della Difesa fissare i paletti, stabilire il gruppo di lavoro e assicurare il rispetto delle regole che possono consentire l’elaborazione di un prodotto realmente utile ed innovativo.

Egli dovrà certo consultarsi con la Presidenza della Repubblica, con quella del Consiglio e con il suo collega degli Esteri, così come indicato dal Comunicato del Consiglio Supremo di Difesa, ma il Libro Bianco riguarda in primo luogo la sua sfera di competenza e le sue responsabilità. È una sua creatura, e come tale ha tutto l’interesse a far sì che esso sia un successo.

Commissione politica, politicizzata, ma non partigiana

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La domanda gira da tempo, con precisione da quando i maggiori partiti politici hanno deciso di presentare ciascuno un candidato alla presidenza della Commissione. Il dibattito ha la memoria corta. Per capire meglio, è opportuno distinguere tre aggettivi: politica, politicizzata e partigiana.

Non solo guardiana dei trattati
Piaccia o no, la Commissione è sempre stata un organo “politico”, anche se con poteri ridotti e da esercitare nei limiti del trattato. Come interpretare altrimenti il suo diritto d’iniziativa? Anche alcuni poteri di controllo, per esempio quelli sul rispetto delle regole di concorrenza, non sono incompatibili con un ruolo politico; negli Stati Uniti le indagini antitrust sono condotte (come in Europa sotto controllo giudiziario) dal Dipartimento della Giustizia.

Se alcuni in passato hanno proposto di affidarli a un’agenzia indipendente sul modello tedesco, è proprio per sottrarli a un organo considerato “politico”. Più recentemente il six pact e il two pact hanno affidato alla Commissione poteri che sono molto più “politici” di quelli che esercitava nella sua funzione di guardiana dei trattati.

Ugualmente, la Commissione è sempre stata “politicizzata”. Molti suoi membri vengono dalla politica nazionale e intendono tornarci. Tutti o quasi, anche quelli che prima di assumere il mandato erano alti funzionari, hanno preso l’abitudine di riconoscersi in uno dei gruppi politici del Parlamento europeo (Pe) e ne hanno frequentato i congressi.

Moltissimi (Jacques Delors è il caso più noto, ma anche, per esempio, i Commissari britannici) non hanno mai cessato di partecipare anche alla politica nazionale. Quando ero a Bruxelles si parlava tranquillamente (e nessuno se ne scandalizzava) di Commissari socialisti, liberali o democristiani; era considerato politicamente più corretto che definirli con la loro nazionalità.

Alcuni sono a volte sospettati di venir meno al loro dovere d’indipendenza, ma sempre per troppa condiscendenza nei confronti del proprio “paese” e non del proprio “partito”.

Rischio valanga euroscettica
Infine, “politica” e “politicizzata”, ma non “partigiana”. Una Commissione identificata con una maggioranza ipotizzerebbe un’Europa diversa da quello che è, dominata in modo inequivocabile da un solo schieramento; tutte le proiezioni dicono che nessun partito avrà più di un terzo dei seggi nel nuovo Pe e la presenza di un folto gruppo di euroscettici obbligherà i partiti tradizionali ad accordarsi. Comunque, anche con questi nuovi sviluppi i governi continueranno a conservare un ruolo importante nella nomina della Commissione.

Si dice: “come farebbe un presidente espressione di un partito a dialogare con governi espressione di un partito diverso?” La risposta è semplice: esattamente come in passato, quando Delors andava d’amore e d’accordo con Helmut Kohl. Del resto anche se il Presidente fosse più chiaramente riconducibile a un partito, la Commissione è sempre stata espressione di una variegata coalizione e così continuerà a essere; più simile al Consiglio Federale della Confederazione elvetica che ai governi che abbiamo nei nostri paesi.

Anche quando le nomine erano interamente nelle mani dei governi, la composizione della Commissione teneva conto di equilibri politici; se così non fosse, l’alto Rappresentante della politica estera Ashton non sarebbe dov’è.

Deficit democratico da colmare
Allora, di cosa stiamo parlando? L’Europa è accusata non senza ragione di deficit democratico e di scarsa trasparenza. Quando un commissario esercita i suoi poteri, sentiamo dire: “chi è costui, chi l’ha eletto?”. È facile rispondere che la Commissione è comunque responsabile di fronte al Pe, ma non basta più.

Nei meccanismi della democrazia il processo conta almeno quanto il risultato. Ciò che manca alle istituzioni europee è proprio un processo che faccia pensare ai cittadini che le persone che siedono a Bruxelles sono “anche cosa loro”. Può non piacere, ma la democrazia moderna è sempre più (troppo?) un problema di persone.

L’iniziativa dei partiti non è quindi destinata a cambiare la natura della Commissione, ma solo a farla evolvere secondo una tendenza in atto da decenni. La vera domanda è un’altra: riuscirà a dare alla Commissione la legittimità che attualmente le manca? Su questo punto, è legittimo esprimere dubbi. Dopo tutto il trattato di Lisbona conserva ampi poteri al Consiglio europeo che potrebbero essere disattesi solo se le elezioni producessero un’ampia maggioranza a favore di un solo candidato.

Sappiamo che così non sarà, ma si aprirà un negoziato in cui il Pe sarà notevolmente rafforzato rispetto al passato. Inizierà un processo che potrà essere lungo e accidentato, ma che sarà positivo per l’avvenire delle istituzioni.

La verità è che chi ha lanciato questa polemica non lo fa per evitare un cambiamento, ma piuttosto per sovvertire una situazione già consolidata. Vuole negare alla Commissione la possibilità di acquisire la maggiore legittimità che le è necessaria per esercitare i poteri che le sono stati attribuiti; in sostanza, ridurla a semplice organo tecnico lasciando ai governi il monopolio del potere.

L’operazione non è nuova ed è politicamente legittima. Ciò non toglie che la polemica sia intellettualmente disonesta.

Little England alza le barricate

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Tra tutti i temi che scuotono la scena politica inglese in questi anni, pochi bruciano come quello dell’immigrazione. Se c’è una dimensione della questione ‘europea’ – cioè se l’appartenenza all’Unione europea (Ue) porta più costi che benefici ai cittadini britannici – che emoziona più di ogni altra, è quella sulla libertà di cercare lavoro e uno standard di vita più alto in qualche altro stato membro dell’Unione.

Il fenomeno dell’United Kingdom Independence Party (Ukip), sconosciuto fino a poco fa e che promette di prendere fino al 25% alle prossime elezioni europee, è in gran parte il prodotto di un’ansia generalizzata sulla presunta ‘invasione’ da parte di cittadini dell’Europa dell’Est, capaci – si dice – di sovvertire il mercato del lavoro, gli equilibri finanziari del welfare state, e l’identità nazionale. Nigel Farage, il leader dell’Ukip, è arrivato a dire che, dovendo scegliere tra un paese più povero, ma inglese e uno più ricco, ma meno inglese sceglierebbe la prima opzione.

Contraddizioni a Downing Street
Nei primi nove mesi del 2013 sono stati 212,000 i nuovi arrivi, riflettendo forse l’apparente forza dell’economia inglese, ma rendendo ridicoli le promesse dei Conservatori al potere di ridurre il numero a ‘qualche decina di migliaia’. Davanti alla questione generale dell’immigrazione, i governi inglesi di questi anni si sono comportati in modo alquanto contraddittorio.

Da una parte, in una strategia di lungo termine, hanno favorito qualsiasi forma d’immigrazione che poteva abbassare i costi del lavoro, elemento portante di una rivoluzione dall’alto del mercato del lavoro che ha portato quello inglese a conoscere livelli di flessibilità e precarietà come nessuno altro in Europa (con il risultato di avere tassi di disoccupazione più bassi, ma anche livelli di produttività minori degli altri).

Dall’altra hanno dovuto tenere sempre d’occhio quelle forme di isolazionismo e protezionismo sociale espresse in modo militante dalla stampa popolare di destra e dall’Ukip. Per far quadrare questo cerchio i governi – soprattutto la coalizione attuale – hanno adoperato misure sempre più restrittive sull’accesso degli immigrati ai benefici del welfare state, dal sistema sanitario ai sussidi contro la disoccupazione.

Benefit tourism
In questa visione ha un grande ruolo lo spettro del ‘benefit tourism’, cioè l’idea che una parte significativa degli immigrati è attratto dal Regno Unito solo dall’idea che lì si può avere un accesso immediato al welfare. Un deputato Tory ha parlato di ‘uno tsunami di profughi dalla crisi della Eurozona’, tutti ansiosi di approfittare del ‘nostro sistema di welfare gratuito’.

Nessuna dimostrazione del numero ultra-esiguo di individui che possono essere identificati come ‘turisti’ in questo senso – in media forse 0.1% degli ultimi arrivi secondo l’Ue – ha potuto scoraggiare il primo ministro David Cameron e i suoi a fare propaganda presso paesi come Bulgaria e Romania per scoraggiare gli aspiranti immigranti ad arrivare sul suolo inglese. Il governo ha anche mandato nelle zone di Londra ad alta concentrazione di immigrati furgoni con pubblicità che promettevano di facilitare il loro ritorno a casa.

Asta passaporti
Il governo che compie questi gesti è lo stesso che ha suggerito di mettere i passaporti inglesi in vendita – attraverso aste con base di partenza £2.5 milioni di sterline – e che preme per una linea morbida nella vicenda ucraina per non scoraggiare il flusso di capitali e di plutocrati russi verso Londra.

Ci sono poche nazioni in un mondo globalizzato che non hanno problemi di immigrazione. In un’epoca di crisi economica poi, i protezionismi di ogni tipo si moltiplicano come virus. Quello che rende il caso inglese peculiare è il contrasto tra l’indignazione che accompagna gli ultimi flussi dall’Europa, e l’accettazione, più o meno consolidata, di quelli provenienti dall’ex-impero negli ultimi cinquant’anni.

I vari polacchi, ungheresi, rumeni ecc. si trovano identificati con quello che una certa Gran Bretagna – ‘little England’ – detesta nell’Ue: il suo ugualitarismo, comunitarismo e rifiuto di accettare la responsabilità per le conseguenze delle sue scelte. Che questo risentimento contro i risultati della liberalizzazione dei mercati del lavoro proviene dalla nazione che più di ogni altra negli anni ha predicato ai suoi partner europei la liberalizzazione di tutti i mercati non può che provocare accuse di ipocrisie e doppiezze da tutte le altre.

Su una popolazione di 63 milioni abitanti, gli immigrati dall’Ue sono circa 2.3milioni. Che qualche migliaia di loro possa trovarsi a dipendere, volendo o nolendo, temporaneamente, dal sistema del welfare inglese e questo provochi una reazione così forte dimostra semmai la fragilità degli equilibri economici e sociali nella Gran Bretagna di questi tempi.

Evidentemente è più debole di quello che il governo vuole fare credere la fiducia popolare nella sua insistenza che lì la ripresa è già in atto, e che tutti possono stare tranquilli.