3 Ottobre 2024, giovedì
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Pensione garantita ai co.co.co.

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Il lavoratore a progetto ha diritto alla pensione anche se il committente non ha versato i contributi all’Inps. Lo stabilisce il tribunale di Bergamo (sentenza n. 941/2013), estendendo a co.co.pro. e co.co.co. (ma non ai professionisti senza cassa) il c.d. «principio di automaticità» delle prestazioni, finora esclusivo appannaggio dei lavoratori dipendenti (art. 2116 del codice civile).
Senza pensione. La vicenda vede una lavoratrice co.co.co. contro l’Inps con la prima che chiede il riconoscimento dei contributi non pagati dal committente (una scuola) per nove anni. Alla lavoratrice, occupata dal 1996 al 2012, quando nel 2011 ha chiesto la pensione, l’Inps l’ha negata per difetto di contribuzione.
La decisione. Per l’Inps la questione è bella e definita: l’art. 2116 del codice civile (principio di automaticità delle prestazioni) non si applica agli omessi versamenti di contributi alla gestione separata. In effetti lo ammette anche il tribunale, asserendo che è l’art. 2116 riguardi solo i rapporti di lavoro subordinato.

Studi di settore 2013, via libera ai correttivi

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Via libera ai correttivi: gli studi di settore 2013 terranno conto della particolare congiuntura che ha interessato le attività economiche nel corso dell’anno. Lo rende noto l’Agenzia delle Entrate spiegando che il parere positivo è arrivato questa mattina durante la riunione della commissione degli esperti che ha eseguito un’indagine su oltre 2 milioni di contribuenti. In base ai dati relativi al 2012, analizzati nel corso della riunione degli esperti, il numero di contribuenti che risultano naturalmente congrui si è andato ampliando nel corso degli anni, arrivando a un rapporto di 7 contribuenti su 10 (il 73,30%). In aumento anche i contribuenti che hanno utilizzato il campo annotazioni per evidenziare particolarità nell’esercizio dell’attività (come nel caso di periodi di non normale svolgimento della stessa): dai 309.190 del 2011 ai 356.167 del 2012 (+15,19%). Il numero di contribuenti che hanno utilizzato il campo annotazioni in relazione alla crisi economica è invece passato dai 56.486 del 2011 ai 65.000 del 2012 (+15,07%). Fari accesi anche sulle specificità territoriali: l’attività di monitoraggio della crisi ha preso le mosse da una corposa raccolta di informazioni (fornite dagli osservatori regionali, dalle associazioni di categoria, dalla Banca d’Italia, dall’Istat e da altri soggetti) e dall’analisi dei dati contenuti nelle comunicazioni e nelle dichiarazioni annuali Iva. Le elaborazioni sono state effettuate su un panel di circa 2,1 milioni di contribuenti che hanno applicato gli studi di settore. I correttivi approvati per adeguare gli studi di settore alla situazione di crisi economica rientrano nelle quattro categorie già previste per il periodo di imposta 2012, ovvero: interventi relativi all’analisi di normalità economica, correttivi specifici per la crisi, correttivi congiunturali di settore, correttivi congiunturali individuali.

Professioni, sì del senato a pene più severe per gli abusivi

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Con 202 sì il senato ha approvato una modifica del codice di procedura penale che consente di punire più severamente chi pratica abusivamente una professione, per la quale e’ richiesta una speciale abilitazione dello stato. La pena prevista è la reclusione fino a due anni e la multa da 10.329 euro a 51.646 euro. Il ddl licenziato dall’Aula di palazzo Madama prevede anche che chiunque nell’esercizio di una professione o di un’arte sanitaria cagioni la morte di una persona venga punito con la reclusione da dieci a diciotto anni. Se si cagionano lesioni personali si applica la pena della reclusione da tre a dodici anni. Il provvedimento passa all’esame di Montecitorio.

Muccioli jr torna (davanti) a San Patrignano. Con un ristorante

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Andrea Muccioli sfida Letizia e Gianmarco Moratti, cioè coloro che accusa di averlo estromesso due anni fa da San Patrignano, la comunità fondata dal padre. La lite è stata furiosa, motivo: la gestione economica della comunità. Di fronte alla minaccia di un disimpegno della famiglia Moratti, da sempre la principale sostenitrice di Sanpa, Andrea Muccioli (e la madre) se ne andarono (dicono i morattiani), furono cacciati (sostengono i muccioliani). Anche dopo la clamorosa rottura non sono mancati ulteriori momenti di tensione con Muccioli che su Facebook è andato giù pesante: «I ricconi frustrati hanno deciso di espropriare la comunità con un semplice ricatto: il posto dipende dai nostri soldi, o te ne vai via tu o noi interrompiamo immediatamente i finanziamenti e voi dovete chiudere nel giro di un mese». Non solo. Andrea e la madre hanno trasferito perfino la salma di Vincenzo Muccioli dal cimitero di Coriano-San Patrignano a quello di Rimini per rimarcare la discontinuità del nuovo corso dei Moratti rispetto agli intendimenti dei Muccioli. È ancora muro-contro-muro. Ma adesso che fa Muccioli? Ha aperto (ieri l’inaugurazione) un ristorante a due passi da Sanpa. Ma non un locale qualsiasi. Vi lavorano anche persone che debbono essere aiutate nell’inserimento nel mondo del lavoro. Inoltre il menù è a chilometro zero, cioè si usano solo i prodotti del territorio. Al suo fianco c’è Franco Aliberti, che era lo chef del ristorante che Muccioli aprì all’interno della comunità di San Patrignano (ma con ingresso autonomo) con l’obiettivo di incanalare i ragazzi anche nelle professioni di cuochi e camerieri. Una sfida a Sanpa all’ultimo boccone ma pure, in un certo senso, un ritorno di Andrea Muccioli allo spirito comunitario poiché il progetto prevede il sostegno, la formazione e l’avvio al lavoro per giovani tra i 16 e i 22 anni che abbiano vissuto situazioni di disagio, sociale o relazionale. La nuova avventura di Muccioli dopo l’addio alla comunità avviene in una dependance del Grand Hotel di Riccione, la vecchia lavanderia in disuso. Qui (298 metri quadrati) trovano posto un bar, una caffetteria, una pasticceria, una rosticceria, un ristorante e una foresteria per i giovani chef coinvolti.  Accanto (302 metri quadrati) si trova l’orto. In più vi è uno spazio espositivo, in collaborazione con una galleria d’arte: la prima mostra è dedicata a Mario Schifano. Anche il nome richiama la precedente esperienza di Muccioli: il «suo» ristorante a San Patrignano si chiamava E’vita, questo è stato battezzato E’vviva. Con una sotto-griffe:  cucina a scarto zero.  «Abbiamo deciso – dice Muccioli – di realizzare un sogno di cui con Aliberti parlavo quando ci ritrovavamo nel ristorante di Sanpa, quello di creare un luogo nuovo, anticipatore dei tempi e fedele alle nostre idee». Aliberti ha nel pedigree collaborazioni con Massimo Bottura, Gualtiero Marchesi, Alain Ducasse, Massimiliano Alajmo. «L’alta cucina- spiega – scarta troppo perché può permettersi prezzi almeno 10 o 15 volte superiori a quelli di una trattoria. Noi facciamo l’opposto. Si tratta di un modo etico di cucinare, un esempio per chi lavorerà con noi ma anche per i nostri clienti». Le stanze (anni Trenta) sono state restaurate in modo da non alterarne la storia, così come sedie e tavoli sono realizzati con materiali di recupero, in una sorta di minimalismo ecologico. Il prezzo medio? 35 euro un pasto completo. I commensali che lo desiderano potranno pure apprendere dallo chef in che modo cucinare, a casa, senza spreco. Un esempio è quello del pomodoro. Si buttano le bucce? No, si mettono in infusione per ottenere un olio al pomodoro oppure nel forno e diventano chips. I semi, zuccherati, guarniscono i dolci e con le foglie si ottiene un liquore. In conclusione: niente scarto. L’unica promozione prima dell’apertura al pubblico è avvenuta a Roma in occasione delle «Cene clandestine», serate che ogni mese presentano uno chef per una cena a scopo benefico: il primo appuntamento ha ospitato come protagonisti Muccioli e Aliberti. Che si propongono di diventare una coppia protagonista del trend gastronomico in corso, affermatosi anche grazie ai programmi televisivi, a cominciare da Masterchef. «Vengo da Scafati, un paese vicino a Pompei e vedevo mia mamma, contadina, cucinare – dice Aliberti. – A 16 anni ho lasciato la casa e ho incominciato a perfezionarmi sia come pasticciere che come cuoco. Ma non ho dimenticato le mie origini legate al sapore delle cose naturali, che cercherò di esprimere al meglio in questa esperienza che mi consente di re-incontrare Andrea Muccioli dopo la collaborazione che abbiamo avuto a San Patrignano». Muccioli riparte, dopo lo choc dell’abbandono della comunità costruita dal padre. E riprende da un contesto, la Romagna e la zona di San Patrignano, dov’è cresciuto. Accanto a lui la moglie, Cristina Fontemaggi, docente di estetica moderna, che ha in questi due anni tenacemente difeso il consorte: «Contestano tutto a mio marito, ricevute di ristoranti, viaggi, ma soprattutto la ristrutturazione della villa che abbiamo deciso insieme, noi e i Moratti. Casa di proprietà della comunità, ma nella quale dovevamo andare a vivere noi e dove era stato ricavato un appartamento per loro, Letizia e Gianmarco. Ma dopo sette anni di architetti mandati da Milano e di progetti, si sono accorti che c’era una crisi economica e troppo sfarzo. Un pretesto per mettere alla porta mio marito». E’vviva diventa adesso la rivincita di Andrea Muccioli, che attende col fiato sospeso l’arrivo della stagione estiva, quando la Romagna si riempirà di turisti. Lui spera che in tanti affolleranno il suo locale e che esso possa diventare un trampolino di lancio per giovani che hanno bisogno di aiuto,  come quelli che venivano (e vengono) accolti a Sanpa.

Strasburgo costa all’Italia 174 euro al secondo, ma lavora poco e male

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Festina lente (affrettati lentamente) diceva un adagio degli antichi romani. Duemila anni dopo, l’Europa di Bruxelles se n’è appropriata e lo applica alla lettera. Prendiamo il Parlamento europeo. Per rinnovarlo, si vota il 25 maggio in 28 Paesi. Ma fino a dicembre non si muoverà neppure una foglia, poiché serviranno ben sette mesi per completare tutti gli adempimenti formali previsti dai trattati europei per insediare la nuova governance. Il confronto con gli Stati Uniti è umiliante: a novembre si vota per scegliere il nuovo presidente Usa, e il 20 gennaio, questi, giura per dare inizio al proprio mandato. Davanti a simili lungaggini, c’è poco da meravigliarsi se l’Europa viene sentita sempre più come un’entità politica lontana dalla gente comune, per non dire ostile: inetta di fronte alla crisi economica, e capace solo di imporre veti assurdi mentre sperpera fior di miliardi in privilegi. Il calendario degli adempimenti parla da solo. I 751 deputati eletti al Parlamento europeo si riuniranno nei primi giorni di luglio per l’insediamento del nuovo presidente e formare le nuove commissioni. Subito dopo, i capi di Stato e di governo dei 28 paesi membri dell’Unione europea, riuniti nel Consiglio europeo, sceglieranno il presidente della Commissione Ue, che, in base al Trattato di Lisbona (2009), dovrà appartenere al partito che vincerà le elezioni. In corsa ci sono il socialdemocratico tedesco Martin Schultz (divenuto celebre grazie a Silvio Berlusconi, che lo definì «kapò») e il popolare lussemburghese Jean Claude Juncker, gradito dalla cancelliera Angela Merkel. Che gli elettori europei, italiani inclusi, si scaldino per simili candidati – sconosciuti ai più – è un’ipotesi da fantapolitica. Poi, sempre con calma, prendendosi un altro mese, il Parlamento europeo procederà poi alla ratifica dell’uomo scelto per guidare la Commissione Ue in sostituzione di Josè Barroso. Così, a fine luglio, il nuovo presidente Ue potrà scegliere i 28 commissari, uno per Paese, che faranno parte del suo esecutivo. A settembre, dopo le ferie estive, il Parlamento vorrà conoscere di persona i singoli candidati agli incarichi di commissario, con apposite audizioni che dureranno fino alla fine di ottobre. Per quella data, come prevede Rony Hamaui sul sito lavoce.info, finalmente il Parlamento concederà la fiducia alla nuova Commissione Ue, che entrerà in carica il primo novembre, salvo un ulteriore slittamento dovuto alla mancanza di una chiara maggioranza politica. Un’ipotesi sempre più concreta se si pensa che né il Partito popolare né quello socialdemocratico potrebbero raggiungere la maggioranza del 51 per cento a causa del dilagare delle liste euroscettiche e anti-euro. In tal caso, si imporrà un negoziato politico per una maggioranza di larghe intese anche in Europa, con tempi imprevedibili. Tutto finito? Niente affatto. L’ultimo atto prevede che i capi di Stato e di governo dovranno nominare il presidente del Consiglio europeo che li riunisce, e questo avverrà il primo dicembre. Una data chiave:  soltanto con l’entrata in carica del nuovo presidente del Consiglio dei capi di Stato e di governo potrà finalmente avere inizio la nuova legislatura dell’Unione europea, che durerà quattro anni. Quale sia in concreto il programma di governo dei popolari, oppure dei socialdemocratici, è un mistero. A parte le giaculatorie sulla necessità di rilanciare la ripresa, nessuno dei partiti in lizza sembra porsi il problema di semplificare in modo radicale una costruzione barocca che viaggia a passo di lumaca, ma costa più di una vettura di formula uno. Il Parlamento europeo rimane aperto e lavora appena quattro giorni al mese. Ogni deputato, sommando l’indennità (8 mila euro), le spese generali (4.299 euro), il gettone di presenza di 304 euro al giorno, più rimborsi vari, arriva a una media di 18-19 mila euro al mese. E Mario Giordano nel suo ultimo libro («Non vale una lira»; Mondadori), ha calcolato che l’Europa rappresenta un costo secco per l’Italia, pari a 174 euro al secondo. Come sia giunto a questo risultato, è presto detto: nel 2013 l’Italia ha versato nelle casse dell’Unione europea poco meno di 15 miliardi di euro e ne ha incassati poco più di 9, con una differenza di 5,7 miliardi. Facendo le debite divisioni, significa un costo (o una perdita) di 174 euro al secondo, che salgono a 10.464 euro al minuto, a 627.853 in un’ora, e a 15 milioni in un giorno. E il 2013 non è stata affatto un’eccezione: l’Italia ha perso 5,2 miliardi nel 2012, addirittura 7,4 nel 2011, altri 6,5 nel 2010, altri 7,2 nel 2009, e così via. In dieci anni, la differenza tra quanto l’Italia ha versato all’Europa (159 miliardi) e quanto ha ricevuto (104 miliardi) è stata di 55 miliardi, con una media di 5,5 miliardi l’anno Un affare pessimo per l’Italia, ma dare la colpa solo alla burocrazia europea non regge. Nel conto si deve mettere anche l’incapacità dei politici e della burocrazia di casa nostra, che sono riusciti a utilizzare solo il 50,1 per cento dei fondi strutturali europei, stanziati per il periodo 2007-13. Erano 27,9 miliardi, e ne abbiamo usati soltanto 14 per la cronica mancanza di progetti validi, soprattutto a livello regionale. Un’ultima annotazione. Oggi i giornali parlano di «Europa avara» con l’Italia, e spiegano che la Commissione Ue guidata da Barroso sta obbligando il nostro Paese a rispettare il vincolo del pareggio strutturale, previsto dal Fiscal compact, con una severità totale. Ragion per cui l’Italia non potrà avere nei prossimi anni una crescita tale da ricondurre la disoccupazione al di sotto dell’11 per cento. Un avvertimento che arriva proprio quando la disoccupazione ha raggiunto il 13 per cento, un dato che il premier Matteo Renzi ha definito «allucinante». Non avendo responsabilità per il passato, può dirlo. Ma ben più «allucinante» è un’Europa così lontana dai problemi della gente comune. E cambiarla, ora è anche compito suo.

Campari, accordo con Molinari per portare la Sambuca in Germania

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Dopo l’acquisizione in Canada di Forty Creek Distillery, azienda leader nel mercato degli spirit nel paese nordamericano, Campari punta con decisione sulla diffusione della Sambuca Molinari nella Mitteleuropa. In febbraio, la multinazionale degli alcolici ha infatti siglato un accordo con la famiglia proprietaria della marca per distribuire Sambuca Molinari Extra “in Germania e alcuni mercati selezionati”: l’accordo è diventato operativo il 1° aprile.
La notizia si legge nel bilancio 2013 depositato in questi giorni. A Campari sarà affidata anche la distribuzione del marchio italiano nei duty free del paese e il gruppo, grazie a questa intesa, curerà la distribuzione in Germania anche di Molinari Caffè.

Semafori, multa annullata con giallo sotto 4 secondi

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Non vale la multa per passaggio di un incrocio con il semaforo rosso se la durata del giallo è inferiore a quattro secondi in centro abitato e a cinque fuori città. Ma possono essere stabiliti anche tempi diversi dagli specialisti della regolazione semaforica perché il codice della strada non si esprime dettagliatamente in proposito. Lo ha evidenziato il sottosegretario dell’economia e delle finanze Enrico Zanetti, martedì 1° aprile alla Camera in risposta a una interrogazione di Simone Baldelli (Fi). La questione della durata della luce gialla dei semafori assume rilievo quando sugli incroci vengono posizionati i controllori automatici del semaforo. Ovvero per evitare che l’automobilista passi con il rosso a sua insaputa perché tratto in inganno dall’eccessiva brevità della fase intermedia di colore giallo. L’art. 41 del codice della strada dispone, infatti, che durante il periodo di accensione della luce gialla l’automobilista non possa oltrepassare la linea di arresto, a meno che egli non si trovi così prossimo al momento dell’accensione da non potersi più arrestare in condizione di sicurezza.

Lotta all’evasione a caro prezzo

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Il prezzo della lotta all’evasione ricade anche sui contribuenti onesti. Per ciascun cliente le lettere di intento ricevute costano in media 183 euro e le comunicazioni black list 275 euro. E se per gli studi di settore il costo è di circa 187 euro per posizione, l’elaborazione e invio dello spesometro si fermano a quota 103 euro. È quanto emerge dalla prima edizione dell’Osservatorio promosso dall’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Monza-Brianza e dal Criet, il Centro di ricerca interuniversitario in economia del territorio dell’università di Milano-Bicocca. I risultati dell’analisi sono stati presentati ieri. La ricerca ha preso in esame sia il numero di ore impegnate sia i costi effettivi per le attività di formazione e aggiornamento, per i software (nonché eventuali aggiornamenti) e per il reperimento della documentazione necessaria presso le aziende assistite.

Adriatico, il senato dice stop alle trivellazioni nel mare territoriale

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E’ stato approvato al senato, a larga maggioranza, con 180 voti favorevoli, 52 contrari e 8 astenuti, un ordine del giorno in tema di trivellazioni per gli idrocarburi nel Mare Adriatico. Lo ha annunciato il presidente della Commissione Ambiente di Palazzo Madama, Giuseppe Marinello.”L’ordine del giorno della maggioranza, votato anche dalla Lega e da Forza Italia e al quale il Pd ha lavorato con convinzione, è il frutto del lungo impegno di approfondimento svolto dalla Commissione Ambiente del Senato. Una nota dei senatori del Pd Laura Puppato, Stefania Pezzopane, Massimo Caleo  e Stefano Vaccari spiega che “in particolare, si impegna il governo a disporre la sospensione delle attività di coltivazione di idrocarburi liquidi nelle acque territoriali entro le 12 miglia marine fino al recepimento della direttiva europea sulla sicurezza in mare 2013/30; a prevedere in maniera chiara il parere degli enti locali sulle installazioni da assoggettare a Valutazione dell’Impatto Ambientale; a incrementare per le nuove concessioni di coltivazione le aliquote delle royalty del 50 per cento rispetto a quelle vigenti, per disporre di maggiori e risorse per il ministero e per i territori costieri, per rafforzare le attività di controllo e monitoraggio sull’inquinamento. Chiediamo di scongiurare l’impatto negativo delle attività di prospezione e coltivazione degli idrocarburi nell’area dell’Adriatico, dove hanno grande peso per l’economia la pesca, il turismo e l’agricoltura. Questo non significa pregiudicare la valorizzazione del nostro patrimonio di riserve energetiche e di risorse naturali, ma avere a cuore l’idea di uno sviluppo sostenibile e duraturo della nostra economia. Siamo consapevoli che al nostro Paese serve un quadro energetico chiaro e di medio termine e per questo sarà necessario varare presto una strategia climatico-energetica, aggiornando l’attuale Strategia energetica nazionale almeno fino al 2030, sostenendo i settori che più hanno garantito l’occupazione. Si tratta di guardare più che nel passato ai beni comuni, alla loro tutela e salvaguardia, alla loro valorizzazione come risorse finite, alla loro bellezza e irriproducibilità come patrimonio indivisibile per tutti noi”.

NO AL CONSERVATORISMO OLTRANZISTA DEL DUO RODOTÀ-ZAGREBELSKI MA SE LE RIFORME SONO QUELLE DI SENATO E PROVINCE, MEGLIO NON FARLE

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L’intento, duplice, è nobile. Da un lato, dimostrare al Paese che dopo anni di immobilismo finalmente si è imboccata con decisione la strada riformista, e che non ci si ferma di fronte a niente, tantomeno davanti al solito “conservatorismo benaltrista”. Dall’altro, tentare di arginare la crescente deriva dell’antipolitica, che potrebbe prendere il sopravvento alle prossime elezioni europee, con progressive iniezioni di populismo nella speranza che siano immunizzanti. Ma il rischio che si corre – passare da un estremo all’altro, per cui dopo tanto immobilismo ora l’importante è fare, anche a prescindere dal merito di cosa si fa – è altissimo. Anche perché ogni volta che la politica italiana si è buttata sulla strada delle riforme “finalizzate ad altro”, ha pestato letame, facendone pagare le conseguenze al Paese. Così è stato, per esempio, per la riforma pseudofederalista del Titolo V della Costituzione, fatta dalla sinistra per agganciare la Lega, o arginarne l’avanzata, e risultata un autentico disastro. E così rischiamo che avvenga per le riforme istituzionali messe in campo da Renzi (abolizione di Province e Senato), fatte per contrastare Grillo sul suo stesso terreno qualunquista.

Prendiamo la questione Senato. Come ha ben ricordato Napolitano, l’atavico problema italiano è quello del “bicameralismo perfetto”, che ha rallentato in modo insopportabile – e tanto più ora, nella stagione delle “decisioni rapide” per star dietro alla velocità dell’economia e delle innovazioni tecnologiche – la nostra produzione legislativa. È questa la disfunzione che genera macro diseconomie, non la micro questione del numero dei parlamentari e del loro costo (riducibili entrambi, per carità). Tanto meno il problema è l’esistenza stessa della “camera alta”, che ha ragioni di garanzia che non debbono necessariamente essere sacrificate per ottenere l’obiettivo, sacrosanto, di una maggiore speditezza dei lavori parlamentari e quindi di un aumento del tasso di governabilità. È vero, molti paesi hanno sistemi monocamerali ottimamente funzionanti, ma se si vede che s’intende – come sembra – abolire il Senato e nel contempo rafforzare l’esecutivo, magari aggiungendo anche l’introduzione di una legge elettorale iper-maggioritaria e che prevede la nomina dei parlamentari da parte di chi guida l’esecutivo, allora non è disfattismo pensare che l’equilibrio istituzionale risulta compromesso.
Il tema non è l’abolizione ma la trasformazione del Senato? Peggio ci sentiamo, se la via è quella di farlo diventare il dopolavoro degli assessori regionali e comunali, cui per di più si affida il compito di votare le riforme costituzionali. 
Non sarebbe più proficuo dividere le competenze tra Camera e Senato in modo da raddoppiare la velocità della produzione legislativa? Se un ramo del Parlamento si occupa di certe materie in via esclusiva, e il secondo ramo di altre, lasciando il doppio voto solo per la fiducia e sfiducia ai governi, si avrà una produzione legislativa doppia e rapida. Troppo poco vendibile nell’agone elettorale? Ma così è pensare che gli italiani siano scemi, e non lo sono. Se sono diventati intolleranti alla politica è colpa della cattiva politica, non del loro dna. Fate riforme serie, e vedrete che i voti arriveranno.

Prendiamo la presunta abolizione delle Province. I lettori di TerzaRepubblica sanno che questa è una nostra battaglia. Dunque, non possiamo certo essere tacciati di benaltrismo se diciamo che così non va. Le Province non sono state affatto eliminate, restano dove sono, per di più con un possibile aggravio di costi dovuti al diverso trattamento del personale, mentre ne viene cancellata la rappresentanza democratica. Per eliminarle occorre una riforma costituzionale, che o non passerà mai o si sarà costretti a forzare la lettera e il senso dell’articolo 138, come è nell’aria. Si dice: ma qui si gioca la partita tra cambiamento e conservazione, bisogna schierarsi. Va bene, forziamo pure. Ma se il gioco vale la candela. Allora se il governo prepara un’organica riforma dell’intero sistema del decentramento amministrativo, riformulando il Titolo V – creazione di 6-7 Regioni-Lander, abolizione totale delle Province, tetto minimo dei 5 mila abitanti per i Comuni (il 70% degli 8100 attuali è sotto), cancellazione di molte istituzioni di secondo e terzo grado inutili – siamo pronti a chiudere entrambi gli occhi pur di agevolare una riforma così decisiva. Ma questa è una riformicchia, e far credere altro ai cittadini significa precludersi la possibilità di arrivare alla grande riforma.

Stesso discorso per il rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio, che è un primus inter pares anche se da anni facciamo finta che sia un premier, e per di più eletto dai cittadini. Si vuole modificare questo stato di cose? Ottimo, siamo favorevoli. Ma nel quadro di una riforma organica degli assetti istituzionali. Che non si possono mutare a spizzichi e bocconi, e per di più sulla base di parole d’ordine pescate dal gergo populista. Per non parlare della riforma della legge elettorale: farla è una necessità, ma una legge che mischia sbarramento, premio di maggioranza e doppio turno è una pessima legge, che per di più è esposta, essendo di fatto un “porcellum bis” e pure peggiorato, alla mannaia della Corte.

Insomma, noi non apparteniamo alla congrega di quelli che evocano lo spettro della “svolta autoritaria” e gridanoche la “democrazia è a rischio”. Il conservatorismo oltranzista dei custodi della “costituzione più bella del mondo” non ci piace. Viceversa, siamo per riforme radicali, e in tempi rapidi perché il Paese “non ne ha più”. Ma consideriamo che siano radicali perché affrontano in profondità i problemi, non perché siano facili da “vendere” sul piano della comunicazione politica, e cioè accarezzino il pelo per il verso della vulgata qualunquista oggi in voga. Abbiamo detto fin dal primo momento che – accantonando pulsioni e antipatie, e facendo ricorso a tutto il pragmatismo di cui siamo capaci, anche in virtù dell’impraticabilità o dell’inesistenza di alternative – avremmo appoggiato Renzi e il suo “governo Erasmus”, con senso costruttivo. Tuttavia, non possiamo farlo rinunciando in toto ai “se” e ai “ma”. Non ci si chieda – come qualche amico lettore ha fatto – di praticare il fideismo. Non è da noi e comunque non faremmo un piacere a Renzi. Anche se sul fronte opposto ci sono gli insopportabili Rodotà e Zagrebelski.