3 Ottobre 2024, giovedì
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Marco Travaglio. Camera: “legge a delinquere”, Senato stop. Renzi è un pericolo

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Marco Travaglio rilancia sul Fatto l’allarme che il Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, ha affidato a Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera.

“Legislazione a delinquere”

è il titolo dell’articolo di Marco Travaglio. Va riportato integralmente e letto fino in fondo: una lettura che darà i brividi.

Circolano due balle sesquipedali.

La prima, sostenuta da Corriere, Stampa, Foglio, Giornale, Libero e avallata dal premier Matteo Renzi e dall’autorevole ministra delle RiformeMaria Elena Boschi, formatasi su Topolino e Tiramolla, è che da 30 anni non si fanno le riforme per colpa dei terribili veti imposti dai “professoroni” Zagrebelsky, Rodotà & C.

La seconda è che il Senato è un ente inutile, dunque tanto vale abolirlo, anzi trasformarlo in una bocciofila per il tempo libero di governatori, sindaci, consiglieri regionali e amichetti ottuagenari del Colle.

Purtroppo per lorsignori, a smentire entrambe le balle in un colpo solo c’è la cosiddetta “riforma della custodia cautelare”, votata da tutti i partiti (tranne M5S, FdI e Lega) alla Camera, emendata dal Senato e ora di nuovo a Montecitorio per l’approvazione definitiva. A sbugiardare chi dice che da 30 anni non si fanno riforme, c’è il fatto che questa è la diciannovesima riforma delle manette dal 1990, cioè dall’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale.

A smentire chi dice che il Senato non serve, c’è il fatto che – se fosse già in vigore la riforma Renzusconi – quella legge sarebbe partita dalla Camera e il Senato avrebbe potuto esprimere solo un parere consultivo, che la Camera avrebbe potuto ignorare. Dunque la legge sarebbe già in vigore.

Con questi bei risultati, illustrati – come riferisce Giovanni Bianconi sul Corriere – dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone (non una toga rossa, un fanatico giustizialista, un professorone conservatore: Pignatone): “Stanno rendendo impossibile l’arresto, anche domiciliare, per la corruzione e gli altri reati tipici dei colletti bianchi”, comprese le bancarotte, le evasioni fiscali anche di grandi dimensioni, le malversazioni e altre violazioni di tipo economico. Non solo: dalle porte delle galere spalancate per lorsignori passeranno indenni anche i delinquenti comuni.

“Il legislatore – prosegue Pignatone – deve sapere che non si potrà arrestare neppure chi compie delitti di strada, come lo scippo, il furto, fino alla rapina, a meno che uno non entri in banca col kalashnikov. Potremo applicare la carcerazione preventiva solo a chi ha precedenti condanne definitive, forse, ma agli incensurati no.

“Mi auguro che il Parlamento ci pensi bene, per non trovarsi costretto a tornare sui propri passi al prossimo allarme sulle città insicure o sulla criminalità diffusa che si fatica a contenere. Spero che deputati e senatori siano consapevoli di quello che stanno facendo, prima delle prevedibili polemiche in cui ci si chiederà perché un presunto rapinatore si trovava libero di colpire ancora, anziché in galera”.

La porcata, infatti, partorita da menti superiori come la pidina Donatella Ferranti, il ministroAndrea Orlando e i loro degni compari forzisti, prevede tra l’altro la quasi impossibilità di arrestare gli incensurati (tanto lorsignori, a furia di prescrizioni, delinquono a manetta, ma sono sempre incensurati) e soprattutto pretende che i magistrati si trasformino in indovini e in aruspici: quando beccano uno con le mani nel sacco, possono arrestarlo solo se prevedono che, alla fine del processo (una decina di anni dopo), verrà condannato definitivamente a più di 4 anni. Altrimenti niente manette, e neppure i domiciliari.

Il sogno di Berlusconi, che provò infinite volte a esentare all’arresto i colletti bianchi, dal decreto Biondi dal ‘94 in poi, sta per avverarsi grazie ai berlusco-pidini. A meno che l’appello di Pignatone non induca la Camera a ripensarci in terza lettura. Oggi, grazie al bicameralismo regalatoci dai padri costituenti (quelli veri, non i cialtroni di adesso), il Parlamento può ancora “pensarci bene”: rimediando alla Camera i guai combinati al Senato da una classe politica dissennata, che per metà non sa quello che fa e per l’altra metà lo sa benissimo.

Con il nuovo Senato e la Camera signora e padrona delle leggi, invece, cosa fatta capo avrà: i danni saranno irrimediabili e i cocci saranno tutti nostri. Tanto lorsignori viaggiano blindati e scortati, e di criminali non ne incontrano mai. A parte i loro colleghi, si capisce.

Sacerdoti rapiti. I Boko Haram vogliono eliminare presenza cristiana in Nigeria

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E’ quasi certo che ci sia la mano del gruppo jihadista dei Boko Haram sul sequestro dei due preti di Vicenza e una suora canadese questa notte in Camerun. Ecco chi sono e che cosa vogliono i terroristi nigeriani che negli ultimi tempi hanno compiuto diverse incursioni nel nord del Camerun. Eliminare la presenza cristiana in Nigeria, rovesciare il governo federale e creare un Califfato Islamico, sul modello di quello che esisteva nel Nord del Paese africano prima della conquista britannica del 1903.

Boko Haram è un gruppo oltranzista islamico, fondato nel 2002 dallo sceicco Mohammed Yusuf, con l’obiettivo di combattere tutto cio’ che e’ occidentale – dalle elezioni ai pantaloni e alle camicie – e di ripristinare una sharia senza compromessi con la modernita’. All’inizio, Yusuf creo’ nella cittadina nigeriana di Maiduguri una moschea e una madrassa. Ma oltre ad una istruzione islamica, le sue strutture si trasformarono presto in luoghi di reclutamento per aspiranti jihadisti africani, con forti legami con Al Qaeda. Nel 2009, il battesimo del fuoco per il gruppo, che cerco’ di conquistare il controllo della citta’ di Maiduguri, con una serie di attacchi alla polizia locale.

Fini’ in un bagno di sangue, con migliaia di militanti di Boko Haram uccisi o arrestati. Anche il capo carismatico Yusuf perse la vita. Il movimento pero’ non venne eliminato, si riorganizzo’ nel 2010 e in un attacco alla prigione di Bauchi riusci’ a liberare e recuperare i suoi membri imprigionati. Negli ultimi quattro anni, il movimento ha cominciato a prendere di mira i cristiani, colpendo con bombe e kamikaze le chiese durante le messe domenicali. Tra le stragi piu’ terribili quella nelle basiliche di Abuja il giorno di Natale del 2011. Lo scopo degli islamisti non e’ solo quello della pulizia etnica anti-cristiana ma di spingere il Paese ad una generalizzata guerra interreligiosa e cosi’ al tracollo.

Boko Haram ritiene infatti che lo Stato nigeriano sia governato da non credenti. Ma tutto cio’ che ha a che vedere con una parvenza di democrazia, per i seguaci di Yusuf e’ ”haram”, proibito. Non a caso il vero nome del movimento e’ ”Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad” che in arabo significa ”la gente impegnata nella diffusione degli insegnamenti e della Jihad del Profeta”. L’abbreviazione e’ appunto ”Boko Haram”, che vuol dire: ”l’istruzione occidentale e’ vietata”. Per il Congresso americano e per molti paesi europei e’ sinonimo di terrorismo, simile a quello portato avanti dai talebani afghani.

Ferrari a via del Corso, mettono ganasce. “Diretta twitter” da capo dei vigili

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Una Ferrari bianca parcheggiata dove proprio non si può. Servono ganasce, più grandi del normale, ma sempre ganasce. Che alla fine si trovano e consentono di bloccare la Ferrari fiammante bianca, tra gli applausi dei passanti che a via del Corso a Roma hanno visto i vigili urbani entrare in azione per bloccare la fuoriserie parcheggiata in divieto, nei pressi di Largo Goldoni. A raccontare la storia, praticamente in diretta, è stato il comandante dei vigili Raffaele Clemente, su Twitter.

Dalla difficoltà di trovare ganasce abbastanza grandi, all’applauso dei cittadini che passavano di lì, contenti perché giustizia è stata fatta senza distinzioni, anche in presenza del cavallino rampante, il comandante ha postato anche alcune foto.

“Il proprietario ha pagato la multa e si è scusato. Tolte le ganasce è ripartito. Come un comune automobilista”, ha scritto Clemente. L’auto di lusso aveva una targa araba.

Il capo dei vigili di Roma non è nuovo all’uso di Twitter per motivi di servizio. Qualche mese fa, appena nominato, ha invitato i romani a segnalare, proprio sul social network, le auto parcheggiate fuori posto.

Polizia in classe, controllo antidroga. Prof Franco Coppoli: “Voi non entrate”

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Ha detto no. Qui, in classe, la polizia non entra. Neppure per un controllo antidroga. Diventando, presumibilmente, “idolo” dei suoi ragazzi almeno per un giorno. Franco Coppoli è un professore che insegna all’Istituto Sangallo di Terni.  Nel 2009 era già finito al centro delle cronache per avere rimosso il crocifisso dall’aula durante le sue lezioni. Ora torna alla ribalta per avere impedito alla polizia di entrare in classe durante un controllo antidroga che aveva riguardato vari istituti della città. Nei confronti del professore, che insegna all’istituto per geometri, è stato aperto un procedimento disciplinare da parte del dirigente scolastico pro tempore.

In base a quanto comunicato dalla scuola a Coppoli, gli atti sono stati trasmessi all’Ufficio scolastico regionale dell’Umbria. L’episodio si è verificato nel corso dell’operazione svolta dalla Questura, anche con un’unità cinofila, all’interno di quattro scuole superiori cittadine, tra cui lo stesso istituto Sangallo: il docente dopo avere saputo che la polizia era stata autorizzata dal dirigente scolastico ad entrare e perquisire i locali, si è opposto all’interruzione dell’attività didattica nella propria classe, riuscendo ad ottenerne l’allontanamento degli agenti dall’aula.

“L’educazione e la didattica – spiega Coppoli – non si devono appiattire per colpa di un evento repressivo che non ha logica. La mia battaglia di oggi, che va distinta da quella del crocifisso, è per gli spazi liberi e l’educazione. Attendo di conoscere le contestazioni che mi vengono rivolte e poi risponderò”.

A fianco di Coppoli si schierano i Cobas che dicono “no alla polizia a scuola”, in quanto “le scuole non sono caserme”.

Spettro ingovernabilità sulla cavalcata di Modi

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L’establishment economico-finanziario indiano ha individuato nel leader del Bharatiya Janata Party (Bjp), Narendra Modi, il proprio candidato alle prossime elezioni. Ma nemmeno l’ascesa dei nazionalisti e la disfatta annunciata del Partito del Congresso sembrano poter scongiurare l’ipotesi di un governo debole, con prevedibili conseguenze per la crescita del Paese.

Modi alla guida del Guangdong indiano
Tra il 7 aprile e il 12 maggio, quasi 815 milioni di indiani (circa 1/6 della popolazione mondiale) saranno chiamati a eleggere i membri della nuova Lok Sabha (Camera bassa) tra oltre 15 mila candidati nelle elezioni più costose nella storia dell’India.

L’impennata dei costi dipenderebbe in primo luogo dalla faraonica campagna elettorale di Modi, favorito a guidare il prossimo governo indiano. La sua candidatura è sostenuta con convinzione dalla classe economica indiana, appoggio che si è già tradotto nello stanziamento di centinaia di milioni di rupie e ha condizionato l’atteggiamento dei media nei confronti del leader del Bjp.

Sin dall’annuncio della sua candidatura, infatti, numerosi mezzi di informazione (molti dei quali controllati proprio dall’establishment economico-finanziario) hanno avviato una campagna mediatica tesa a sottolineare i successi ottenuti da Modi durante gli anni trascorsi alla guida dello stato del Gujarat e ad esaltarne le credenziali come possibile capo del governo di Nuova Delhi.

I dati sullo sviluppo economico del Gujarat appaiono, invero, incontrovertibili. Definito dall’Economist il “Guangdong indiano” (in riferimento a una tra le più ricche province della Repubblica popolare cinese), il Pil del Gujarat è cresciuto durante il suo governo a un tasso medio di circa il 10%, costantemente al di sopra di quello nazionale.

Con solo il 5% del totale della popolazione indiana, questo stato assorbe circa il 16% della produzione manifatturiera nazionale e 1/4 del totale delle esportazioni. Risultati resi possibili da una forte semplificazione delle procedure burocratiche e dalla grande attenzione del leader del Bjp nei confronti di ogni singolo investitore, atteggiamento che gli è valso anche il sostegno della comunità economica internazionale (a novembre l’agenzia americana Goldman Sachs ha alzato il rating dell’India proprio in previsione di una sua possibile affermazione alle prossime elezioni).

Congresso, Terzo fronte e Partito dell’uomo comune 
Al momento, tuttavia, il leader del Gujarat non ha ancora delineato la sua agenda economica, limitandosi a rivendicare i successi ottenuti a livello locale. Se per alcuni si tratta di una scelta politica tesa a lasciare a Modi un margine di manovra per contrastare il populismo delle altre forze politiche, l’assenza di una precisa piattaforma economica dipenderebbe, per altri, dalla volontà di tenere assieme le varie anime del partito, una più spiccatamente liberista e un’altra più marcatamente nazionalista anche in ambito economico.

Il sostegno della classe economica indiana, dunque, sembra più dipendere dai timori di un’eventuale vittoria del Congresso o del cosiddetto “Terzo fronte” (coalizione che riunisce vari partiti regionali e altre formazioni di sinistra), che da una reale e cieca fiducia nei confronti di Modi.

Gli ultimi anni del governo guidato da Manmohan Singh, premier appartenente la partito del Congresso, infatti, sono stati contraddistinti da numerosi scandali per corruzione e da una lunga serie di mancate riforme, con un tasso di crescita del Pil più che dimezzatosi (si è passati dal +10% del 2010-2011 all’attuale +4,9%).

Allo stesso modo, la breve esperienza dell’Aam aadmi party (Aap, Partito dell’uomo comune) alla guida del governo dello stato di Nuova Delhi è stata segnata da una politica economica marcatamente populista che ha evidenziato la scelta di questa formazione di non assumersi reali responsabilità di governo, preferendo rimanere collocata nella più agevole, ed elettoralmente più proficua dimensione della protesta. L’eterogeneità del “Terzo fronte”, infine, lascia poche speranze circa l’attuazione di un programma economico chiaro e coerente.

Sebbene l’affermazione del Bjp come primo partito appaia fuori discussione (secondo i sondaggi, potrebbe addirittura far registrare la migliore performance di sempre, superando i 182 seggi ottenuti nel 1998), rimangono dubbi sulle sue capacità di mettere assieme una coalizione di governo (per la maggioranza occorrono 273 seggi), tanto da non consentire nemmeno di escludere l’ipotesi di un governo guidato da uno dei leader del “Terzo fronte”, con l’appoggio esterno del Congresso.

Resta, dunque, lo spettro di un esecutivo troppo debole per adottare quelle riforme strutturali di cui il paese necessita e offrire agli investitori stranieri le necessarie garanzie di stabilità.

Corte Suprema indiana e corruzione
La diffidenza di molti partiti nei confronti di Modi è dovuta a uno stile di governo ritenuto eccessivamente autoritario e accentratore, dunque poco incline all’arte del compromesso e della mediazione.

Il leader del Bjp è senza dubbio uno dei personaggi più controversi della recente storia indiana. Una figura fortemente divisiva, la cui storia politica resterà sempre macchiata dalle violenze che si verificarono nel 2002 nel “suo” Stato, il Gujarat, quando un attentato contro un treno che trasportava pellegrini indù di ritorno da Ayodhya scatenò la dura reazione della popolazione locale contro la comunità musulmana, con un bilancio di oltre mille vittime.

Nel 2012 una speciale commissione d’inchiesta nominata dalla Corte Suprema indiana ha assolto Modi (ma non alcuni dei suoi più stretti collaboratori) dall’accusa di aver in qualche modo appoggiato le violenze perpetrate dai nazionalisti indù. Di recente, anche la comunità internazionale ha messo da parte ogni perplessità di carattere etico (nel 2005, gli Usa gli hanno negato il visto di ingresso), stabilendo legami diretti con quello che potrebbe essere il futuro leader dell’India.

Toccherà adesso agli elettori decidere se assecondare la trionfale cavalcata di Modi ai vertici del potere o se invece consegnare alle autorità un mandato poco chiaro, compromettendo, almeno nel breve periodo, le possibilità di ripresa economica del Paese.

Hollande e il governo Valls, lascia o raddoppia?

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Con il rimpasto che ha portato alla nomina di Manuel Valls a capo del governo si è aperta una nuova fase nella vita politica francese scaturita dalle elezioni amministrative, che hanno coinvolto comuni o raggruppamenti intercomunali sempre più importanti nel panorama politico interno. Anche se la posta in gioco era locale, il risultato ha avuto rilevanza e ripercussioni notevoli a livello nazionale.

I francesi amano alternare. Tradizionalmente, durante le votazioni di mid term votano contro la squadra al potere. L’esito del voto non ha però solo una componente fisiologica, ma anche un significato politico non trascurabile.

Volata Blue marine
Osservando che cosa è successo a destra, si notano subito alcune dinamiche locali di portata nazionale, come l’elezione di Alain Juppé a Bordeaux e quella di François Bayrou a Pau, due pesi massimi che, dopo la conferma ricevuta dalle urne, si affermano come candidati potenziali rispettivamente dell’Unione per un movimento popolare (Ump) e della formazione centrista Udi-Modem per le prossime presidenziali. La destra beneficia però soprattutto del crollo della sinistra.

Va inoltre sottolineata il successo del Front National-mouvement bleu marine, capeggiato da Marine Le Pen, la versione 2.0 del vecchio partito nazionalista, che si sta affermando come forza anti-sistema. È una formazione che registra una dinamica paragonabile a quella del M5S in Italia e sicuramente conterà nelle ormai prossime elezioni europee.

Sconfitta di Hollande 
La principale dinamica del voto va tuttavia cercata a sinistra. La maggioranza al governo registra un calo nettissimo che non riflette solo una generica voglia di alternanza, ma anche l’impopolarità della presidenza di François Hollande che non è riuscita a migliorare la situazione economica e sociale.

All’inizio del suo mandato, Hollande aveva scommesso su una gestione prudente, senza grossi cambiamenti degli equilibri politici o correzioni della politica fiscale, confidando in una ripresa economica che sperava potesse intervenire a rilanciare il suo quinquennio.

Hollande puntava poi a lasciare il segno su alcune questioni sociali – come la legge sul matrimonio gay – o di politica estera. L’attesa ripresa non è però giunta e l’opinione pubblica percepisce in modo molto acuto la crisi economica. Si ripropone lo scenario della precedente presidenza, quella di Nicolas Sarkozy, che era stata anch’essa azzoppata dalla crisi. Oggi l’attendismo di Hollande è criticato da tutte le parti.

Hollande si appoggiava a Jean-Marc Ayrault, un primo ministro alquanto dimesso e riservato, un po’ incolore, che ha di fatto lasciato il presidente solo di fronte al paese. La riforma costituzionale del 2000 ha accorciato il mandato del presidente da sette a cinque anni, la stessa durata della legislatura.

Prima, invece, lo sfasamento elettorale tra l’elezione del Parlamento e quella del Presidente dava maggiore autonomia sia al primo ministro che al presidente. Quest’ultimo, appena eletto, scioglieva l’Assemblée nationale, indicendo nuove elezioni. L’attuale parallelismo fra il mandato presidenziale e quello dei deputati ha ridotto l’importanza e l’autonomia del primo ministro. Ciò crea una situazione problematica anche dal punto di vista democratico e degli equilibri istituzionali, con un presidente che di fatto oltrepassa il suo mandato e governa senza poter essere censurato dal parlamento.

Dalle elezioni del 2002 in poi, il primo ministro francese tende ad assomigliare a un potente sottosegretario alla Presidenza del consiglio. Una tendenza che si è accentuata con la scelta del mite Ayrault. Come Sarkozy prima di lui, Hollande si trova dunque direttamente esposto al malcontento popolare. Con il rimpasto di governo e la nomina di Valls, Hollande cerca ora di rilanciare la sua immagine. I margini di azione, e quindi di recupero, sono però limitati.

Valls al governo
Come Sarkozy prima di lui, Manuel Valls si è distinto per la fermezza e il pragmatismo con cui ha gestito un dicastero molto esposto, quello del Ministero dell’interno, di cui era titolare nel gabinetto Ayrault. Il suo attivismo gli ha dato grande visibilità, tanto da farlo apparire come un potenziale candidato socialista alle presidenziali del 2017. Potrebbe pertanto entrare in crescente competizione con lo stesso Hollande.

La conferma di Laurent Fabius agli esteri e di Jean-Yves Le Drian alla difesa indicano invece un’assoluta continuità con il precedente governo. Questi due ministri potenti e fedeli a Hollande proseguiranno la loro azione in una triangolazione con la Presidenza della repubblica, esautorando di fatto il primo ministro nei settori degli esteri e della difesa.

Nonostante ciò la nomina di Valls potrebbe creare nuove dinamiche nello scenario europeo. È dall’inizio del suo mandato che Hollande cerca di rimettere in moto una dialettica con la Germania per ottenere più ampi margini di azione per il rilancio dell’economia. Pur essendo un germanista, Ayrault non è riuscito a rinnovare questo dialogo con i tedeschi, visto anche il lungo periodo di stallo che ha conosciuto la Germania prima e dopo le elezioni.

L’asse franco-tedesco 
Certo, l’ultimo vertice bilaterale franco-tedesco ha messo in luce importanti convergenze in materia di politica estera, con una ripresa di attivismo da parte di Berlino. La Francia è riuscita a promuovere la sua agenda di politica africana mentre la Germania è riuscita a portare Parigi sulle sue posizioni in merito alla questione ucraina. L’invio della brigata franco-tedesca in Mali è un simbolo di questo parziale rilancio dell’asse franco-tedesco.

Ma oggi la partita essenziale si gioca sul terreno economico, fra vincoli europei di bilancio e misure per il rilancio della crescita. Fallito la scommessa attendista di Hollande, oggi il governo francese deve impegnarsi in un reale programma riformista, se vuole avere qualche chance nelle future elezioni. È un’operazione necessaria anche per il rilancio della macchina economica francese parecchio ingrippata.

Il governo ha avviato questo nuovo corso con un “patto di responsabilità” che non è altro che un alleggerimento del carico fiscale sugli stipendi. Ma ciò richiederà anche nuove misure dal lato delle spese, sotto forma di spending review o quant’altro. Qui c’è un parallelismo fra la situazione francese e quella italiana: la Francia si aspetta cambiamenti che il governo di Matteo Renzi sta cercando di mettere in atto.

Il riformismo di Renzi 
Se Valls, anche per motivi generazionali, riuscirà a incarnare questo riformismo più incisivo, allora il parallelismo potrebbe sfociare in una vera e propria convergenza, dando luogo a una comune posizione negoziale più forte nei confronti della Germania.

In realtà, i passati tentativi di creare un asse franco-italiano alternativo a quello franco-tedesco sono sempre stati un esercizio assai zoppicante, e spesso semplicemente un errore. La Germania, grande democrazia, è un partner cruciale da cui non si può prescindere.

Ben vengano però dinamiche tri-, o multilaterali europee che creino una dialettica più intensa fra i paesi membri, nel nome di un sano riformismo e di ulteriori progressi nella governance economica e istituzionale. Se l’Italia di Renzi e la Francia di Valls riusciranno a rilanciare il riformismo, allora anche l’Europa, e la Germania, ne trarranno benefici. Messieurs les français, tirez les premiers !.

Stoltenberg segretario, l’Italia aspetta ancora

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Per terza volta negli ultimi dieci anni, il Segretario generale della Nato verrà dai paesi del nord. Nel pomeriggio del 28 marzo, il North Atlantic Council (Nac – organo permanente di governo formato dagli ambasciatori dei Paesi aderenti) ha infatti designato l’ex primo ministro norvegese Jens Stoltenberg al vertice della Nato.

Il 1° ottobre avvicenderà il danese Anders Fogh Rasmussen, che cesserà dalla carica di vertice dell’Alleanza dopo cinque anni e due mesi di mandato.

Tra i dodici stati fondatori, il mandato è stato affidato tre volte a Gran Bretagna ed Olanda, due volte al Belgio, una sola volta all’Italia (Manlio Brosio,1964-1971) e alla Danimarca e, oggi, per la prima volta alla Norvegia.

Particolare curioso: la Danimarca è anche nell’Unione europea, ma con l’option out (rinuncia) alla partecipazione militare, mentre la Norvegia, che non fa parte della Ue, aderisce alla Nato previe alcune riserve (mai armi nucleari sul territorio). Tra gli stati non fondatori, solo Germania e Spagna hanno sinora avuto il mandato. È giusto aggiungere, per completezza, che per oltre quarant’anni consecutivi (1971-2012) la silenziosa carica di vice Segretario generale è stata affidata ad un diplomatico italiano. L’ultima volta però il posto è andato ad un americano.

Italia maglia nera nelle spese per la difesa
Al di à delle statistiche, che pure sono indicative di una tendenza, la designazione di Stoltenberg si presta a considerazioni di ordine vario. Il Segretario generale esprime la voce della Nato, con un ruolo che – pur nel rispetto delle prerogative degli Stati membri – può influenzare in modo anche determinante il processo decisionale dell’Alleanza.

La quale – è bene non dimenticarlo – vive e si sviluppa con il contributo finanziario e di forze degli stati membri. Gli Stati Uniti – nonostante le recenti riduzioni – sono ancora il principale “azionista”, rendendo disponibile, da soli, poco meno del 50% di forze e risorse, mentre gli altri si dimostrano sempre più riluttanti a spendere.

Al contrario la Norvegia, che con il laburista Stoltenberg, per due volte primo ministro, ha gradualmente incrementato le proprie spese per la difesa, è oggi uno dei paesi membri con il più alto indice pro-capite.

L’Italia, maglia nera, si era stabilizzata attorno a un misero 0,8%. Pur rimanendo ancora il quinto contributore al bilancio Nato dopo Usa, Germania, Regno Unito e Francia, agli occhi del principale azionista potrebbe quindi non godere di altissima credibilità.

Questo in un momento critico in cui, da un lato, gli Stati Uniti stanno orientando altrove la propria attenzione e, dall’altro, spirano venti di crisi proprio ai confini di quell’Europa dove lascerebbero volentieri Nato e Ue a presidiare sicurezza e stabilità.

L’inconsueta fretta con la quale il Nac ha designato Stoltenberg, producendosi anche in un annuncio ufficiale che normalmente viene lasciato ad una seduta ministeriale del Nac, non può non collegarsi, oltre alle considerazioni appena fatte, alla recente e fugace visita del presidente Barack Obama.

Fallita la candidatura di Frattini
L’Italia aveva covato a lungo l’ambizione di acquisire questa carica di vertice e, cinquant’anni dopo la nomina di Manlio Brosio, riteneva che il momento fosse ormai maturo. Sull’esclusione della candidatura Franco Frattini si può dire tutto e di tutto, tranne che gli osservatori più attenti non se l’aspettassero. I segnali c’erano, bastava volerli leggere.

In primo luogo, la designazione della candidatura era sembrata prematura: non avevamo capito, o abbiamo finto di non capire, che questo lungo intervallo si sarebbe prestato molto bene a preparare altri giochi.

Secondo, le cariche internazionali, Nato e Unione europea (Ue) vanno sempre guardate in modo cumulativo. Ad esempio, la presenza di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea può aver contribuito a stimolare la cancelliera Angela Merkel ed altri europei a non favorire il candidato italiano.

Terzo, in cinque anni abbiamo cambiato cinque governi: non è una buona pubblicità. Quarto, era indicativa la doppia proroga di Rasmussen, tesa a consentirgli di presiedere il summit del 4 e 5 settembre a South Wales (Galles), dove, ancora una volta, la Nato rifletterà sulla propria identità.

Infine, sulla candidatura Frattini, a suo tempo annunciata in Italia a colpi di grancassa, da diversi mesi era calato un silenzio alquanto strano.

Niente paura, e nessun problema strategico: sotto questo profilo, Stoltenberg alla Nato invece di Frattini non è cosa destinata a cambiare il mondo. Anzi, insegnerà qualcosa a tutti. A noi, per esempio, ad essere un po’ più seri.

Lezione siriana per la sicurezza collettiva

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È ancora possibile salvare la Siria multietnica? Sarebbe già molto se si riuscissero ad alleviare le tremende sofferenze di una larga parte della popolazione civile. La spietata guerra civile in Siria assomiglia ormai ad un “tutti contro tutti”, visti gli scontri tra le stesse fazioni ribelli e il ruolo crescente di quelle radicali.

A tre anni di distanza dall’inizio di questa tragedia, rischiamo di dimenticare che la rivolta contro il regime di Bashar Assad fu inizialmente pacifica e che la brutale risposta del regime (a cominciare dal ricorso sistematico alla tortura) contribuì in modo decisivo allo scoppio della guerra civile.

Responsabilità di proteggere
Se la Russia, storico alleato di Damasco, avesse indotto il regime a più miti consigli (letteralmente), anziché rifornirlo costantemente di armi, e se avesse immediatamente appoggiato iniziative forti di pressione sul regime, quest’ultimo, molto probabilmente, sarebbe stato costretto ad avviare un confronto con l’opposizione.

A sprecare tempo prezioso ha contribuito anche l’errore, da parte di alcuni paesi occidentali, di annunciare che l’uso di armi chimiche sarebbe stata la “linea rossa” da non superare (peraltro, l’uso indiscriminato di armi convenzionali da parte del regime contro la popolazione civile ha mietuto molte più vittime).

La Russia fa valere un principio tradizionale del diritto internazionale, secondo il quale stati terzi possono aiutare un governo, ma non gli insorti (salvo poi fomentare la secessione della Crimea !).

Nel 2005, tuttavia, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite proclamava la responsabilità di ciascun governo di proteggere da crimini internazionali la popolazione civile sottoposta alla sua autorità. Che il diritto internazionale vieti ormai alle autorità di uno stato di massacrare la popolazione civile che vi si trova è indubbio. Meno sicuro è se la comunità internazionale sia obbligata a reagire attraverso il sistema di sicurezza collettiva.

Il Consiglio di Sicurezza, Cds, può nondimeno decidere di intervenire anche in virtù del suddetto principio della responsabilità di proteggere, che figurò del resto fra le motivazioni dell’autorizzazione ad intervenire in Libia tre anni fa.

Interferenze esterne in Siria
È sconcertante che la Russia (spalleggiata dalla Cina) appoggi un regime sanguinario come quello siriano. Occorre tuttavia riflettere anche sul modo in cui altri importanti attori hanno affrontato sia l’intervento in Libia che l’inizio della tragedia siriana: se la finalità fondamentale dei princìpi del diritto internazionale è oggi quella di tutelare pace e sicurezza e di proteggere le popolazioni civili, gli obiettivi degli interventi debbono essere guidati da queste preoccupazioni e non da quella di rovesciare un regime.

Né la soluzione può essere armare gli insorti: l’andamento sul campo ha dimostrato come le interferenze esterne (in particolare da parte di vari membri della Lega araba) abbiano finito con l’accentuare la dimensione interetnica del conflitto (sunniti contro sciiti).

La comunità internazionale dovrebbe spegnere un conflitto sul nascere (e mostrare la massima determinazione con chi si azzardi a commettere crimini contro la popolazione civile), non gettare benzina sul fuoco.

Il problema è anche istituzionale. Com’è noto, il potere di veto permette ai membri permanenti del Cds di fare il bello e il cattivo tempo anche a fronte di sofferenze atroci come quelle a cui si assiste in Siria.

È sempre meno tollerabile che questioni cruciali – a volte per la vita di milioni di persone – siano in balìa degli interessi di questo o quello fra i cinque membri permanenti. Nel caso della Siria, persino l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha rimproverato il Cds della sua inerzia.

E quand’anche quest’ultimo riesca ad autorizzare un intervento, è difficile imporre agli stati di restare entro i limiti (legali) di ciò che è stato autorizzato. In Libia, dall’obiettivo dichiarato di proteggere la popolazione civile di Bengasi si arrivò (su impulso soprattutto di Francia e Gran Bretagna) ad un appoggio a tutto campo agli insorti e al rovesciamento del regime, ovvero un esito non esplicitamente contemplato dalle risoluzioni approvate dal Cds.

La rigidità di Russia e Cina nel caso della Siria non è affatto giustificabile, ma è in parte favorita da quel che è accaduto in Libia e dalle reticenze che questo ha suscitato anche presso altri, importanti paesi.

Riforma del Consiglio di sicurezza
Occorre dunque riformare il Cds e ridimensionare il potere di veto dei membri permanenti; passare dalla mera discrezionalità all’obbligo di adottare tempestivamente misure adeguate per affrontare non solo le minacce alla pace e alla sicurezza, ma anche le violazioni massicce dei diritti umani; sottoporre ad un controllo internazionale le operazioni condotte dai singoli stati in modo che restino entro i binari di quanto è stato deciso a livello collettivo.

Peraltro, quanto più tempestivamente si interviene con misure incisive, tanto più alte saranno le chance di evitare un intervento militare. E se le circostanze dovessero far apparire la via militare come l’unica efficace, quanto più tempestivo e deciso è l’intervento, tanto maggiori saranno le possibilità di prevenire massacri (come insegnano – in male – la Bosnia o il Ruanda).

Si tratta notoriamente di una sfida difficilissima, anche perché per modificare lo statuto delle Nazioni Unite occorre l’approvazione dei cinque membri permanenti! Una riforma del genere presupporrebbe inoltre una maggiore disposizione della comunità internazionale ad assumersi pienamente le proprie responsabilità in materia di pace e diritti umani.

Non sappiamo quanto si riuscirà ancora a salvare di ciò che resta della Siria multietnica. Per evitare che tragedie simili si ripetano occorrerà nondimeno ripensare senza ipocrisie tanto l’attuale sistema di sicurezza collettiva quanto il modo “disinvolto” in cui sono state affrontate alcune delle maggiori crisi degli ultimi anni.

Le urne di Kabul alla sfida della governabilità

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Il 5 aprile gli afghani hanno votato per eleggere il successore di Hamid Karzai alla presidenza della Repubblica Islamica dell’Afghanistan: buona l’affluenza alle urne, sia maschile che femminile, nelle aree urbane del paese, meno forte e più problematica nelle aree periferiche e remote – il vero Afghanistan.

Nel complesso, circa duecento gli attacchi portati a termine dai taliban nella giornata dell’appuntamento elettorale, altrettanti i seggi chiusi in anticipo per problemi di sicurezza; una situazione che, in generale, conferma l’instabilità afghana.

Un’instabilità che si accompagna al tentativo di “dialogo politico” con i gruppi di opposizione armata e ai tentativi di revisione (e riduzione) dei diritti costituzionali – in particolare quelli delle donne – al fine di convincere i gruppi insurrezionali ad accettare una soluzione negoziale (argomento a cui i media hanno dato scarso risalto, ma che la stessa Comunità internazionale ha messo in conto).

Karzai a colloquio con i taliban 
Stati Uniti e attori regionali guardano con favore a un “balance of power” tra i gruppi etno-religiosi afghani: un bilanciamento “adeguato” tra gruppi di potere pashtun e le altre minoranze.

Hamid Karzai, sospeso il dialogo formale con Washington, ha avviato un intenso colloquio con i taliban. Non è esclusa un’intesa volta a preservare gli equilibri di potere nell’area di Kandahar, dove i Karzai mantengono interessi politici ed economici.

Sul fronte opposto, i taliban hanno dimostrato di poter contrastare con la forza elezioni “illegittime” e “anti-islamiche”: una minaccia che, sebbene ridimensionata rispetto alla propaganda insurrezionale pre-elettorale, ha aumentato il livello di preoccupazione generale.

Pashtun e tagichi 
I pashtun, gruppo predominante al sud e all’est, storicamente al potere in Afghanistan e sostenuti dall’esterno dal Pakistan, confermano di volersi muovere su linee di demarcazione etno-culturale. In particolare, il gruppo dei “Durrani” di Kandahar (del quale fa parte la stessa famiglia Karzai) ha avviato una “collaborazione inter-etnica” per ridurre la dispersione di voti e aumentare la possibilità di accesso di un proprio candidato alla presidenza.

Tra Qayum Karzai (fratello dell’attuale presidente), Gul Agha Sherzai, Muhammad Nader Na’im e Zalmai Rassul, la scelta è ricaduta su quest’ultimo, nonostante un primo orientamento su Qayum Karzai (ritiratosi dalla competizione in favore di Rassul: difficile non immaginare un ruolo attivo di Hamid Karzai in tale scelta razionale).

Tra i tagichi, l’importante gruppo etnico e di potere antagonista ai pashtun, presente prevalentemente a nord e a ovest del paese e sostenuto da alcuni attori regionali (tra i quali Iran, Russia e Tajikistan), gli equilibri sono mutati con la scomparsa di Muhammad Qasim Fahim, l’influente signore della guerra anti-taliban, nonché vice-presidente dell’Afghanistan e garante del sostegno a Karzai da parte delle comunità del nord.

Fahim era destinato a giocare un ruolo importante nell’Afghanistan post-elettorale; una scomparsa che ha lasciato spazio di manovra a un altro influente tagico: Ismail Khan, anche lui potente signore della guerra, già governatore di Herat e candidato vice-presidente nella lista di Sayyaf, uomo capace di accendere gli animi inquieti di quella componente tagika indisposta al “dialogo” con i taliban.

Abdullah e Ghani favoriti 
Oltre la metà degli elettori si è dichiarata disposta a sostenere un candidato propenso al dialogo con i gruppi insurrezionali ed ha auspicato la vittoria di un soggetto propenso alle buone relazioni con il Pakistan; il 60% guarda con favore a relazioni durature con gli Stati Uniti.

Nel complesso, l’interesse dell’opinione pubblica afghana è aumentato, sebbene il 58% delle schede elettorali inserite nelle urne non corrisponda necessariamente al 58% di elettori (il riferimento ai brogli elettorali è esplicito); ma questo non cambia la sostanza di un processo elettorale comunque debole e il cui peso e ruolo sono stati amplificati da un’attenzione mediatica distratta e, in molti casi, superficiale.

Dunque, quale il futuro politico dell’Afghanistan?

È probabile che nessuno dei candidati otterrà più del 50% cento dei voti – di ciò avremo conferma nelle prossime settimane; ma è altresì probabile che ciò imporrà accordi negoziali tra le parti, in particolare con gli esclusi dal probabile ballottaggio.

Abdullah, l’ex ministro degli Esteri, metà tagico e metà pashtun, e Ashraf Ghani Ahmadzai, ex ministro delle Finanze di etnia pashtun, sono dati per favoriti: il primo in grado di raccogliere il consenso dell’elettorato tagico e di quello, seppur limitato, femminile, il secondo più convincente per quello di estrazione urbana e delle regioni settentrionali a prevalenza uzbeca (uno dei due candidati vice-presidenti è il potente uzbeco Dostum).

E Zalmai Rassoul, ministro degli Esteri uscente, pashtun apprezzato anche dai tagichi, rappresenta la terza potenziale incognita, anche grazie al sostegno di Qayum Karzai.

Poche speranze rimangono per gli altri concorrenti, il cui ruolo potrebbe riservare qualche sorpresa proprio in occasione del secondo turno elettorale: Abdul Rab Rassul Sayyaf e Gul Agha Sherzai.

Nel complesso, date le premesse, è facile prevedere un’inquieta fase post-elettorale a causa delle irregolarità e dei brogli che verranno denunciati, ma nessun cambiamento radicale nella politica afghana.

Dato per scontato che un’unica coalizione politica non riuscirà a prevalere, lo stato di incertezza sarà amplificato dalle dinamiche multilivello che spingeranno ad accordi in vista del ballottaggio dove il candidato più accreditato, Abdullah, potrebbe vedersi contrapposto a un’unica grande coalizione pashtun.

Molto dipenderà da come gli stessi pashtun nel sud del paese hanno votato, anche in relazione alla forte influenza dei taliban e alla difficoltà nel controllo della regolarità del processo elettorale in quella parte dell’Afghanistan.

Spesometro: modalità tecniche e termini per l’invio della comunicazione

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D: In riferimento all’adempimento della comunicazione dei dati rilevanti ai fini iva, con scadenza 20 Aprile 2014, si voleva sottoporre alla vostra attenzione il seguente quesito in relazione alle modalità di trasmissione (aggregata o analitica) di tale adempimento, più precisamente : come deve comportarsi un contribuente nel caso in cui registri una fattura d’acquisto datata dicembre 2013 a gennaio 2014? Deve considerarla in base alla data di registrazione e quindi relativa al 2014 da inviare ad aprile 2015, oppure già nel modello 2013 da inviare entro aprile 2014?

R: Con il provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate del 2 agosto sono state definite le modalità tecniche e i termini per la trasmissione della comunicazione all’Anagrafe Tributaria delle operazioni rilevanti ai fini Iva ex articolo 21, Dl 78/2010 (c.d. spesometro). La comunicazione dei dati potrà avvenire in forma analitica o, a scelta del contribuente, in forma aggregata. In caso di opzione per tale ultima tipologia di comunicazione, i documenti ricevuti andranno comunicati in base alla data di registrazione. Di conseguenza, nel caso di specie, la fattura d’acquisto datata dicembre 2013 e registrata nel gennaio 2014 dovrà essere inserita nella comunicazione relativa al 2014.