3 Ottobre 2024, giovedì
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Bando Start-Up Campania, finanziamenti fino a € 250.000 per creare nuove imprese

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E’ stato pubblicato il Bando Start-up col quale Regione Campana intende supportare gli investimenti finalizzati alla creazione e consolidamento sul mercato di micro, piccole e medie imprese composte in prevalenza da giovani e donne. La misura, dotata di risorse finanziarie pari ad € 30.000.000 attua le linee di intervento previste dal Fondo Rotativo per lo sviluppo delle P.M.I. Campane, nell’ambito dell’Obiettivo Operativo 2.4 “Credito e finanza operativa” del POR FESR Campania 2007-2013.

Beneficiari

Destinatari del bando start-up sono le micro, piccole e medie imprese che abbiano sede legale ed operativa in Campania.
Le imprese richiedenti potranno avere la forma di ditta individualesocietà di persone (s.n.c. o s.a.s.), società di capitali (s.r.l. ovvero s.p.a. ovvero s.a.p.a.), cooperative.
Gli interventi riguardano:

  • nuove M.P.M.I, ossia quelle che dovranno costituirsi entro 30 giorni dal provvedimento di concessione del finanziamento;
  • M.P.M.I. esistenti, ossia le imprese che sono costituite successivamente al 10 ottobre 2013.

E’ fondamentale che le imprese richiedenti siano composte a maggioranza – sia numerica che in quota di partecipazione – da giovani under 35 e/o donne di età superiore agli anni 18.

Investimenti ammissibili

Non sono ammesse le domande di finanziamento inerenti il rilevamento o l’ampliamento di imprese esistenti. E’ necessario, inoltre, che l’impresa abbia alla data di sottoscrizione del contratto di finanziamento, piena disponibilità dell’immobile in cui realizzare l’investimento (titolo di proprietà, usufrutto, locazione, comodato).

I programmi di investimento potranno essere relativi a:

  • beni materiali nuovi: impianti, macchinari, attrezzature, arredi, mezzi ed attrezzature di trasporto strettamente necessari allo svolgimento dell’attività, opere murarie (il programma d’investimento non può prevedere in via esclusiva opere murarie e/o lavori edili);
  • beni immateriali: software gestionali, software per il commercio elettronico, siti web, brevetti, banche dati;
  • circolante (nel limite del 20% dell’investimento complessivo): materie prime, semilavorati, prodotti finiti, servizi di consulenza.

Sono esclusi gli investimenti da realizzare mediante la sottoscrizione di contratti di locazione finanziaria (contratti di leasing ed assimilati) nonchè i costi per il personale dipendente.

Settori esclusi
  1. pesca e acquacoltura;
  2. produzione primaria di prodotti agricoli;
  3. trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli;
  4. esportazione verso paesi terzi o Stati membri UE;
  5. costruzione navale;
  6. siderurgia;
  7. fibre sintetiche.
Caratteristiche degli aiuti

Gli aiuti concedibili hanno la forma di finanziamenti a tasso agevolato di importo compreso tra € 25.000,00 ed € 250.000,00.
Il finanziamento dura 7 anni con differimento, per il pagamento della prima rata, di 2 anni. Le rate sono trimestrali con un tasso di interesse dello 0.50%. Sono richieste garanzie personali (fideiussioni ed assimilate) alla sottoscrizione del contratto di finanziamento.

Termini e modalità di presentazione delle domande

La procedura di accesso alle agevolazioni è  informatizzata. Il termine iniziale per accreditarsi al sistema telematico è fissato al 29 aprile 2014. Le domande potranno essere inoltrate a partire dal 14 maggio 2014.

 

Bando ANCI per il finanziamento di 4 Smart Cities in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia

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L’Osservatorio Nazionale Smart City dell’A.N.C.I. seleziona  4 progetti di interventi in ottica smart Cities proposti dalle città e dai comuni delle Regioni Convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia). Con questa iniziativa intende offrire ai soggetti selezionati un servizio di accompagnamento tecnico-specialistico la realizzazione di interventi progettuali in ambito locale.

Il servizio sarà erogato a seguito della stipula di un accordo di collaborazione e consiste nella possibilità sostenere le amministrazioni locali aggiudicatarie nel processo di individuazione delle risorse finanziarie necessarie per realizzare gli investimenti programmati.

Possono presentare una proposta progettuale:

  • amministrazioni comunali delle Regioni Obiettivo Convergenza, in forma singola o associata;
  • unioni di Comuni e altre forme associative di enti locali riconosciute (Fusioni, Convenzioni, Consorzi, etc), rientranti nel territorio italiano delle Regioni Obiettivo Convergenza.

La proposta progettuale deve prevedere investimenti per almeno e 500.000 per i seguenti ambiti tematici: Smart Building, Smart Government, Smart Energy, Smart Living, Smart Mobility & Transport.

Saranno selezionate 4 proposte progettuali.

Ciascun soggetto interessato dovrà trasmettere la propria candidatura esclusivamente a mezzo procedura informatizzata entro e non oltre le ore 13.00 del 30 maggio 2014.

 

Microcredito FSE Campania, pubblicato il 13° elenco di beneficiari

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La Regione Campania ha pubblicato 13° elenco di domande ammesse e non ammesse, all’esito della verifica istruttoria, ai microprestiti agevolati fino a 25.000 euro attingendo dal Fondo Microcredito FSE.

La misura, di cui ci siamo ampiamente occupati su Campania Europa, è stata dotata di risorse per a 100 milioni di euro. Permetterà a giovani, donne, disoccupati, disabili di avviare ed ampliare nuove imprese e costituire realtà associative.

 

Deduzione Irap per costi del personale

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D: Per il calcolo della deduzione dell’Irap sul costo del personale, si tiene conto dell’imposta versata nell’anno di riferimento (per esempio acconti anno 2013 e saldo anno 2012). Se l’acconto di novembre non è stato versato, ma sarà fatto per questo versamento il ravvedimento operoso entro il termine di presentazione del modello Unico, può essere comunque considerato ai fini del calcolo della deduzione Irap per l’anno 2013 o altrimenti è da considerarsi “perso” e non più utilizzabile anche nel successivo periodo d’imposta?

R: Per il calcolo della deduzione in oggetto si può tener conto dell’Irap versata nell’anno interessato dalla rideterminazione della base imponibile in conseguenza dei versamenti effettuati a seguito di ravvedimento operoso. Pertanto, per effetto del versamento nell’anno (2014) della maggior Irap relativa all’anno 2013, il contribuente ha diritto ad assumere nell’anno 2014 un’ulteriore deduzione determinata sulla base dei parametri del costo del lavoro e del valore della produzione relativi all’anno 2013.

“Abogados”, per l’avvocato generale Ue spetta l’iscrizione all’Albo italiano

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Se la Corte Ue accoglierà le conclusioni dell’avvocato generale Nils Wahl agli «abogados» trasferiti in Italia non potranno più essere posti ostacoli o paletti per l’iscrizione all’albo. Secondo le Conclusioni (cause riunite C-58/13 e C 59/13), infatti, la direttiva (98/5/CE ) sul diritto di stabilimento degli avvocati non ammette la prassi italiana di rifiutare – con la motivazione dell’abuso del diritto – l’iscrizione all’albo degli avvocati (nella sezione speciale riservata a chi ha ottenuto la qualifica all’estero) da parte di chi poco dopo aver ottenuto il titolo facciano rientro in patria.

La questione di partenza
 
La vicenda parte dal ricorso di due cittadini italiani che, dopo aver acquisito il diritto di usare il titolo professionale di «abogado» in Spagna, hanno richiesto l’iscrizione al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Macerata senza però ottenere risposta. Da qui il ricorso al Cnf che ha deciso di deferire alla Corte, in via pregiudiziale, due questioni riguardanti l’interpretazione e la validità della direttiva 98/5, alla luce dei principi che vietano l’«abuso del diritto» e impongono il «rispetto dell’identità nazionale».

Lo scopo della direttiva
 
L’avvocato generale (dopo aver chiarito che il Consiglio nazionale per via della sua composizione «imparziale» può adire in via pregiudiziale la Cgue) ricorda che lo scopo della direttiva è quello di facilitare l’«esercizio permanente» della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale. E il diritto di scegliere lo Stato membro nel quale acquisire il loro titolo professionale inerisce alle libertà fondamentali garantite dai trattati dell’Unione.

Nessun paletto all’iscrizione
 
Per cui la presentazione all’autorità competente dello Stato ospitante (l’Italia) di un certificato di iscrizione presso l’ordine dello Stato di origine (la Spagna) è l’«unico requisito» necessario per l’iscrizione all’albo. È, invece, ininfluente il fatto che l’avvocato abbia o meno la cittadinanza dello Stato membro ospitante. Il legislatore dell’Unione «non ha infatti inteso consentire agli Stati membri di attuare discriminazioni alla rovescia escludendo i propri cittadini dai diritti conferiti da tale direttiva». 

Inoltre, sempre secondo l’Avvocato generale, la Corte ha già statuito che la direttiva non consente che l’iscrizione di un avvocato nello Stato membro ospitante possa essere subordinata ad ulteriori condizioni (come ad esempio un colloquio inteso ad accertare la padronanza della lingua o lo svolgimento di un determinato periodo di pratica o di attività come avvocato nello Stato membro di origine). Se non è richiesta alcuna precedente esperienza per esercitare, ad esempio, come «abogado» in Spagna, non vi è ragione di richiedere una tale esperienza per esercitare con il medesimo titolo professionale («abogado») in un altro Stato membro. 

No all’abuso del diritto
 
A tal riguardo, non può essere attribuita alcuna importanza al fatto che l’avvocato intenda approfittare di una normativa estera più favorevole o che egli presenti la domanda di iscrizione all’albo poco dopo aver ottenuto il titolo professionale all’estero.

Rischio di compromissione della direttiva
Pertanto, l’avvocato generale ritiene che una prassi come quella italiana possa pregiudicare il corretto funzionamento del sistema creato dalla direttiva e quindi compromettere seriamente i suoi obiettivi.

Qualora tuttavia le autorità dello Stato ospitante, in un caso specifico, sospettino una condotta fraudolenta e, in seguito ad un’indagine approfondita, accertino che ricorrono entrambi gli elementi, oggettivo e soggettivo, di un abuso, non è loro precluso respingere una domanda.

IL DEF È BUGIARDO, ELETTORALE E DELUDENTE (COME SEMPRE) MA LA SCOMMESSA RENZI VA VINTA AD OGNI COSTO

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Inutile nasconderlo, finora Renzi è stato deludente, e il renzismo ancora di più. Sì, il “rivoluzionario” capo del Pd e presidente del Consiglio sta contribuendo ad abbattere molti tabù, a infrangere molti miti che la sinistra comunista e sindacale, così come quella radical-chic, aveva coltivato nel corso dei decenni. E non è certo cosa da poco. Ma tutto questo deve riuscire a trasformarsi nella nascita di una vera sinistra pragmatica, che soppianti quella ideologica e di conseguenza spinga la destra a fare un altrettanto indispensabile salto di qualità programmatica. Invece, il populismo che Renzi e suoi maneggiano – anche se (parzialmente) giustificato dalla necessità di fronteggiare Grillo in vista delle elezioni europee – va in tutt’altra direzione.

Prendete il Def: il documento previsionale del governo indica numeri non credibili. Mentre i dati sulla produzione industriale ci dicono che la crescita manifatturiera nel primo trimestre sarà di mezzo punto e quindi ancora meno sarà quella del pil, tanto che le rilevazioni anticipatrici Ocse indicano un profilo piatto del prodotto lordo a metà anno, il Def mette nero su bianco ipotesi di crescita dell’economia irrealistiche: lo 0,8% di quest’anno è di almeno 2-3 decimi di punto sopra tutte le previsioni, nazionali e internazionali, con uno scarto in eccesso tra il 25% e il 37%, mentre l’1,3% indicato per il 2015 è poco giudicabile per le troppe variabili che influiscono (l’1,9% previsto dal Def nel 2018 è addirittura un numero al lotto) ma comunque appare anch’esso sovrastimato se confrontato con altre previsioni. Differenze, queste, che ovviamente incidono sul rapporto che misura il pil raffrontato al deficit (sul 2,6% non ci giurerei proprio, tanto che l’Fmi già dice 2,7% senza aver scontato gli effetti della manovra di Renzi) su cui può aprirsi il contenzioso con l’Ue. Nello specifico, Renzi prevede una manovra strutturale – il taglio delle tasse – coperta (si fa per dire) in misura consistente da una tantum (le entrate Iva derivanti dal pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni, che non rappresentano nuove risorse, e la tassa a carico delle banche per la plusvalenza sulla cessione delle azioni di Bankitalia da loro possedute) che producono un equivalente ammanco nei prossimi esercizi, e per il resto da tagli di spesa in parte del tutto ipotetici e per 3 miliardi (sui 10 complessivi degli sgravi Irpef) relativi a risparmi già impegnati nell’ultima manovra del governo Letta. Il tutto per mettere in tasca i famosi 80 euro a qualche milione di italiani – ma non a tutti quelli indicati, se si considera l’incidenza degli interventi sulle detrazioni – che neppure sappiamo se li spenderanno (a beneficio dell’economia) o li risparmieranno (a beneficio loro).

Detto questo, però, che a criticare il Def della ditta Renzi&Padoan, per di più con parole sprezzanti, siano gli estensori di quelli precedenti (compreso quando si chiamava Dpef) che alla prova dei fatti si sono rivelati tutti straordinariamente fallaci, sia per eccesso (crescita pil) che per difetto (rapporto deficit-pil e debito-pil), beh è un po’ troppo. Non facciamo i finti tonti: il Def è un documento politico, usato (da tutti) con logiche politiche. E siccome negli ultimi vent’anni la politica è stata ridotta a mera comunicazione, il Def è alla fin fine uno strumento di marketing e comunicazione politica. È stato così con i governi di centro-destra e centro-sinistra che si sono alternati – facendosi la guerra ma mantenendo la stessa cifra comportamentale – ed è stato così persino con l’esecutivo del tecnico Monti e quello di grande coalizione di Enrico Letta. E pure Renzi il rottamatore in questo passaggio non compie alcuna rivoluzione: il Def resta il libro dei sogni, che è sempre stato. Anzi, Renzi il gran comunicatore ne accentua ancora di più l’elemento immaginifico.

Come si vede, si tratta di una politica “continuista” con quelle precedenti. Dunque tacciano coloro che hanno posto la firma o lasciato le loro impronte digitali sui documenti programmatici e sulle manovre di bilancio del passato. Ma nello stesso tempo si eviti di far passare per rivoluzionario ciò che tale proprio non è. Altrimenti, se Renzi avesse messo in campo un intervento strutturale sul debito usando il patrimonio pubblico e chiedendo a quello privato di concorrere – come gli è stato suggerito, al pari di Monti e Letta, da molti autorevoli economisti e opinionisti, oltre che più modestamente dal sottoscritto, purtroppo tutti fin qui inascoltati – allora come avremmo dovuto definire quella manovra, sovversiva? Abbassiamo tutti i toni, e riportiamo le cose nel loro alveo. Renzi ha messo in campo un intervento che a voler essere positivi è pensato per risollevare il morale alla truppa – e Dio solo sa quanto il Paese abbia bisogno di ritrovare la fiducia e tornare a crederci – e a voler essere malevoli (nel senso andreottiano del termine, si fa peccato ma ci si azzecca) è di carattere elettorale. Sia per il merito della manovra (diamo agli italiani che ne hanno più bisogno, togliamo a banche e grandi burocrati, tagliamo sprechi e privilegi), sia per il modo (non strutturale) con cui è stata costruita, sia per la “narrazione” (copyright Vendola) che la circonda, essa appare – vistosamente, anche – un modo per arginare con ampio uso di anti-politica la forza elettorale di Grillo ed evitare che le elezioni europee siano la bara della prova di forza renzista. Poi, superato lo scoglio elettorale, tutto tornerà in discussione, contando sulla proverbiale memoria corta degli italiani.

Ma, attenzione: messa così può suonare come una condanna senza appello del populista (buono) Renzi. In realtà, la necessità che il gioco del giovin fiorentino riesca è assoluta, e deve indurre anche i più scettici a valutare il tutto inforcando occhiali politici spessi. Perché se l’operazione dovesse fallire, magari per la saldatura tra i frustrati del Pd e i pentastellati, o per un risultato alle europee deludente, allora sì che si aprirebbe una fase drammatica, al cui confronto le forzature furbine di Renzi finirebbero con l’essere decisamente il male minore.

Se la Commissione torna leader

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Alle elezioni del Parlamento europeo potremmo per la prima volta esprimere la nostra preferenza anche per il prossimo presidente della Commissione europea grazie alla scelta delle principali formazioni politiche paneuropee di presentare un proprio candidato alla guida dell’esecutivo di Bruxelles. 

Commentatori e opinionisti si sono finora concentrati sugli aspetti più immediati e superficiali di questa novità. Con una netta prevalenza dei giudizi scettici o negativi. Da un lato, si evidenzia la futilità, per la democrazia europea, di questa innovazione politica, avendo la Commissione un ruolo sempre più defilato rispetto a quello del Consiglio. Dall’altro si mette in guardia contro i pericoli di un’eccessiva politicizzazione della Commissione, che ne minerebbe il ruolo di guardiana imparziale dei trattati.

Ciò che queste critiche paiono non (voler) cogliere, tuttavia, sono le conseguenze strutturali che la nuova procedura elettorale potrebbe avere sull’Ue, cambiandone gli equilibri politico-istituzionali e dunque anche il contesto analitico rispetto al quale la politicizzazione della Commissione deve essere letta e giudicata. 

Fermo restando che molto in questa trasformazione dipenderà da una serie di fattori che sono ancora poco chiari – in primo luogo quanto i partiti nazionali e i media sapranno trasmettere il significato e la portata della nuova procedura presso gli elettorati europei – gli effetti principali dell’elezione del presidente di Commissione si possono riassumere nel rafforzamento delle due principali istituzioni sovranazionali, ossia la stessa Commissione e il Parlamento, a scapito degli stati membri.

Testa a testa tra il Pse e il Ppe 
Il rafforzamento del Pe riguarderebbe, evidentemente, soprattutto la nomina del prossimo presidente di Commissione – un passaggio cruciale nella ridefinizione (o meno) del nuovo “assetto costituzionale” dell’Ue.

Il Trattato di Lisbona conferisce il potere di scegliere il presidente della Commissione congiuntamente al Pe e al Consiglio europeo: quest’ultimo propone un candidato (“tenendo conto” dell’esito elettorale) che sarà poi eletto dal Parlamento. 

L’avversione del Consiglio (e in particolare del suo membro più influente, la Germania) verso l’idea di un’elezione indiretta del presidente, che di fatto svuoterebbe il potere di proposta degli stati membri, è nota. Tuttavia è abbastanza improbabile che di fronte alla chiara vittoria di uno dei candidati, il Consiglio voglia aprire uno scontro con il Pe (e indirettamente con l’elettorato europeo), rifiutandosi di seguire le indicazioni delle urne. 

Il problema è che questa chiara vittoria con ogni probabilità non avrà luogo. Stando ai sondaggi, le elezioni saranno un testa a testa tra il Pse e il Ppe, in cui il partito vincitore potrà comunque vantare solo una maggioranza relativa di voti e seggi. 

Quasi sicuramente, quindi, il prossimo presidente di Commissione dovrà essere eletto da una coalizione, ed è probabile che questa sarà alla fine una grande coalizione con socialisti e popolari come maggiori (o soli) azionisti. 

Il Consiglio potrebbe essere tentato di approfittare di una situazione simile, proponendo un candidato terzo ed esterno alla competizione elettorale – cosa che finirebbe per annullare qualsiasi effetto della nuova procedura. Per il Pe e i partiti europei sarà dunque di vitale importanza tenere il punto sul candidato di maggioranza relativa, anche se lo scarto che lo separa dal secondo classificato, chiamato a fare un passo indietro, dovesse essere minimo. 

Legittimità del presidente della Commissione
Così eletto, il nuovo presidente di Commissione potrà contare su un grado di legittimità democratica senza precedenti nella storia dell’Unione che potrà a sua volta non solo renderlo più influente nella scelta dei restanti commissari e rafforzarlo nella guida del Collegio nel suo complesso, ma anche e soprattutto conferire alla Commissione maggiore autonomia e potere nell’esercizio delle sue funzioni di iniziativa legislativa ed esecuzione delle norme europee. 

Forte della legittimazione popolare, infine, il nuovo presidente potrà anche ravvivare quel ruolo più generale di leadership politica del processo di integrazione che la Commissione sembra aver perso negli ultimi anni.

Tutto ciò, sia chiaro, non è da leggere come un’improvvisa (nonché caricaturale) trasformazione della Commissione nel dominus dell’Unione. Anche nel migliore degli scenari possibili per la Commissione, gli stati membri continueranno ad avere un ruolo importante nella formazione e nell’applicazione delle norme europee, e diversi strumenti per far rispettare i propri diritti qualora questi siano violati. 

Ciò di cui si parla, piuttosto, è un riequilibrio tra poteri nell’Ue, nel quale la Commissione si sposterà dall’ibrido (tra segretariato internazionale, agenzia indipendente ed esecutivo federale) che rappresenta adesso, in direzione di un modello di governo tradizionale. 

Commissione partigiana?
Alla luce di tutto ciò, quella che rimane forse la critica più forte alla nuova procedura, ossia che essa genererà tensioni dovute alla nuova natura “partigiana” della Commissione, appare non tanto errata quanto mal posta. Quello che ci si deve chiedere, infatti, non è se sia opportuno avere una Commissione politicizzata a guardia dei trattati, ma piuttosto se siamo pronti ad accettare che la Commissione intraprenda questo cambiamento di natura verso un vero e proprio esecutivo.

Se la risposta è sì, molte delle obiezioni a una Commissione politicizzata si sgonfiano fino a diventare problemi per lo più tecnici di separazione tra funzioni di governo e garanzia che con mezzi altrettanto tecnici (come la creazione di agenzie indipendenti e maggiore trasparenza amministrativa) possono essere risolti. 

Il dragone sommerso a Prato

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Un centro di ricerca a Prato per lo scambio tecnologico con la Cina nel settore tessile e dei nuovi materiali. Una collaborazione con alcune delle maggiori università e centri di ricerca cinesi. Un volo diretto Pisa-Shangai per collegare, senza intermediari, la storia del tessile italiano con una delle più importanti città dell’Asia e con la vicina Zhejiang, una delle più attive provincie della Repubblica Popolare nel campo dell’abbigliamento. 

Sono i progetti che la Regione Toscana e le amministrazioni di Pisa, Prato e Firenze stanno mettendo in campo per dare sempre più corpo e basi legali a una partnership tanto proficua quanto problematica, che oggi ancora divide nell’analisi dei vantaggi e dei danni arrecati al settore tessile italiano dall’avvento del “Made in Italy cinese”.

Processo di agglomerazione
La prima vera ondata migratoria cinese a Prato si registra intorno all’inizio degli anni Novanta. Ciò coincide con una fase di declino e successiva ristrutturazione del distretto tessile, dovuta a una crisi del tipo di specializzazione locale (la lavorazione della lana rigenerata) e a una successiva ripresa accompagnata dallo sviluppo di un comparto a minor valore aggiunto (quello della maglia), che ha portato con sé un incremento della domanda di forza lavoro poco qualificata, specialmente per l’attività di cucitura. 

Attratti dalla possibilità di inserirsi in un comparto lasciato libero dai lavoratori locali e caratterizzato dalla semplicità del processo produttivo e dal basso capitale necessario per mettersi in proprio, molti cinesi provenienti da altre parti d’Italia o d’Europa o direttamente dalla Cina (specialmente dalla cintura della città di Wenzhou, provincia dello Zhejiang) diedero vita a un rapido processo di agglomerazione, che nel giro di pochi anni ha visto aumentare esponenzialmente sia il numero di individui che il numero di nuove imprese. 

Pronto moda
A livello imprenditoriale, è stato osservato come l’ascesa cinese a Prato sia interessante perché non va ad inserirsi all’interno della specializzazione che più caratterizzava il – distretto – quella tessile – ma in un tipo di produzione al tempo minore – l’abbigliamento – che si sviluppa su larga scala proprio grazie all’arrivo dei cinesi. 

Ed è soprattutto grazie all’arrivo dei cinesi, tra l’altro, che a Prato si sviluppa un nuovo sistema produttivo, quello del cosiddetto “pronto moda”, che meglio si adatta alle nuove dinamiche dei mercati internazionali. 

Ben presto, i primi gruppi di cinesi seppero crescere trasformandosi da semplici sub-fornitori a basso costo per le imprese locali a vere e proprie piccole imprese finali in contatto diretto con il mercato. L’esempio di questi primi nuovi imprenditori ha messo in moto un processo imitativo da parte di altri piccoli fornitori e nel giro di poco tempo ha sviluppato un vero e proprio modello di divisione del lavoro a livello locale che ha coinvolto un numero ancora maggiore di imprese cinesi. 

Tra la fine degli anni Novanta e gli anni più recenti il numero di imprese cinesi è quasi quintuplicato, non solo grazie a un nuovo incremento di imprese finali e sub-fornitori nel settore, ma anche grazie allo sviluppo di attività complementari, specialmente nei servizi al commercio. 

Lavoro sommerso
Oggi, a oltre vent’anni dall’insediamento cinese a Prato, molto ancora si dibatte sugli effetti economici, sulla componente sommersa e sulle questioni legate all’integrazione. Riguardo all’impatto economico, si rilevano almeno due tesi contrapposte: la prima è che l’arrivo dei cinesi a Prato abbia contribuito in modo significativo al declino del sistema produttivo locale; la seconda è che – al contrario – proprio grazie all’arrivo dei cinesi il distretto sia riuscito a ristrutturarsi in modo tale da poter affrontare al meglio le dinamiche dei mercati globali – e che quindi l’esistenza stessa del comparto sia stata salvata dall’arrivo dei cinesi. 

Come spesso accade, la verità sta nel mezzo, ed è molto più complessa di quanto si possa derivare da queste semplici proposizioni. La componente “sommersa” della presenza cinese – quella delle migliaia di lavoratori giunti illegalmente (stimati in circa 7.000 unità) e impegnati in attività lavorative fuori controllo e spesso in situazioni estreme – è innegabilmente il fulcro della questione. È soprattutto a causa del sommerso che le statistiche tradizionali non sono finora riuscite a quantificare il peso reale della quota cinese sull’economia di Prato. 

A questo riguardo, è da segnalare un recente lavoro a cura di un gruppo di ricercatori dell’Irpet che – combinando statistiche ufficiali con metodi di stima basati sul consumo delle risorse (come la quantità di acqua utilizzata nel processo produttivo) – ha stimato che l’attività delle aziende cinesi contribuisca per 14,3% della produzione totale e per il 10,3% del valore aggiunto della provincia, con un picco del 45% per il solo settore tessile. 

Oltre agli aspetti prettamente economici, il caso di Prato merita attenzione anche per gli aspetti legati al processo di integrazione sociale di una comunità cinesi oggi tra le più grandi d’Europa. Se fino a poco tempo fa vi era una netta separazione tra la comunità locale e quella cinese, l’espandersi all’interno del secondo gruppo di una generazione di nuovi nati nella provincia (un quinto degli attuali residenti, non potrà far altro che contribuire positivamente al processo di integrazione culturale, sociale ed economica negli anni a venire. 

La scossa di Kiev arriva in Medio Oriente

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La situazione mediorientale, con l’intreccio delle crisi per le quali si erano aperti diversi percorsi negoziali nei mesi scorsi, rischia di risentire sensibilmente della vicenda ucraina e della contrapposizione che questa ha determinato tra Stati Uniti ed Europa da un lato e Russia dall’altro. Su queste prospettive incideranno naturalmente gli esiti dei tentativi di componimento in corso tra statunitensi e russi.

Siria e Iran 
La gestione della crisi siriana, con lo smantellamento dell’arsenale chimico che è ora in affanno, e il negoziato con l’Iran sulla sua capacità nucleare sono basati sull’intesa tra i grandi attori esterni e sulla loro capacità di influire sugli attori regionali e locali riconoscendone e componendone gli interessi laddove ciò sia possibile e tali interessi siano politicamente e moralmente considerabili.

La rischiosa minaccia di intervento militare occidentale in Siria e l’adesione da parte di Bashar Assad alla provvidenziale, ma strumentale, pressione russa e iraniana affinché le sue armi chimiche siano distrutte hanno contribuito al suo rafforzamento e al sostanziale venir meno della possibilità di basare una soluzione negoziata sulla precondizione del suo previo allontanamento, posta quando gli equilibri nel paese erano alquanto diversi. 

Al tempo stesso le forze jihadiste hanno consolidato la loro forza sul terreno mentre si sono accentuate le divisioni tra Turchia e Qatar da un lato e Arabia Saudita dall’altro all’interno del campo dei sostenitori dell’opposizione. 

Resta il fatto che una riconduzione della Conferenza di Ginevra richiede una forte intesa tra Stati Uniti e Russia (e Iran), oggi più difficile. Soltanto una convergenza sulla priorità di combattere il jihadismo potrebbe modificare questa situazione. 

Anche per il negoziato con l’Iran la convergenza e l’unità di intenti tra statunitensi, europei e russi, oltre ai cinesi, è essenziale. Il primo rischio è ovviamente che l’Iran approfitti di queste divisioni per svincolarsi dagli impegni che gli sono richiesti. 

Ma in questo caso pagherebbe il prezzo di rafforzate sanzioni occidentali e l’intensificazione della instabilità nella regione il cui superamento sembra essere diventato un obiettivo prioritario per la dirigenza iraniana, sia pure in presenza di contrasti e di resistenze al suo interno, al fine di uscire dall’isolamento e spostare in suo favore gli equilibri nell’area. 

È significativo che Teheran non abbia risposto in modo entusiastico alla richiesta russa di solidarietà sull’Ucraina ed abbia contestualmente offerto al pari degli Stati Uniti, con un certo irrealismo per il breve periodo considerati i tempi tecnici necessari, di diventare grande fornitore alternativo di gas all’Europa.

Le risorse del Medio Oriente
I due fattori della lotta al nemico comune jihadista per Occidente e Russia e di una volontà iraniana di diventare attore positivo e stabilizzante nella regione per valorizzare al massimo le proprie potenzialità economiche, non soltanto nel settore energetico, e rafforzarvi la propria influenza, potrebbero quindi ridare alimento alle volontà di grande intesa nella regione e forse anche favorire il mantenimento di un dialogo e di una collaborazione tra occidentali e russi utile ad alleviare le tensioni sul fronte europeo, ridiventato inaspettatamente il principale in questa fase.

Non è chiaro se una piena stabilizzazione del Medio Oriente e la piena agibilità delle sue risorse siano viste come una priorità dalla Russia quale grande esportatore di prodotti energetici, al di la di quanto crisi e processi negoziali possano offrigli per riaffermare presenza e ruolo nella regione. Certamente sembra esserlo per la Cina quale grande importatore di idrocarburi e sostenitore di un nuovo grande corridoio logistico tra Asia ed Europa attraverso il Medio Oriente. 

Israele e Arabia Saudita
Restano però da convincere con soddisfacenti e credibili garanzie i due attori regionali più preoccupati da questa prospettiva, e cioè Israele e Arabia Saudita. Riguardo a quest’ultima, che non a caso ha recentemente attivato un canale di comunicazione con la Russia, non è ancora dato di sapere quanta diffidenza si sia potuta effettivamente dissipare nella visita del Presidente Barack Obama a Riad per ridare vigore ad una alleanza che ha profondamente marcato per molti decenni lo scenario energetico mondiale e le vicende mediorientali.

L’alternativa a questa grande intesa sarebbe prevedibilmente la continuazione e l’esasperazione delle crisi in corso con l’estensione del conflitto siriano al Libano, la continuazione di una pericolosa involuzione repressiva in Egitto e rischiosi sviluppi riguardo a una prosecuzione senza controlli del programma nucleare iraniano. 

Le forti tensioni che ne seguirebbero avrebbero conseguenze anche sulla situazione afghana e sull’ulteriore peggioramento delle condizioni di sicurezza, di governance e quindi di effettiva ripresa economica in Iraq ove dopo le imminenti elezioni gli accordi inclusivi che si renderanno necessari, siano essi costituiti o meno attorno a Maliki, potranno essere sostenibili e riportare una pace definitiva nel paese soltanto se saranno favorite da tutti gli attori della regione.

Nuova voluntary da settembre

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La voluntary disclosure rivista e aggiornata entro settembre 2014 mentre l’attuazione della delega fiscale, a eccezione della riforma del catasto, definita entro marzo 2015 a «ritmo accelerato». Il taglio Irpef per i redditi medio bassi, invece sarà avviato a partire da maggio 2014 in via transitoria per i dipendenti che percepiscono oggi 1.500 euro mensili netti in busta paga. Il decreto che conterrà la misura, ha annunciato, ieri il capo del governo, Matteo Renzi, a conclusione del consiglio dei ministri che ha approvato il documento economico finanziario, sarà approvato entro il 18 aprile.  Accanto a questa misura, che a regime dovrà essere finanziata dalla revisione di spesa, arrriverà il taglio dell’Irap di almeno il 10% attraverso il contemporaneo aumento della tassazione sulle attività finanziarie. 

Tagli del cuneo fiscale e dell’Irap. Nel documento del governo Renzi si legge che «è necessario dare ossigeno alle imprese e alle famiglie riducendo il cuneo fiscale e aumentando il reddito disponibile soprattutto per le famiglie maggiormente segnate dalla crisi, con effetti positivi sui consumi e sulla crescita. Il taglio andrà in dote, dal 2015, a lavoratori dipendenti e assimilati (co.co.co.). Nel documento si legge che «già a partire da maggio 2014, in via transitoria i dipendenti che percepiscono oggi 1.500 euro mensili netti da Irpef conseguiranno un guadagno in busta paga di circa 80 euro mensili». La ricetta ipotizzata dal governo ha come fine quello di rilanciare i consumi e le prospettive di crescita.
Accanto all’ossigeno per le persone fisiche la seconda misura studiata da Matteo Renzi guarda alle imprese con la riduzione della tassazione sul lavoro «non appena vi saranno le risorse necessarie». Nel breve periodo il segnale che l’esecutivo lancia è quello di una prima riduzione fiscale con il taglio dell’Irap del 10%. Sul punto, è scritto nel programma nazionale di riforme, sarà predisposto uno specifico provvedimento a breve.