A cura di Giuseppe Catapano
Il dato che conta di più non è quello del valore assoluto del debito ma quello del rapporto percentuale con il pil. Gli Stati Uniti hanno uno stock di debito oltre dieci volte superiore al nostro: 33 mila miliardi di dollari, che, a politiche invariate, è destinato a superare i 40 mila miliardi già l’anno prossimo. Ma in rapporto al pil, questi numeri corrispondono al 122% e al 131%, percentuali inferiori, anche se non di molto, alle nostre. Inoltre, nel rapporto debito-pil occorre valutare se è troppo il numeratore o poco il denominatore. Nel caso italiano, sono vere entrambe le cose: abbiamo un debito eccessivo a fronte di un prodotto interno lordo inferiore alle necessità e possibilità. Questo significa che non abbiamo fatto troppo debito, ma anche e soprattutto che lo abbiamo usato male, perché non ha contribuito a generare pil in modo proporzionato, essendo stato utilizzato prevalentemente per coprire spesa corrente improduttiva anziché per sostenere gli investimenti. E anche la contrazione di quasi 19 punti del rapporto debito-pil oggi sbandierata, è frutto di due mega operazioni assistenziali come il reddito di cittadinanza e il superbonus – che il governo Meloni ha fatto bene a smantellare, pur non senza errori e contraddizioni – che hanno sì generato pil, la prima sostenendo i consumi e la seconda spingendo l’edilizia, andando ad alzare il denominatore del rapporto con il debito, ma si è trattato di pil drogato, per sua natura momentaneo e non destinato ad autoriprodursi.
Crescita dello “zero virgola” vuol dire impatto negativo sui conti pubblici, sul cui riequilibrio sono stati presi impegni vincolanti in sede europea nell’ambito del nuovo patto di stabilità. Per questo, tornando al debito e alla sua sostenibilità, sarebbe bene accantonare l’ottimismo malriposto e l’ancor più pericoloso fatalismo che sembra aver conquistato tanto i palazzi romani quanto i consigli di amministrazione delle imprese, e usare l’effetto emotivo che suscita quel numero con dodici zeri dopo il 3 per spiegare al Paese che è indispensabile un’operazione di rientro di natura straordinaria. I cui termini sono stati spiegati mille volte, e altrettante volte lasciati cadere nel vuoto della perniciosa atarassia che ci pervade. Dalla quale non aiuta a scuotersi lo stucchevole ritornello che risuona da qualche tempo sulla meravigliosa “stabilità italiana” assicurata dalla “potente” presidente del Consiglio, e che peraltro fa da pendant all’altrettanto insopportabile coro di denigrazione preventiva e preconcetta elevato nei confronti di Giorgia Meloni.
Detto questo, Meloni è sicuramente un fattore di stabilità. Ma dalla continuità che assicura, l’Italia ha tratto e trae la forza, morale prima ancora che pratica, per scrollarsi di dosso i tanti fattori paralizzanti – politici, istituzionali, economici, sociali, culturali – che negli ultimi tre decenni l’hanno resa un paese in declino strutturale? Oppure è e resta ferma, preda di quella sindrome che il Censis ha efficacemente definito “continuità nella medietà”? Perché se, come tanti segnali ci inducono a pensare, siamo intrappolati “in quella linea di galleggiamento che ci impedisce di incorrere in capitomboli rovinosi nelle fasi recessive ma anche di compiere scalate eroiche nei cicli positivi” (come recita l’ultimo rapporto Censis), il compito di una leadership è quello di usare il potere acquisito, e la sua continuità nel tempo, per svegliare il paese dal sonnambulismo (altra definizione deritiana) che lo rende amorfo, impermeabile ai cambiamenti.