8 Settembre 2024, domenica
HomeL'OpinioneDEMOCRAZIA in agonia

DEMOCRAZIA in agonia


A cura del Prof. Avv. Giuseppe Catapano

Se è vero che per guarire un ammalato la giusta cura non può che derivare da una diagnosi efficace, continuare a credere e far credere che l’Italia sia o già morta o sia perfettamente sana, è il modo peggiore per fare l’anamnesi e di conseguenza definire la terapia. E questo vale per le condizioni della macro economia, e in particolare per quelle della finanza pubblica, le cui difficoltà facciamo finta di non vedere salvo quando siamo costretti o per i controlli di Bruxelles – e allora definiamo matrigna l’Europa – o per i segnali che ci mandano i mercati con gli spread, che preferiamo immaginare pronti a ordire complotti contro di noi per volontà di chissà quali “poteri forti”. Vale per le condizioni del nostro capitalismo, che giudichiamo in modo ideologico: ricco, sporco e cattivo per le componenti più radicali di sinistra e destra, virtuoso per gli altri, senza per esempio misurare il basso tasso di disponibilità all’innovazione e l’alto tasso di propensione ad attaccarsi al bocchettone dei sussidi e della spesa pubblica. E vale per la società, per giudicare la quale si misurano solo i redditi, e per di più dimenticando l’amplia fascia di sommerso, e non i patrimoni, che rimangono più alti e più vastamente diffusi che negli altri paesi occidentali, nonostante la recente erosione dei risparmi.

Ebbene, questa Italia, figlia del boom economico, cioè quando da paese agricolo ci eravamo trasformati in una grande potenza industriale, sta lentamente ma inesorabilmente scomparendo, consumando l’eredità dei padri e dei nonni. La ricchezza degli italiani nel solo 2022 è diminuita del 12,5% e il tasso di risparmio, che 20 anni fa era del 15%, oggi è della metà, mentre negli altri grandi paesi europei si accumula il doppio, ed è inferiore a quello che avevamo nel pieno della crisi dell’euro. Nelle mani delle famiglie restano comunque 5300 miliardi di risorse finanziarie, quasi due volte l’intero ammontare del debito pubblico, ormai prossimo ai 3 mila miliardi. Ma si tratta di risorse mal alloccate. Il grosso va ai titoli di Stato, cosa utile per la sostenibilità del debito nazionale ma disfunzionale rispetto alla crescita visto che la quota destinata al capitale di rischio non arriva al 15% del totale.

Dunque, il patrimonio è ancora molto, ma decisamente mal alloccato, e si sta erodendo. Anche perché nell’ultimo quarto di secolo prima della pandemia, cioè in una fase storica in cui tutto si espandeva, la nostra economia è cresciuta poco o niente, accumulando un gap rispetto ai principali concorrenti nella competizione globale, che oggi, nel quadro della drammatica incertezza geopolitica in cui viviamo, è molto difficile, per non dire impossibile, colmare. Specie se continua la narrazione di comodo (e, ancor più grave, frutto di crassa ignoranza) sulle origini delle nostre difficoltà. In questi anni è infatti passata l’idea che il benessere ci sia stato sottratto dall’avvento della moneta unica europea, dalla globalizzazione, dalla rivoluzione digitale, insomma dagli incredibili cambiamenti avvenuti nel mondo che ci avrebbero sottratto i nostri privilegi. Mentre la responsabilità è solo nostra. Di una classe dirigente che non ha avuto visione e lungimiranza, praticando la politica delle illusioni, e della vecchia struttura della società che ha preferito difendere le rendite di posizione piuttosto che affrontare a viso aperto le sfide della modernità.

 La ricchezza diffusa, quella che ha creato il ceto medio più vasto del mondo  si è consentita un livello di benessere tra i più significativi al mondo, anche perché accompagnato da straordinarie eccellenze in quei diversi ambiti che abbiamo definito “made in Italy”. Solo che si è votata, quella società, più a consumare la ricchezza accumulata che a crearne di nuova, assecondata da una classe politica che ha preferito costruire strumenti per mantenere quei livelli di consumo – dalla bonus economy alla tolleranza dell’evasione fiscale e del “nero” – invece che tornare a scatenare gli animal spirits, quelli che secondo la definizione keynesiana hanno dato vita alla stagione della “crescita felice”. Ora il giocattolo si è rotto. Perché in un mondo che corre velocemente, spinto da innovazioni epocali come l’intelligenza artificiale – verso cui è significativa la diffidenza che il sistema paese Italia mostra – la società del benessere conservativo non è fatta per reggere la competizione.

Ci vorranno anni perché le fila del grande ceto medio italico si assottiglino, trasformandoci in una “società miserabile di massa”. Ma è del paese che lasciamo ai nostri figli e nipoti, quello di cui stiamo parlando. Ed è a questa prospettiva, da rovesciare, che dovrebbero guardare coloro che, a destra come a sinistra, continuano ad ignorare i numeri e a chiudere gli occhi di fronte alla realtà.

Sponsorizzato

Ultime Notizie

Commenti recenti