L’incriminazione di occultamento o distruzione della contabilità passa sovente dalla corretta definizione dei profili soggettivi che qualificano il soggetto agente in riferimento al collegamento con la norma violata.
Nel momento in cui ci si muove all’interno del perimetro normativo che racchiude i delitti, aventi matrice penale tributaria, si ha immediatamente la percezione del fatto che gli illeciti contemplati dal D.Lgs. 74/2000, così come perlopiù avveniva sotto il vigore della L. 516/1982, sono inclusi nel novero dei cc.dd. “reati propri”, ovverosia una categoria di delitti che possono avere come referente soggettivo un autore a cui sia riconosciuta un’indispensabile qualificazione giuridica (elemento di diritto) o anche una prerogativa rilevante soltanto “in fatto”, che in ogni caso riconnetta il soggetto agente con il bene tutelato dalle norme di riferimento.
L’evasione diretta, così come le condotte prodromiche ad essa, sempre che ci si muova all’interno di una latitudine penalmente rilevante, possono essere realizzate solo da colui che, rispetto alla determinazione contributiva, si possa qualificare come un intraneus. La giurisprudenza però, in mancanza di precise prescrizioni legislative, in alcuni casi ha inteso sovvertire tale ordine, giungendo ad attribuire, in maniera piuttosto incerta, la natura di reato comune a talune fattispecie cui tale connotazione non sempre si attaglia alla perfezione: la principale ipotesi delittuosa che costituisce oggetto di interesse in tale contesto è rappresentata dall’illecito previsto ai sensi dell’art. 10 D.Lgs. 74/2000, concernente l’occultamento o la distruzione di contabilità.
Ultima in ordine di tempo, si segnala la Cass. Pen. Sez. IV, sent. 12.07.2022, n. 34978. Dall’arresto indicato emergono interessanti spunti di riflessione sulla definizione del soggetto attivo del reato, con riferimento all’agente formalmente estraneo rispetto alla gestione dell’impresa, ad appannaggio della quale risulta realizzato l’occultamento contabile.
Nello specifico si rileva come i Giudici di Piazza Cavour abbiano seppur sommariamente evidenziato la rilevanza di reato comune del delitto di occultamento della contabilità, al cospetto – comunque – delle scarne proposizioni difensive. In particolare è stato chiarito che l’illecito di cui si discorre non integrerebbe mai un’ipotesi di reato proprio, in quanto può essere commesso da “chiunque”. Si sottolinea in più l’irrilevanza del fatto che il soggetto imputato sia, o meno, amministratore dell’ente cui si riferiscono i documenti contabili occultati o distrutti.
Altra specificazione aggiunta, che costituisce sovente oggetto di discussione, attiene al fatto che il delitto in oggetto, per la sua configurabilità, non richiederebbe che si verifichi in concreto un’impossibilità assoluta della ricomposizione del volume d’affari o dei redditi, essendo sufficiente anche una impossibilità relativa, non esclusa qualora a tale quantificazione si possa addivenire attingendo dati informativi in un diverso contesto (ad esempio, presso terzi soggetti).
Pur se condivisa nella correttezza del metodo e nella corretta valutazione del compendio probatorio disponibile, ciò che non convince e desta perplessità è la conclusione radicale di considerare il delitto di occultamento come un reato comune. Difatti si ritiene che tale qualificazione, seppur ammissibile con riferimento alle ipotesi di dolo di “evasione altrui”, non può sicuramente dirsi qualificatoria con riguardo alle ipotesi di “evasione propria”.
Ciò che non convince, inoltre, riguarda lo scollamento radicale tra la configurazione dell’illecito in argomento e i profili soggettivi che caratterizzano l’obbligo di istituzione, tenuta e conservazione della contabilità.