4 Dicembre 2024, mercoledì
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Destra e Sinistra ci riflettano

A cura di Giuseppe Catapano

I francesi  sono andati a votare alle elezioni regionali – due su tre sono rimasti a casa – convinti dalle indagini demoscopiche che avrebbe stravinto Marine Le Pen e il suo Rassemblement national , e si sono svegliati il giorno dopo con i redivivi gollisti di Xavier Bertrand ad aver messo le premesse perché al secondo turno siano loro i vincitori. E stiamo parlando di sondaggi fatti alla vigilia del voto. Figuriamoci quanto possano essere rappresentativi della (mutevole) volontà degli elettori quelli che, come nel caso italiano, anticipano di mesi e anni le urne. Eppure, tutti gli attori del nostro scombiccherato sistema politico sono dipendenti dalle rilevazioni sulle intenzioni di voto come i tossici lo sono dalla droga. E da quelle (presunte) indicazioni fanno discendere ogni loro comportamento politico, dalle scelte strategiche (o che tali ritengono siano) o alla piccola tattica quotidiana. Ne sono un esempio le convulsioni che attraversano il centro-destra da quando è iniziata la crescita, espressa dai sondaggi, di Fratelli d’Italia. Quasi che fossero già voti acquisiti e seggi conquistati, la Meloni si comporta come se le aspettasse di diritto lo spazio politico conseguente , mentre Matteo Salvini e Silvio Berlusconi (o chi per lui) hanno deciso di reagire rimodulando i loro comportamenti. Ed è dentro questo ingannevole equivoco che è nata l’idea di federare prima e fondere poi Lega e Forza Italia, nella (infondata) convinzione di poter frenare lo “strapotere” della destra ex An. 

Ma anche a sinistra andrebbe fatto il doping ai malati di sondaggite. Basta vedere il rumore che ha fatto in casa Pd un sondaggio che lo dava, unico rispetto a tutti gli altri campionamenti, al primo posto in classifica (come se la competizione politica fosse un campionato di calcio con uno che vince lo scudetto e gli altri che si devono accontentare di ruoli minori). Persino il sobrio Enrico Letta si è fatto prendere dal sondaggio favorevole, traendone la conclusione – sbagliata – che il suo appeasement con Conte e i 5stelle sia pagante presso l’elettorato. E a proposito di pentastellati, che dire del 15% abbondante di cui vengono accreditati dai sondaggi rispetto ai loro riprovevoli comportamenti e ai disastrosi risultati che hanno perseguito sia in sede di governo nazionale che nelle amministrazioni locali dove hanno espresso il sindaco? A me sembra un’enormità, tanto più in una fase storica come questa, in cui fa premio il pragmatismo di Draghi e il suo stile di comportamento e di comunicazione, considerabili esattamente opposti alla loro cifra. Per cui i casi sono due: o i sondaggisti hanno ragione, e allora chi si dovrebbe interrogare con severità sono gli italiani, o hanno torto, e allora a interrogarsi dovrebbero essere i grillini ma soprattutto quelli che ne Pd si ostinano a ragionare in termini di alleanza strategica con loro.

Insomma, se Parigi parla a Roma, come anche se la Sassonia – dove Angela Merkel ha evitato la sconfitta data per certa alla vigilia del voto – parla a Roma, sono molte le lezioni da trarre. La più importante delle quali è che la faticosa uscita dalla pandemia, peraltro non ancora del tutto conclusa, e l’altrettanto difficoltosa uscita dalla crisi economica che essa ha innescato, appena iniziata, richiedono competenze serie e comprovate, idee strategiche non improvvisate e un’esperienza amministrativa di non poco conto. E che gli elettori, di qualsiasi paese europeo essi siano, sono molto meno inclini alla protesta e al cambiamento punitivo che premia i dilettanti, e molto più desiderosi di affidarsi alle “mani sicure” del professionismo politico. In altri termini, meno estremismi ideologici e più pragmatismo, che idealmente si colloca al centro dello schieramento politico. Per questo, i messaggi che arrivano da Francia e Germania parlano, in Italia, anche e soprattutto al “partito che non c’è”, o se si vuole, al “partito di Draghi, senza Draghi” come ho ribattezzato il partito che ci manca da quando l’ex presidente della Bce è arrivato a palazzo Chigi. Sollecitando tutti coloro che ne sentono il bisogno, di darsi da fare per costruirlo al più presto. La domanda di dare rappresentanza politica all’Italia che metterà sulle proprie spalle la “ricostruzione post pandemica” è latente, perché non c’è ancora l’offerta corrispondente, ma nello stesso tempo è forte e precisa.

Il quadro è chiaro. Che all’Eliseo ci sia il sempre più evanescente Macron o il l’emergente gollista Bertrand, e che a Berlino ci sia il democristiano Lachet piuttosto che un rappresentante dei Verdi, che i media avevano prematuramente esaltato, è sempre più evidente che l’uomo cui toccherà garantire la coesione e la continuità europea si chiami Mario Draghi. Una centralità – che non può che fare bene in primis a noi – che lo costringerà a prolungare la sua esperienza di governo fino alla fine della legislatura, rinunciando alla lusinga del Quirinale, che pure lo attrae non poco. Quel che poi accadrà nel 2023 dipenderà da molte variabili: da quale sarà lo stato di salute del paese, da chi sarà salito al Colle nel frattempo – la riconferma di Mattarella offre garanzie di continuità e stabilità che nessun’altra candidatura può pareggiare – e infine da quale sarà il voto degli italiani tra due anni. Il quale, però, dipenderà – è bene ricordarlo – dall’offerta politica di quel momento: è ragionevole pensare che non sarà la stessa del 2018, ma è ancora tutta da definire. Nel novero delle possibilità dotate di buona probabilità, c’è anche  quella di aver ancora bisogno di Draghi. Il quale potrebbe rispondere a questa “chiamata” assumendo la carica di presidente della Repubblica – ma questo solo nel caso in cui Mattarella abbia accettato il secondo mandato e si predisponga a dare le dimissioni una volta fatte le elezioni e insediato il parlamento (nuovo, non solo per via del voto, ma per la decurtazione di un terzo dei suoi componenti prevista dalla stupida legge approvata nel 2019 e confermata dal referendum dell’anno scorso) – ma anche tornando a palazzo Chigi come presidente del Consiglio. Naturalmente questa seconda ipotesi si può configurare solo se il risultato elettorale, nella primavera del 2023, dovesse richiederlo, o comunque consentirlo. La qual cosa dipende da più variabili.

 Credo che partiti che al cospetto di un paese che deve fare uno sforzo immane per vincere definitivamente la partita della pandemia, cancellare la recessione dell’ultimo anno e mezzo, rilanciare la propria economia dandole basi più moderne e solide e fare un discreto numero di quelle riforme strutturali sempre evocate e mai realizzate negli ultimi 25 anni, invece di unire le forze si dividono su un tema certamente meritevole di attenzione come quello dei diritti di genere ma di certo da affrontare in altro momento e con una legge degna dei suoi giusti obiettivi e non come quella mediocre che porta il nome di Zan, beh un partito Draghi anche senza Draghi avrebbe un successo clamoroso.– 
Prof. Avv. Giuseppe Catapano

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